martedì 23 giugno 2015
La nuova Transiberiana ad alta velocità e una Castellina populista
Transiberiana il bello della lentezza
La vecchia linea ferroviaria voluta dallo zarevic Nicola sarà sostituita da una nuova ad alta velocità. Ma questo significa cancellare la Siberia, la sua storia e la sua geografia. Cosa vedrà e capirà il viaggiatore?
Luciana Castellina la Stampa 23 6 2015
Quando qualche anno fa dalla meravigliosa stazione Art Nouveaux di Mosca, la Jaroslawska, sono salita sulla mitica Transiberiana diretta all’altro capo di questa ferrovia che traversa un paese grande il doppio della Cina, mi sono chiesta perché mai i vagoni fossero così affollati di russi. Che un turista viaggi con quel treno si capisce, ma un indigeno: perché mai ? Un aereo per arrivare al di là della Siberia ci mette 7-8 ore e costa pressappoco quanto il treno che di giorni ce ne mette sette. Se non devi scoprire la natura che non hai mai visto, la scelta di questa incommensurabile lentezza mi è apparsa una vera stravaganza.
A viaggio compiuto ho capito che mi ero sbagliata. A guardarli in queste carrozze caserecce nei loro pigiami, indossati sin dal primo giorno, assorbiti da lunghissime partite attorno alle scacchiere subito tirate fuori dalla valigia; eccitati per l’avventura di nuove possibili amicizie, la bottiglia di vodka a portata di mano per saldarle con l’ebbrezza della bevuta; il tè caldo sempre pronto al fondo del corridoio nel samovar accudito dalla hostess ferroviaria qui chiamata provodkina; tanto tempo davanti per non doversi affrettare mai, su nulla, fermi e però in movimento e perciò giustificati nel proprio riposante svago. Insomma, mi è risultato chiaro che la Transiberiana l’avevano scelta perché gli piace proprio in quanto è così lenta. È una pausa nella vita, una vacanza ma non proprio, un divertimento. Chi ha fretta, che prenda pure l’aereo, ma il viaggio diventa lavoro, obbligo, un’altra cosa.
Riposante monotonia
Arrivati nella Repubblica Buriazia tutti noi - il gruppetto di scrittori italiani che viaggiava con me su invito dei colleghi russi - eravamo stati reclutati alla stravagante saggezza dei viaggiatori della Transiberiana. Conquistati anche noi proprio da quanto viene normalmente considerato negativo: giorni e giorni di betulle davanti agli occhi, una monotonia che però riposa, come del resto quella del mare; ore e ore per scrutarci reciprocamente, aprirsi a un’intimità cui senza quella convivenza forzata non avremmo mai avuto accesso; tornati indietro all’atmosfera della gita scolastica.
Adesso che ho saputo di un progetto cino-russo-torinese mirato a sostituire la vecchia linea siberiana - la cui costruzione venne inaugurata nel 1891 dallo zarevic Nicola dal lato di Vladivostok, già in attività dieci anni dopo, nonostante i 16 fiumi e i 7 fusi orari da attraversare, più il rompicapo del lago Baikal di mezzo (un record, di cui non sono certa che potrà vantarsi la nuova linea adesso progettata) - sono assai perplessa. Intanto sarà comunque meno strepitosa: i modellini dei vagoni della Transiberiana esibiti all’Esposizione universale di Parigi nel 1900 erano dotati persino di pianoforte a coda, bagni di marmo, biblioteche e palestre!
Leggo che da Pechino a Mosca ci si metterà solo 24 ore, niente, quasi come un aereo. Come la prenderanno i miei compagni di viaggio, ultimi resistenti all’ossessione della fretta, quelli con cui ho condiviso la vecchia Transiberiana, un treno che non potrebbe essere più No Tav, nelle sue strutture metalliche così come nell’anima degli umani che trasporta?
Un immenso «West»
No, non è nostalgia per come era verde la mia vallata. Conosco il ritornello, ce lo cantano da decenni, da quando cominciammo a parlare di ecologia. E comunque qui non è per via dei guasti alla natura che sono preoccupata, ma per quelli alla storia. Cancellare la Transiberiana vuol dire in qualche modo cancellare la Siberia, e se nessuno avrà più cognizione di questo transcontinente, non riuscirà più a capire tante cose.
Io, per esempio, in Siberia, prima di prendere la Transiberiana, c’ero già stata: fino a Novosibirsk. Avevo preso l’aereo e in poche ore ero piombata in una università modello costruita nel mezzo di una foresta. A pochi chilometri la città, sovieticamente moderna. Un coriandolo dell’Urss, interessante, niente altro. Della Siberia non avevo capito nulla. Perché la Siberia è innanzitutto distanze, sconfinate distanze, che hanno consentito a questa terra di essere luogo di deportazione ma anche di avventura, un immenso «West», via via scoperto e poi popolato da pionieri, gente che lì poteva nascondersi come in nessun altro luogo (tutt’oggi ci sono ancora gli eremiti), abitata da una quantità di etnie diverse che si mischiano con una minoranza di russi europei: Tagiki, Uzbeki, Tatari, Turkmeni, Kazaki, Kirghisi, Bashir, Armeni, Georgiani, Saiani, dell’Altai, Buriati, Jacuti, Ugri, Samojedi, Ket, Turgusi, Ghiliaghi, Jukaghiri, Itelme, Coriaki, Eskimesi, Aleuiti..., tutti cittadini della Federazione Russa in cui sono rimasti in molti dopo la secessione delle 17 repubbliche ex Urss.
Col treno lento si scopre che la Russia è soprattutto asiatica, che è ancora fatta di meravigliose case di legno colorato e intarsiato, aggrumate in antichi villaggi, abitati ancora da antiche migrazioni di slavi fuggiti alla miseria dei paesi baltici o alle persecuzioni religiose della Chiesa ortodossa riformata.
Le mille stazioni
La Siberia è una babele in cui ogni popolo ha conservato gelosamente la propria identità e le proprie tradizioni, nonostante la furia della Rivoluzione e delle guerre. Tutti però unificati da una iconografia oggi contraddittoria, in cui i monumenti degli zar Romanov ammazzati dai bolscevichi si mischiano con quelli di Lenin e degli eroi della guerra patriottica, dinanzi ai quali le giovani coppie vanno ancora a farsi fotografare dopo la cerimonia di nozze. Tutto ben conservato per favorire il tentativo di Putin di creare un sincretismo sciovinista in cui si celebra una grandezza della Russia senza specificazioni, sì da evitare ogni riflessione sul passato; e sul presente.
La nuova «freccia» Pechino-Mosca avvicinerà due giganteschi paesi: ma quali? Cosa vedrà e capirà il viaggiatore? Che ne sarà delle mille stazioni della Transiberiana, dove oggi il treno si ferma a lungo, per consentire ai passeggeri di scendere e ammirare i monumentali edifici e approvvigionarsi con calma ai mercatini allestiti lungo i binari, dove le babuske ti vendono le uova fresche del loro pollaio e l’insalata del loro orto e pescatori dilettanti i pesci pescati nei locali fiumi? Chi riuscirà più a ricordarsi, se il nuovo treno correrà così veloce da non accorgersi dei luoghi, che proprio su questi binari, tra il 1918 e il ’21, si è consumata l’immane tragedia della guerra civile e dell’invasione che, stravolgendo la geografia, gli occidentali, forti di 850.000 uomini, allestirono dall’Estremo Oriente: milioni di morti, l’economia distrutta; e, peggio, l’insinuazione per sempre, con quella aggressione, del tarlo dell’assedio, del sospetto, l’ossessione della sicurezza, fino alle criminali persecuzioni staliniane.
Questo sulla velocità non è un discorso che riguarda solo la Siberia, un tempo margine e ora varco tra due potenze continentali. Riguarda la morte della geografia, che con le sue distanze ben riconoscibili ci permetteva di prendere conto della storia. Che, anche questa, va scomparendo. Come scrive un filosofo importante, Giorgio Agamben, per conoscere il presente bisogna occuparsi di archeologia. Se non si riflette sul passato si finisce col non capire più niente.
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