Di fatto, la Corte di Giustizia europea non poteva confermare questa
competenza, in contraddizione col testo dei Trattati europei; ma dalla
sua decisione consegue la possibilità per la Banca centrale europea di
disporre – tranne poche limitazioni - dei margini di manovra di un
erogatore di crediti di ultima istanza. La Corte di Giustizia ha dunque
ratificato quell’azione di salvataggio, benché non del tutto conforme
alla Costituzione. Verrebbe voglia di dire che il diritto europeo
dev’essere in qualche modo piegato, anche se non proprio forzato, dai
suoi stessi custodi, per appianare di volta in volta le conseguenze
negative del difetto strutturale dell’unione monetaria. L’unione
monetaria resterà instabile finché non sarà integrata da un’unione
bancaria, economica e fiscale. In altri termini, se non vogliamo che la
democrazia sia palesemente ridotta a puro elemento decorativo, dobbiamo
arrivare ad un’unione politica.
Fin dal maggio 2010 la cancelliera tedesca ha anteposto gli interessi
degli investitori al risanamento dell’economia greca. Il risultato è che
siamo di nuovo nel mezzo di una crisi che pone in luce, in tutta la sua
nuda realtà, un altro deficit istituzionale. L’esito elettorale greco è
quello di una nazione la cui netta maggioranza insorge contro
l’opprimente e avvilente miseria sociale imposta al paese
dall’austerità. In quel voto non c’è nulla da interpretare: la
popolazione rifiuta la prosecuzione di una politica di cui subisce il
fallimento sulla propria pelle. Sorretto da questa legittimazione
democratica, il governo greco sta tentando di ottenere un cambio di
politica nell’Eurozona; ma a Bruxelles si scontra coi rappresentanti di
altri 18 paesi che giustificano il loro rifiuto adducendo con freddezza
il proprio mandato democratico.
Il velo su questo deficit istituzionale non è ancora del tutto
strappato. Le elezioni greche hanno gettato sabbia negli ingranaggi di
Bruxelles, dato che in questo caso gli stessi cittadini hanno deciso su
un’alternativa di politica europea subita dolorosamente sulla propria
pelle. Altrove i rappresentanti dei governi prendono le decisioni in
separata sede, a livelli tecnocratici, al riparo dell’opinione pubblica,
tenuta a bada con inquietanti diversivi. Le trattative per la ricerca
di un compromesso a Bruxelles sono in stallo, soprattutto perché da
entrambi i lati si tende a incolpare gli interlocutori del mancato esito
nei negoziati, piuttosto che imputarlo ai difetti strutturali delle
istituzioni e delle procedure. Certo, nel caso di specie siamo di fronte
all’attaccamento cieco ostinato a una politica di austerità giudicata
negativamente dalla maggior parte degli studiosi a livello
internazionale. Ma il conflitto di fondo è un altro: mentre una delle
parti chiede un cambiamento di rotta, quella contrapposta rifiuta
ostinatamente persino l’apertura di una trattativa a livello politico:
ed è qui che si rivela una più profonda asimmetria.
SCELTE SCANDALOSE
Occorre avere ben chiaro il carattere scandaloso di un tale rifiuto: se
il compromesso fallisce, non è per qualche miliardo in più o in meno, e
neppure per la mancata accettazione di una qualche condizione, ma
unicamente per via della richiesta greca di dare la possibilità di un
nuovo inizio all’economia della Grecia, e alla sua popolazione sfruttata
dalle élite corrotte, attraverso un taglio del debito o una misura
analoga, quale ad esempio una moratoria collegata alla crescita. I
creditori insistono invece sul riconoscimento di una montagna di debiti
che l’economia greca non riuscirà mai a smaltire. Si noti che presto o
tardi un taglio del debito sarà inevitabile. Eppure, contro ogni buon
senso, i creditori non cessano di esigere il riconoscimento formale di
un onere debitorio realmente insostenibile. Fino a poco tempo fa
ribadivano anzi una pretesa surreale: quella di un avanzo primario
superiore al 4%, ridotto poi a un 1% comunque non realistico. Così è
fallito finora ogni tentativo di arrivare un accordo da cui dipende il
futuro dell’Ue, soltanto in nome della pretesa dei creditori di
mantenere in piedi una finzione.
Per parte mia, non sono in grado di giudicare se i procedimenti tattici
del governo greco siano fondati su una strategia ragionata, o in qualche
misura determinati da condizionamenti politici, incompetenza o
inesperienza dei suoi esponenti. Ma le carenze del governo greco non
tolgono nulla allo scandalo dell’atteggiamento dei politici di Bruxelles
e Berlino, che rifiutano di incontrare i loro colleghi di Atene in
quanto politici. Anche se si presentano come tali, sono presi in
considerazione esclusivamente sul piano economico, nel loro ruolo di
creditori. Questa trasformazione in zombie ha il significato di
conferire alle annose insolvenze di uno Stato la parvenza di una
questione di diritto privato, da deferire a un tribunale. In tal modo
risulta anche più facile negare qualsiasi responsabilità politica.
L’ADDIO DELLA TROIKA
La nostra stampa ironizza sul cambio di nome della troika, che
effettivamente assomiglia a un’operazione di magia. Ma è anche
espressione del desiderio legittimo di far uscire allo scoperto, dietro
la maschera dei finanziatori, il volto dei politici. Perché è solo in
quanto tali che i responsabili possono essere chiamati a rispondere di
un fallimento che porta alla distruzione di massa delle opportunità di
vita, alla disoccupazione, alle malattie, alla miseria sociale, alla
disperazione.
Per le sue opinabili misure di salvataggio Angela Merkel ha coinvolto
fin dall’inizio l’Fmi. Questa dissoluzione della politica nel
conformismo di mercato spiega tra l’altro l’arroganza con cui i
rappresentanti del governo federale tedesco – persone moralmente
ineccepibili, senza eccezione alcuna - rifiutano di ammettere la propria
corresponsabilità politica per le devastanti conseguenze sociali che
pure hanno messo in conto nell’attuazione del programma neoliberista. Lo
scandalo nello scandalo è l’ingenerosità con cui il governo tedesco
interpreta il proprio ruolo di guida.
IL RUOLO TEDESCO
La Germania deve lo slancio della sua ascesa economica, di cui si
alimenta tuttora, alla saggezza delle nazioni creditrici, che
nell’accordo di Londra del 1954 le condonarono la metà circa dei suoi
debiti.Ma non si tratta qui di scrupoli moralistici, bensì di un punto
politico essenziale: le élite della politica europea non possono più
nascondersi ai loro elettori, eludendo le decisioni da prendere a fronte
dei problemi creati dalle lacune politiche dell’unità monetaria. Devono
essere i cittadini, e non i banchieri, a dire l’ultima parola sulle
questioni essenziali per il destino dell’Europa. E davanti
all’intorpidimento post-democratico di un’opinione pubblica tenuta ove
possibile lontano dai conflitti, ovviamente anche la stampa dovrà fare
la sua parte. I giornalisti non possono continuare a inseguire come un
gregge quegli arieti della classe politici che li già li avevano ridotti
a fare da giardinieri. (Traduzione di Elisabetta Horvat)
Cari intellettuali, sull’Unione siete ingenui e poco ambiziosi
di Maurizio Ferrera Corriere 24.6.15
Negli ultimi mesi il dibattito sull’euro-crisi è stato dominato da due eccessi: tecnicismo e moralismo.
Da un lato, balletti quotidiani di cifre e di sigle sconosciute e
incomprensibili ai più. Dall’altro lato, giudizi su buoni e cattivi,
santi e peccatori, creditori e debitori.
È mancato uno spazio di discussione intermedio, ancorato ai fatti ma
ispirato a principi, e soprattutto capace di guardare lontano. Qualcuno
già parla di un nuovo «tradimento dei clerici», resuscitando la formula
usata da Julien Benda negli anni Venti per denunciare la viltà e la
partigianeria degli intellettuali.
Pur non del tutto priva di fondamento, l’accusa è esagerata.
Alcune grandi voci della cultura europea si fanno periodicamente
sentire. Ieri è toccato a Jürgen Habermas. In un lungo intervento sulla
Süddeutsche Zeitung, il decano dei filosofi continentali ha preso una
posizione molto critica nei confronti della élite politica tedesca. È
scandaloso, dice Habermas, che la vicenda greca sia degenerata in uno
«scontro fra popoli», e che il possibile fallimento di uno Stato venga
trattato alla stregua di una insolvenza privata. E lo scandalo nello
scandalo è l’ostinazione con cui il governo tedesco difende regole e
assetti istituzionali che hanno amplificato a dismisura gli effetti
della crisi. Le elezioni greche hanno introdotto un po’ di sabbia negli
ingranaggi dell’eurozona. Un fatto salutare, ma Tsipras lo sta in buona
parte sprecando, incapace com’è di europeizzare il confronto e opponendo
al paradigma dell’austerità una nuova visione dell’Europa.
È un peccato, perché i tempi sarebbero invece maturi per un cambiamento.
Ne è convinto Amartya Sen, un’altra illustre voce che ha recentemente
parlato sul New Statesman (il 4 giugno scorso). Anche il noto
filosofo-economista se la prende con i leader politici, assolvendo (in
maniera a mio avviso troppo disinvolta) le truppe di
economisti-consiglieri che hanno orientato le scelte delle varie
istituzioni europee. Sen fa però un’osservazione di cui la Ue dovrebbe
far tesoro. Riforme strutturali e austerità «indiscriminata» non debbono
accompagnarsi per forza. Tenerle assieme è stato un errore madornale: è
come dare a un paziente con la febbre un antibiotico (le riforme
strutturali, necessarie per la crescita) mescolato a veleno per i topi
(avanzi primari di tre o quattro punti di Pil, come chiesto alla Grecia:
un viatico per il soffocamento).
Sia Habermas sia Sen auspicano un risveglio della Politica con la p
maiuscola. Un auspicio condivisibile, ma a mio avviso insufficiente. Se è
vero che servono nuove visioni, è un po’ ingenuo pensare che possa
essere l’attuale classe politica europea ad elaborarle. Con ogni
probabilità la crisi greca si risolverà con un compromesso
dell’ultim’ora, scarsamente coerente e potenzialmente instabile. Ciò che
serve è uno scatto di ambizione progettuale, un richiamo forte alla
responsabilità storica che la leadership europea deve oggi esercitare.
Se davvero siamo allo scontro fra popoli, la politica non può limitarsi a
mediare, deve «riconciliare»: un processo delicato, al quale gli
intellettuali hanno il dovere di contribuire in prima persona.
Parlando ieri alla Statale di Milano, la filosofa franco-bulgara Julia
Kristeva ha proposto l’istituzione di una Accademia culturale europea,
un luogo capace di generare idee-valore che consentano alle culture
politiche nazionali di uscire dall’attuale «depressione». Occorre ben
altro, dirà qualcuno. Ma la formazione di nuove comunità politiche è un
processo molto lento e in parte imprevedibile. Anche i piccoli semi
possono produrre grandi risultati.
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