Servi e padroni
A smentire questa concezione in base alla quale il sistema economico tende sempre a un equilibrio, ci sono i dati occupazionali dei settori emergenti dell’economia mondiale: imprese come Facebook, Google o Apple danno lavoro a poche decine di migliaia di uomini e donne. Ma Carr si ferma sull’uscio dei contemporanei atelier della produzione. Più che addentrarsi nei conflitti e contraddizioni del capitalismo, preferisce ricordare con malizia il doppio significato della parola robot, che può essere tradotta sia come lavoro pesante, ma anche come servitù. Soltanto che i robot, meglio le macchine informatiche più al servizio degli umani, rendono progressivamente questi ultimi loro appendici, scimmie ammaestrate annoterebbe l’Antonio Gramsci di «americanismo e fordismo». Per quanto riguarda, le modificazioni delle reti neurali del cervello, Carr evoca il suo apprendistato alla guida svolto con una automobile con il cambio manuale: il passaggio a quello automatico e l’uso del navigatore, scrive l’autore, hanno provocato nostalgia, smarrimento, timore che l’uso di dispositivi automatici avessero «indebolito» sia la capacità di orientamento nella città che le capacità di reazione rispetto agli imprevisti che il traffico sempre riserva. Il passaggio al j’accuse contro il progetto di Google, la bestia nera delle critiche di Carr al mondo digitale, di automobili completamente automatizzate è breve.
Non è la prima volta che Carr punta i riflettori sulla pervasività del computer nelle generiche attività umane, sostenendo che l’immersione in una realtà fortemente informatizzata impoverisca le facoltà cognitive, modificando il modo di funzionare del cervello umano, come attesta il saggio Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello (Raffaello Cortina).
A sostegno della sua tesi, l’autore ricorre alla elevata quantità di dati e studi che neuropsichiatri, biologi, psicologi e filosofi hanno prodotto nel corso del tempo a partire da alcune caratteristiche proprie della organizzazione e del funzionamento del cervello: un organo flessibile e capace di adattarsi a contesti e realtà in mutamento, al punto tale che alcune parti possono essere sollecitate a svolgere un ruolo maggiore che in passato, mentre altre possono perdere di «peso», facendo perdere agli umani alcune capacità acquisite nell’ormai millenaria storia dell’evoluzione. Il caso più eclatante e noto è la minore prontezza degli umani nel «saper far di calcolo» a causa della tendenza a far svolgere ai computer operazioni matematiche semplici o complesse. Un timore, quello del «decadimento cognitivo», che negli Stati Uniti è stato alimentato dalle ricerche sulla neuroplasticità, un settore di ricerca definito di frontiera che vede un forte coinvolgimento, in termini di finanziamenti pubblici, tanto del Pentagono che dell’istituto nazionale della sanità statunitense, che delle maggiori università americane.
Decadimenti cognitivi
L’ipotesi di partenza è che il cervello sia appunto un organo flessibile, capace di adattamento, al punto di sopperire «autonomamente» ad alcuni traumi. I programmi sulla neuroplasticità sono finalizzati non solo a comprendere come il cervello si sia o meno modificato rispetto l’uso delle tecnologie informatiche, ma anche come riprodurre al computer l’organizzazione delle reti neurali, al fine di annullare la distanza tra conoscenza tacita e esplicita, una vera barriera per sviluppare macchine intelligenti. Al di là del sogno di costruire automi o androidi «intelligenti», c’è, come da copione, anche un altro lato oscuro in questi programmi di ricerca, che riguarda lo sviluppo di algoritmi predittivi al fine di modificare, indirizzare, insomma «manipolare» i comportamenti dei singoli nei social network o di come elaborare i dati dei profili individuali al fine di strategie di marketing e pubblicitarie. In altri termini, la neuroplasticità, così come altre ricerche di frontiera, come i motori di ricerca semantici, sono la cornice dell’unico settore attualmente in forte espansione, quello dei Big Data. Un contesto ben presente in questo libro, che oscilla tra una critica verso la performatività delle tecnologie digitali e una «ecologia del digitale» che prevede una sorta di disintossicazione dall’«infosfera» attraverso periodiche disconnessioni dalla Rete al fine di ripristinare un habitat pretecnologico nel quale è espunta ogni possibilità di «decadimento cognitivo» da overdose digitale.
Nel libro sono riportati molti casi eclatanti di automazione di attività e lavori «intellettuali». Il primo caso è il pilota automatico sugli aerei, che riducono al minimo l’intervento umano. Certo ci possono essere degli «inconvenienti», come è accaduto negli Stati Uniti e in Francia, quando il funzionamento del pilota automatico ha indotto all’errore l’equipaggio chiamato ad intervenire in una situazione imprevista. In entrambi i casi, gli incidenti hanno provocato la morte dell’equipaggio e dei passeggeri. Una situazione che ha allarmato l’ente federale americano sul trasporto aereo che ha inviato un memorandum alle compagnie aeree affinché riducano il tasso di automazione degli aeromobili e attivino forme di formazione degli equipaggi, una sorta di corsi di «alfabetizzazione per analfabeti di ritorno». Inoltre, i piloti sono diventati appendici delle macchine, controllori con poco potere a disposizione, visto che i software sono stati pensati per fare a meno, potenzialmente, proprio degli umani.
Esperti e digitali
Certo, la responsabilità della dequalificazione dei piloti dipende dalle compagnie e dal software usato. Le prime per risparmiare sul personale di volo (nella cabina di pilotaggio ormai ci sono solo due piloti, le altre figure che presidiavano il controllo delle rotta, delle comunicazioni e dei motori sono da anni stati cancellati nel corso degli ultimi trenta anni), mentre il software installato parte proprio dal presupposto che un aereo può fare a meno dei piloti: la loro presenza dipende ancora dai limiti nello sviluppare aerei «intelligenti».
L’altro esempio riguarda i medici. Su questo crinale il libro di Carr si inoltra in una sentiero poco battuto dagli studiosi di tecnologie informatica. Viene ampiamente documentato come l’informatizzazione delle cartelle cliniche sia stata incentivata in base alla riduzione della spesa sanitaria. Il risultato è una qualità sempre più mediocre degli interventi sanitari, visto che i medici devono rispettare griglie analitiche predefinite, arrivando anche a prescrivere medicinali e analisi inutili; o a diagnosticare erroneamente patologie inesistenti. Inoltre, l’informatizzazione impone di seguire rigidi protocolli che fanno fare analisi mediche spesso inutili. Dunque abbassamento della qualità dell’intervento dei medici e aumento della spesa sanitaria.
Con distacco, Carr riannoda il filo rosso che lega le scelte dei presidenti statunitensi che, indipendente si chiamino George Bush Jr. o Barack Obama, hanno favorito una dequalificazione di massa dei medici di base e un aumento della spesa sanitaria in nome dell’innovazione. Ma, anche in questo caso, interrompe l’analisi sul nesso tra dismissione del welfare state, privatizzazioni in nome del progresso tecnico-scientifico, preferendo ricordare con nostalgia la figura familiare del medico di base.
L’interesse di questo volume non sta però nella critica alla «tecnostruttura» dominante – ci sono forti eco degli studi del filosofo e religioso Jacques Ellul in questo saggio -, ma nel restituire una discussione sull’automazione che negli Stati Uniti non si è mai sopita.
Le macchine, dopo aver significato la riduzione del lavoro manuale e la conseguente crescita della disoccupazione, si sono diffuse anche nel lavoro intellettuale o dei «colletti bianchi», che hanno provocato un’ondata di licenziamenti di massa. Ma a differenza del passato non c’è stata, alla luce della perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro nell’industria, una crescita dell’occupazione nei servizi. La disoccupazione tecnologica è di massa e lo sviluppo dell’informatica, della rete o delle biotecnologie non hanno favorito il riassorbimento degli esuberi in altri settori.
La prossima apocalisse
Espressioni come jobless growth indicano proprio non solo una crescita economica senza aumento di posti di lavoro, ma che la Rete come le biotecnologie non sono settori labour intensive, come invece lo sono i supermercati, i centri commerciali, i servizi di cura alla persona. L’automazione favorisce, secondo questo schema, una dequalificazione del lavoro e una crescente disoccupazione. Al pari di altri testi usciti sull’argomento – da segnalare sono La nuova rivoluzione delle macchine di Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee (Feltrinelli), La natura della tecnologia di William Brian Arthur (Codice edizioni), La dignità ai tempi di Internet di Jason Lanier (Il Saggiatore) — La gabbia di vetro di Nicholas Carr non fa sua però nessuna tesi neoluddista o «primitivista».
Carr asssume l’automazione del lavoro come una tendenza inarrestabile del capitalismo contemporaneo, ma poi si ritrae, quasi spaventato dalle possibili derive teoriche del suo ragionamento. Attinge argomenti per la sua «ecologia digitale» dagli scritti di Marx, da Lavoro e capitale monopolisitco di Harry Braverman o dalle pungenti analisi sul cybercapitalismo di Nick Dyer-Witheford (di quet’ultimo è appena uscito in formato kindle il volume Cyber-Proletariat: Global Labour in the Digital Vortex), quasi che il pensiero critico, messo all’indice per tanti anni, sia ormai l’unico vademecum per comprendere il futuro del capitalismo. Ma non è interessato a una alternativa al capitalismo. Il suo è un grido di allarme per la perdita di autonomia dei singoli, individuando il decadimento cognitivo veicolato dall’automazione come una sorta di apocalisse prossima ventura, dove l’essere umano perde in autenticità a causa del dominio delle macchine. Nel mondo digitale di Carr uomini e donne sono condannati a vagare in un deserto senza fine alla ricerca dell’ultimo scampolo di umanità. Un po’ come i protagonisti di Mad Max Fury Road, che vedono la salvezza in una cittadella da ripopolare e dove poter «addomesticare» nuovamente le macchine.
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