mercoledì 3 giugno 2015
L'intervista di Dilma Roussef al Manifesto
Intervista il manifesto-Pagina 12. La presidente del Brasile Dilma Rousseff difende il modello «di partecipazione» con cui Petrobras gestisce le risorse petrolifere del Paese e parla del processo per corruzione noto come petrolão, delle intercettazioni illegali dello spionaggio Usa, dei rapporti con il Messico, del disgelo tra Washington e L’Avana, di papa Francesco....
Dario Pignotti BRASILIA il Manifesto 03.06.2015
Nonostante le pressioni delle destre economiche, mediatiche e di partito, arrivate al punto di cercare l’impeachment, la presidente del Brasile Dilma Rousseff manterrà in vigore l’attuale legislazione petrolifera promulgata nel 2010 e conosciuta come “di partecipazione”, con la statale Petrobras come principale impresa di sfruttamento dei mega-giacimenti tanto appetiti dalle compagnie nordamericane.
Cinque mesi dopo l’inizio del suo secondo mandato, il quarto consecutivo del Partido dos trabalhadores (Pt), in questa intervista Dilma scarta il ritorno al regime petrolifero neoliberale “di concessione” istituito negli anno 90 dal governo di Fernando Henrique Cardoso, oggi leader dell’opposizione.
Dal 27 ottobre del 2014, un giorno dopo essere stata eletta per il secondo mandato, Rousseff affronta pressioni per derogare al regime di partecipazione e annullare la norma che impone a Petrobras di comprare piattaforme, petroliere ed equipaggiamenti fabbricati in Brasile. E’ possibile che i partecipanti al complotto per sconfiggere Dilma e spianare il cammino a una “privatizzazione bianca” di Petrobras abbiano influenza sul giudice di provincia a capo del processo per corruzione conosciuto come petrolão, per il quale sono stati arrestati alcuni ex manager dell’impresa petrolifera e di società costruttrici, oltre ad alcuni politici.
Presidente, si può dire che il rischio che il Brasile torni al modello di concessioni sia zero?
«Credo che il rischio non sia zero. Ma dico che finché sono presidente, la possibilità che si torni alle concessioni è “meno mille”. Il modello di partecipazione si basa sulle migliori pratiche internazionali, in ogni paese di cui si sa che c’è petrolio abbondante e di buona qualità, come in Norvegia, vige questo modello. E in Brasile sappiamo che c’è molto petrolio nel “pre-sal” (giacimenti in acque molto profonde ma situati sopra sedimenti salini spessi centinaia o anche migliaia di metri, ndt). Chi suppone che questo modello di partecipazione sia ideologico, argomento citato dall’opposizione, si sbaglia. Il modello di partecipazione è la miglior maniera di difendere gli interessi economici della popolazione di questo paese, che è la proprietaria di queste ricchezze naturali, particolarmente del petrolio che con questa legge è dello stato. Invece nel modello di concessione degli anni 90 il padrone del petrolio è chi lo scopre, e se lo scopre una compagnia privata, ne diventa titolare».
***
Sta annottando a Brasilia. Conclusa una riunione con il suo consigliere capo, Luiz Inacio Lula da Silva, la presidente ci invita a passeggiare nel salone dalle ampie vetrate di Palazzo Alvorada, progettato dall’architetto comunista Oscar Niemeyer, da dove si vede una piscina d’acqua tanto quieta da sembrare vetro celeste. «Non posso farmi il bagno quasi mai, troppo da fare», dice Rousseff commentando un fine settimana relativamente calmo, se si prendono come barometro i tremori degli ultimi mesi, nei quali il gruppo mediatico privato Globo ha messo tutta la sua capacità di persuasione a favore dell’impeachment, avendo come alleato il senatore socialdemocratico Aécio Neves, candidato sconfitto alle presidenziali dello scorso anno.
La congiura è cresciuta fino allo scorso aprile, con due manifestazioni di centinaia di migliaia di persone, ma da allora gli oppositori hanno cominciato a dividersi. Neves aveva pronisticato una tempesta perfetta, che avrebbe fatto maturare la destituzione di una presidente odiata dalla destra e discussa da sindacati innervositi da aggiustamenti di bilancio di taglio neoliberale. Per ora i presagi di Neves, sempre assecondato dall’ex progressista Cardoso, non si sono compiuti.
«La minaccia di impeachment non mi fa paura, io posso rispondere dei miei atti, ho ben chiaro quali sono», dice Dilma.
Nel settembre del 2013, quando seppe che la National security agency (Nsa) aveva rubato informazioni al suo governo e a Petrobras, Dilma affrontò Barack Obama, pretese spiegazioni sulle operazioni dell’agenzia e rifiutò l’invito per una visita di stato a Washington. Il gelo si sarebbe rotto solo nell’aprile di quest’anno al Vertice delle Americhe a Panama, quando i due presidenti decisero di superare le divergenze e tornare a incontrarsi entro un mese alla Casa Bianca.
Le sono bastate le spiegazioni di Obama sulle manovre della Nsa?
«La Nsa ha investigato in modo illegale su Petrobras e sul governo brasiliano, con il pretesto della minaccia terrorista dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001. Successivamente si è saputo che qualcosa di simile è successo anche con il governo della Germania, insieme al quale abbiamo presentato un caso davanti all’Onu. Di fronte a questo il presidente Obama ha adottato varie risoluzioni, tra le quali quella che dichiara ingiusto spiare paesi amici. Gli Stati Uniti ci hanno garantito che a partire da quel momento una cosa del genere non è mai più successa».
Quindi l’argomento è chiuso?
«Per noi è chiuso. Credo che il governo di Obama abbia preso le misure pertinenti all’interno delle sue facoltà».
È costruttivo l’avvicinamento tra Washington e L’Avana, iniziato a Panama il mese scorso?
«Per me è stata una delle più grandi iniziative intraprese negli ultimi anni, soprattutto perché chiude la guerra fredda nel nostro continente. Vogliamo che l’avvicinamento si approfondisca e che finisca l’embargo contro Cuba, una cosa che però non dipende dal potere esecutivo ma dal parlamento americano. Il Brasile ha finanziato il principale porto di acque profonde di Cuba, quello di Mariel, anche se l’opposizione brasiliana è stata caustica nei confronti del finanziamento, effettuato dal Bndes (Banco nacional de desarrollo economico y social, ndt)».
Quindi la politica del Bndes è stata corretta, nonostante le critiche della destra.
«Quella politica non era del Bndes, era del governo brasiliano. Il Bndes è una banca controllata al 100% dal governo. Noi riteniamo che il processo di relazioni democratiche a Cuba deve puntare sull’apertura, sugli investimenti. E deve puntare sull’allargamento delle relazioni commerciali tra Usa e Cuba. L’embargo non porta da nessuna parte, non ha portato da nessuna parte in oltre mezzo secolo. Credo che gli Stati Uniti abbiano mosso un passo estremamente felice, strategico per l’America Latina. E dico di più: credo che il presidente Obama abbia avuto molto coraggio nel muoverlo. Non si torna indietro, la ruota della storia non retrocede, e ora ci saranno investimenti a Cuba. Per noi latinoamericani Cuba è un paese speciale. E poi ciò che è accaduto tra Stati Uniti e Cuba non è solo merito loro, in questo senso mi piacerebbe parlare un po’ di papa Francesco, posso?»
Naturalmente.
«Voglio dire che papa Francesco ha avuto un ruolo fondamentale, oltre ad essere il capo della chiesa cattolica apostolica romana ha avuto il discernimento necessario per percepire che se c’era qualcosa di importante per i popoli di questo emisfero, per quello cubano specialmente, era proprio questo riannodare di relazioni».
***
Due settimane fa il governo cinese ha annunciato un sostegno tra i 7 e i 10 miliardi di dollari perché la compagnia petrolifera statale possa contare sulle risorse con cui finanziare i suoi progetti infrastrutturali, specialmente quelli destinati alla conca del pre-sal, da cui si estraggono 800mila barili al giorno. Qualcosa che ha sorpreso anche i più ottimisti, dal momento che non è semplice pompare greggio situato a più di cinquemila metri di profondità.
«Noi assegnamo un ruolo strategico a Petrobras, che ha qualcosa che nessun altro ha: conosce come pochi la conca sedimentata continentale brasiliana. È qualcosa che nessuno potrà togliere a Petrobras, chiunque venga a cercare di competere», puntualizza Dilma. «Petrobras è una grande impresa, di recente è passata attraverso un processo di investigazione giudiziaria, ma c’è da tener presente che Petrobras ha 90mila impiegati… e solo quattro funzionari sono ora sotto accusa in un caso di supposta corruzione», aggiunge la presidente.
E dal petrolio al Messico dell’altra grande azienda statale, Pemex, il passo è breve. Dal Vertice delle Americhe di Mar del Plata nel 2005 è cresciuto il distacco tra Messico e parte del Sudamerica, a causa dell’appoggio dato dall’allora presidente messicano Vicente Fox all’Alca, il progetto di “libero commercio” sostenuto dagli Usa e rifiutato dalla troika allora formata da Hugo Chávez, Néstor Kirchner e Lula.
Il suo viaggio recente a Città del Messico è il re-incontro tra Brasile e Messico?
«Credo che apra un nuovo capitolo delle relazioni tra i due Paesi. Ma già quando ho ricevuto il presidente Enrique Peña Nieto, poco dopo la sua elezione, ci siamo trovati d’accordo sul fatto che per il Brasile era importante avvicinarsi al Messico e viceversa.
Chi ritiene che le economie di Brasile e Messico competano tra loro si sbaglia, le nostre economie sono complementari. I nostri paesi rappresentano i due maggiori mercati d’America latina, noi brasiliani siamo il secondo destinatario degli investimenti diretti messicani, superati solo dagli Stati Uniti, vuol dire che c’è già una ruota che sta girando. Mi ha rallegrato sapere che l’impresa brasiliana Braskem formerà una società con la messicana Idesa per creare un polo petrolchimico. Considero che i nostri paesi possano stringere accordi a partire dalla complementarietà: produrre una parte qua e un’altra là. Può accadere nell’industria navale, nella catena del gas e del petrolio in cui il Messico ha Pemex e il Brasile ha Petrobras, imprese con un modello regolatorio simile».
Possiamo parlare di un legame solido? È nato l’asse mariachi-bossa nova?
«No, meglio chiamarlo asse tequila-caipirinha (ridendo)».
È possibile un accordo Pemex-Petrobras?
«Penso che sia sempre possibile, già c’è stato un accordo nel 2005 che è ancora in vigore, l’Impegno generale di collaborazione scientifica, tecnica e di addestramento. Petrobras è un’azienda quotata nelle borse (a New York e San Paolo), e Pemex sta adottando un quadro simile. Possiamo agire nel quadro degli investimenti, nella catena di approvvigionamento, a cui possiamo partecipare perché in Messico abbiamo cantieri».
Pemex potrebbe sfruttare il petrolio in Brasile?
«Certo che può. Pemex come qualsiasi altra impresa straniera».
Il Brasile è interessato?
«Logico, non ho dubbi che sia così. Credo anche che sarebbe vantaggioso per Petrobras, perché Petrobras ha la tecnologia per l’esplorazione in acque ultra-profonde».
(a cura di Roberto Zanini, copyright il manifesto/Pagina 12)
Dilma Roussef: «La tortura e il carcere restano dentro di noi»
La presidente del Brasile e la lotta armata. «Ne ho parlato con Mujica, non siamo pentiti. Ma era un altro periodo»
Dario Pignotti BRASILIA 03.06.2015
Lei è stata tre anni in carcere durante la dittatura: qual è il suo bilancio di quel periodo?
Ne ho parlato molto con il presidente dell’Uruguay, Pepe Mujica, un altro ex prigioniero politico. Non siamo pentiti di niente, ma è chiaro che è necessario capire quali erano le circostanze politiche di quegli anni (fine anni 60, inizio dei 70), circostanze che ci hanno portato ad agire come abbiamo fatto, cioè la lotta armata. Quella situazione oggi non esiste più, questa è la prima cosa.
La seconda è che ciascuno cambia, anche se non cambia lato. Anni dopo si vedono gli errori, ci sono cose che sono frutto della gioventù ma oggi non vado a mettermi contro ciò che sono stata. E non ho mai dimenticato cosa mi è successo, la mia vita ne è stata marcata senza alcun dubbio.
Una volta ho testimoniato davanti al Congresso e qualcuno, un senatore di destra, mi ha accusata di aver mentito durante le sessioni di tortura. E meno male che l’ho fatto: dire la verità sotto tortura significava consegnare i propri compagni, i propri amici.
Non critico quanti sotto tortura hanno parlato, ci dicevano ’se parli smetto di torturarti’ e questo scatena una lotta interna, ciascuno cerca di resistere, cerca forza dentro di sé e per riuscirci bisogna avere delle convinzioni. Io non dico che chi ha resistito è un eroe, nessuno è un eroe. In quei giorni per resistere ingannavo me stessa, mi dicevo «adesso tornano» per essere pronta. E alla fine tornavano, mi legavano al pau de arara (il «trespolo del pappagallo»: barra di ferro tra l’incavo delle braccia e l’incavo delle gambe del prigioniero, a cui vengono poi legati i polsi alle caviglie, ndt), mi davano un colpo con la picana elettrica. La strategia per resistere? Non bisogna pensare, è quasi un esercizio di meditazione per svuotare del tutto la testa e non farsi corrodere dalla paura. La paura è dentro di noi. Il dolore umilia, degrada. Resistere è difficile.
Se ha resistito a quello, può sopportare tranquillamente le pressioni della destra contro il suo governo, o no?
Sono molto più facili da sopportare. Non voglio dire che sia facilissimo, o che siano irrilevanti. Il difficile è stato resistere a quello, e quando uno resiste non torna un eroe, torna una persona.
O torna presidente…
Meglio arrivare alla presidenza della repubblica senza passare dalla tortura (ridendo).
(a cura di Roberto Zanini, copyright il manifesto/Pagina 12)
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