E' anti capitalista? E' antiliberista? E' riformista? Orbita attorno al PSE, il partito di Fassina e Civati, come voleva Vendola fino a qualche mese fa?
Io so ad esempio cosa pensa la Lega sull'UE, so cosa pensa Grillo, so cosa pensa il PD, cosa pensa Berlusconi, ma cosa pensa la sinistra non lo so. Con Guido - del quale ho grande stima come studioso ma che, erede di una certa tradizione del Pci romano, è a mio avviso un incorreggibile entusiasta nelle faccende politiche - non sono dunque d'accordo. Ma a questo siamo entrambi abituati e so che lui non ci perderà certamente il sonno. Il puntuale intervento del Minuscolo Zio non fa che rafforzarmi nella mia perplessità.
La frantumazione politica degli ultimi decenni è la conseguenza di una frantumazione sociale ancora più grave. Anzi, c'è da stupirsi della singolare capacità di resistenza della sinistra politica organizzata in Italia: ci sono voluti 20 anni dopo la caduta del Muro per dissolverla. Tanto potente era il patrimonio accumulato nel XX secolo che per due decenni abbiamo vissuto di rendita; ma proprio per questo - proprio perché in Italia c'era il partito comunista più forte d'occidente, come spesso si dice con retorica nostalgica - molto più complicato che altrove sarà ricostruire una sinistra degna di questo nome.
Nel XIX secolo i partiti socialisti nacquero non per decreto ma al maturare di alcune condizioni oggettive. La preparazione di queste condizioni prevede sì anche un forte impegno soggettivo e volontaristico, ma è un lavoro complicato che ha bisogno di chiarezza e non di scorciatorie organizzativistiche né di inesistenti conigli dal cilindro.
Se l'alternativa è tra questa cosa qua e le 4 o 5 costituenti comuniste - da quella di Sorini a quella di De Silli - siamo a posto. Spero - ma ci credo poco - che Landini sia estraneo a queste cose e che faccia il suo lavoro con calma. L'unica prospettiva della Armata Brancaleone che si profila, invece, è - come mette in evidenza Sorgi nell'articolo che posto più sotto - quella di lucrare rendite di posizione costringendo Renzi a varare un nuovo centrosinistra [SGA]. [SGA].
La carica dei mini-partiti Vince chi fa perdere
di Marcello Sorgi La Stampa 25.6.15
Malgrado ciò, chi fonda un partitino, oggi, ha diversi possibili sbocchi: primo, porre le premesse per la sconfitta del partito da cui è uscito (è il modello Liguria, inaugurato da Cofferati e Civati, ma replicato in Puglia da Fitto e Alfano); secondo, sperare in un nuovo cambiamento della legge elettorale, che riapra la strada al confronto, non tra liste, ma tra coalizioni (all’interno delle quali è possibile negoziare la propria presenza, a fronte di qualche garanzia programmatica, e del timore dei partiti maggiori di perdere le elezioni anche per pochi voti); terzo, alla peggio, sfruttando lo stesso timore, trattare per entrare in una “lista-contenitore” (copyright Berlusconi), riservandosi di fondare successivamente un proprio gruppo in Parlamento. Delle tre ipotesi, la prima, alla prova dei fatti, risulta la più sperimentata. Con buona pace del bipolarismo che le Camere hanno tentato di rimettere in piedi votando l’Italicum.
Cofferati, Civati, Fassina….
Minuscolo Zio, 24 giugno, 2015
A sinistra del Pd un nuovo inizio
Dall’ascesa di Matteo all’incubo di un partito dove non ci si parla più
Cofferati a gennaio, Pastorino a marzo, Civati a maggio, Fassina e Gregori a giugno... Magari non è un’emorragia - come quella dalle urne delle regionali - ma il rubinetto del Pd comincia a perder acqua.
Goccia a goccia, mese dietro mese... Gli ultimi due ad andarsene sono stati la Gregori - giovane deputata di Tivoli - e Stefano Fassina, uno che dal 4 gennaio dell’anno scorso, diciamoci la verità, non era altro che un morto che camminava: politicamente parlando, s’intende.
Il famoso «Fassina chi?», sussurrato da Matteo Renzi ai giornalisti proprio in quel giorno d’inizio anno, determinò le immediate dimissioni da viceministro con Letta del più eretico dei bocconiani: era un’avvisaglia. Restò nel Pd - anzi, ci è rimasto ancora diciotto mesi - ma fu chiaro a tutti che la sua corsa (Renzi imperante) era finita lì. Stagioni di tormenti politici, le uscite di altri «compagni di strada» e l’indifferenza del premier-segretario ad ogni richiesta di cambiar rotta, alla fine hanno convinto Fassina che l’ora era suonata. Era suonata già molto prima, in verità: ma questo nulla toglie alla rilevanza del gesto. E aggiunge qualcosa, anzi, al travaglio che deve averlo accompagnato.
E’ un peccato per chi continua a credere che i partiti e le loro discussioni interne ancora abbiano un senso. Ed è anche una perdita, in realtà: perché non erano in pochi a immaginare che il duello perfetto per le future primarie del Congresso che verrà poteva essere proprio quello tra il «destro» Renzi e il radicalissimo Fassina. Andrà in un altro modo, e vedremo come. Ma per i tanti inquieti che affollano la minoranza Pd, il segnale è chiaro e forte: se molla perfino un dirigente che un anno e mezzo fa era viceministro e prima sedeva in segreteria con Bersani, quale altra strada è percorribile al di là dell’abbandono?
Quando si parla, si scrive o si ragiona intorno a ipotetiche scissioni nel Pd, la reazione dei «lealisti» e dei possibili scissionisti è servita in fotocopia: «Fesserie, va tutto bene, restiamo nella stessa casa». Poco importa che la casa, intanto, perda intonaco, mostri crepe e rischi di andare alla malora. L’importante è resistere un minuto in più dell’avversario. Ed è per questo, in fondo, che quando invece qualcuno molla - oggi Fassina, ieri gli altri - l’atto è accolto quasi come una diserzione, un vulnus all’illusione che sia cosa buona e giusta restare comunque assieme: a qualunque costo e qualunque cosa accada.
Lo confermano, a ben vedere, persino le reazioni all’uscita dal partito di Stefano Fassina, che oggi è accompagnato alla porta con blande solidarietà (Bersani: «Oggi il Pd è più povero»), accuse di codardìa (Guerini: «Abdica alla sfida del cambiamento») e perfino di alto tradimento (Orfini: «E’ stato viceministro sostenuto da Berlusconi, perché se ne va ora?»). Uno che va via, infatti, rovina l’antica e rassicurante favola: «E’ solo dialettica, il Pd è un partito unito». E invece è dall’indigerita ascesa di Matteo Renzi che il Pd non è più unito: e a questo punto, riconoscerlo e trarne qualche conseguenza, potrebbe esser meglio che continuare a far finta di niente.
Perché intendiamoci: il Partito democratico può gestire i suoi affari interni come crede, fingere unità mentre affila i coltelli e simulare - quando riesce - un comune sentire che non esiste più. Se non fosse che il Pd è il maggior partito di governo, amministra Regioni e città e rischia - anzi ha già rischiato - di sentirsi rivolgere la contestazione che solitamente veniva rivolta alla vecchia e litigiosissima Dc: non potete scaricare le vostre divisioni sulle istituzioni, paralizzandole.
In effetti, è paralizzata Roma: e non solo per gli affari di Mafia Capitale, ma per il solito - preesistente e perdurante - duello tra amici e nemici di Renzi. E’ paralizzata la Campania: dove litigi e divisioni hanno reso imbattibile la candidatura di De Luca alle primarie e alla presidenza, col corollario di guai che poi ha generato. Ed è di fatto annientata la possibilità che Renzi apra a confronti e modifiche vere su questo o quel passaggio delicato, visto che la fiducia reciproca è a livelli tali da trasformare un ipotetico dialogo in un campo zeppo di trappole e di tagliole.
Il Partito democratico, dunque, può gestire fino a un certo punto i suoi affari interni come crede: oltre quel punto, infatti, pagherà - perché lo avrà fatto pagare al Paese - un prezzo che rischia d’esser alto. Saggezza e realismo consiglierebbero scelte conseguenti e chiare, da parte d’un fronte e dell’altro. Chiare come la decisione degli «scissionisti» - Cofferati, Civati, Fassina e altri - di riunirsi sabato 4 luglio per aprire la via a un nuovo soggetto politico. E chiarezza per chiarezza, si immagina che fissare il «battesimo» della creatura proprio nel giorno dell’americanissimo e capitalissimo «Independence Day», sia stato solo un caso. A meno che, naturalmente, anche loro non abbiano una indipendenza da festeggiare...
di Antonio Padellaro il Fatto 25.6.15
“Vittorini se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato!”: così Togliatti canzonava su Rinascita (con lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia) quando, negli anni 50, il grande intellettuale lasciò il Pci dopo una dura polemica sull’illiberalità del comunismo. Dal sostanziale silenzio con cui è stata accolta ai piani alti del Pd l’uscita di Stefano Fassina, pensiamo che lo stato d’animo di Renzi non sia dissimile da quello di una soddisfatta indifferenza, anche se lui non è Togliatti così come Fassina non è Vittorini. Del resto, se n’erano già ghiuti anche Cofferati e Civati senza che il partito renziano battesse ciglio, e si può capire visto che la corrente dei rompiscatole sottraeva visibilità al leader supremo. “Casi personali”, liquidano la cosa al Nazareno, eppure a furia di abbandoni nel Pd sta emergendo qualcosa che ha l’aria di una pulizia etnica del ceppo Ds. Della vecchia Ditta, chi ancora non ha sbattuto la porta ha vita grama: o si dedica all’imbottigliamento dei vini (D’Alema) o si cuoce nell’irrilevanza (Bersani e Cuperlo) o cerca di mimetizzarsi come le sogliole sui fondali (Fassino e Veltroni) o fonda correnti pontiere sperando nella clemenza di Matteo (Speranza, Martina, Damiano). Quando andò via Civati, i renziani si chiesero quanti elettori lo avrebbero seguito (così come Stalin chiedeva quante divisioni avesse il Papa). Non rendendosi conto che i voti in fuga da Renzi appartengono principalmente a quel popolo di sinistra, radicato nelle regioni “rosse” (e magari con tessera Cgil) che non si riconosce più nel nuovo partito democristiano. Di cui invece fa parte Enrico Letta che infatti non si dimette, ma aspetta paziente sulla riva del fiume.
Il deputato conferma l’addio: «Ho detto addio in periferia perché lì sono le miei radici». Apre a Civati, Cofferati e agli altri delusi dem: «Dal 4 luglio nuovo percorso politico» Bersani: inutile fare spallucce, il partito è più poverodi Francesco Maesano La Stampa 25.6.15
Martedì sera l’addio, nella periferia romana, durante un intervento al circolo Pd di Centocelle. Poi ieri mattina una parziale marcia indietro e qualche ora in più di riflessione. Alla fine Stefano Fassina ha convocato una conferenza stampa nel primo pomeriggio e tutti hanno capito che se ne stava andando dal partito. E con lui ha lasciato anche la deputata Monica Gregori. Alcuni, come Pier Luigi Bersani, erano stati avvisati: «Il Pd è più povero, non si facciano spallucce», ha commentato l’ex segretario.
L’ex viceministro dell’economia se ne va sulla scuola, in polemica con la decisione del governo di mettere la fiducia sulla riforma, ma chiarisce che quello è «solo l’ultimo episodio di una vicenda che non abbiamo condiviso. Dal Jobs Act alla revisione del senato fino all’Italicum, che configura un indebolimento delle garanzie democratiche». Per Fassina il Pd «si sta riposizionando in termini di cultura politica. C’è ormai una subalternità italiana all’ordine tedesco dell’eurozona. Il Pd è sempre più attento alla finanza internazionale, a uomini che dilagano in tutte le amministrazioni pubbliche», chiaro riferimento alla nomina di Claudio Costamagna, ex Goldman Sachs, alla Cassa depositi e prestiti.
Poi il futuro. «L’appuntamento è per il 4 luglio – ha annunciato Fassina – al teatro Palladio con Civati, Pastorino e Cofferati per avviare un percorso politico su territori». Un percorso che incrocerà le strade con Sel, il cui stato maggiore ieri era in sala stampa ad ascoltare le parole di Fassina. Alla notizia dell’addio il vicesegretario Pd Guerini si è detto «personalmente dispiaciuto», prima di aggiungere una stilettata contro i progetti politici a sinistra del Pd: «Mi sembrano avventure velleitarie cui guardiamo con rispetto ma che non condividiamo».
Vero è che quel cantiere della sinistra in eterno lavorio sembra aver trovato un’accelerazione proprio dopo l’approvazione della legge elettorale. Non tanto per lo sbarramento basso, è il 3 per cento, previsto dall’Italicum. Quanto per l’opportunità di risultare determinanti al momento di un eventuale ballottaggio tra la lista del Pd e una tra le due forze di opposizione che, ad oggi, le contenderebbero la vittoria: l’ipotetica sigla unitaria del centrodestra e il M5S.
Al solo pensiero Pippo Civati gongola e traccia il perimetro della nuova creatura: «Diciamolo subito: l’obiettivo è il 10 per cento. Chi ha un’idea migliore della mia per raggiungerlo la porti. Altrimenti mi tengo la mia». E la sua idea prevede una «struttura completamente innovativa, che piaccia alle persone prima che ai dirigenti politici. Il problema non è capire se Civati, Fassina e Vendola sono d’accordo. Il problema è capire se ci seguono gli elettori. Penso a un partito grande, partecipato, che faccia iniziativa politica, non solo convegni». E Landini, da sempre indicato come un possibile leader di uno schieramento di sinistra? «Ha un progetto parallelo al nostro, che non si sovrappone. È un interlocutore da sempre, non vedo perché debba smettere di esserlo ora».
intervista di Goffredo De Marchis Repubblica 25.6.15
ROMA. Stefano Fassina spiega che il «problema è il Pd» e la colpa di Renzi è quella di «esserne l’interprete estremo». È «l’impianto culturale del Partito democratico » che non funziona perché nasce sulla base della democrazia plebiscitaria «che poi diventa l’Italicum» e intorno al «liberismo presente già al Lingotto, dove non a caso c’era Pietro Ichino, l’autore, assieme a Sacconi, del Jobs Act».
In fondo il problema non è nemmeno il Pd «ma il socialismo europeo, una forza sostanzialmente inutile, un club irrilevante dove il leader del partito socialista più antico d’Europa, Sigmar Gabriel, mette in discussione la possibilità di presentare alle prossime elezioni un candidato alternativo alla Merkel. Più irrilevanti di così». Adesso, per l’ex viceministro, i punti di riferimento mondiali sono Syriza e Podemos ma prima ancora Papa Francesco che «solleva una critica al capitalismo estranea da decenni alla sinistra. E che lascia quasi senza parole».
Nell’addio quanto c’entra il duello con Renzi? Si ricorderà la battuta “Fassina chi”.
«Zero. Non è una questione di battute, è questione di scelte fatte e che hanno pesato. La riforma del lavoro ha tolto qualche residua tutela a milioni di lavoratori senza dare nulla ai precari. L’intervento sulla scuola incide sulla libertà di insegnamento e sulle condizioni lavorative di migliaia di persone».
Dopo il 41 per cento delle Europee lei disse a Repubblica: «Renzi è un leader, mi ero sbagliato». Cosa è successo dopo?
«Ho riconosciuto quel successo, ho sperato che nascesse una leadership in grado di ascoltare diversi punti di vista. Invece è successo che Renzi ha interpretato quel voto come una forma di autosufficienza, come un’investitura totale. Con i guai che ne sono seguiti».
Lo considera un usurpatore della Ditta?
«Assolutamente no. Anzi, è l’interprete fedele ed estremo del Pd che fu costruito al Lingotto. Bersani purtroppo è stata solo una parentesi. Il Pd ha nel suo statuto una cultura plebiscitaria che poi si riflette nelle sue azioni. Persino sulla scuola abbiamo assunto l’ispirazione dell’uomo solo al comando, il preside, che disciplina gli insegnanti sfaticati».
Secondo lei Bersani resta nel Pd solo perché ne è stato il segretario?
«Con Bersani e con altri c’è la condivisione dell’analisi sullo strappo che si è prodotto con una parte significativa del nostro mondo attraverso le scelte del governo. Ma no, non resta solo perché è l’ex segretario. Ci ho parlato, lui crede ci sia lo spazio per una funzione nel Pd. Sa però che per me è importante fare fino in fondo quello che sento».
Lei dice che nel Pd si vede soprattutto l’establishment, la finanza internazionale. Oltre a Marchionne, a chi si riferisce: a Serra, a Costamagna?
«Nel momento in cui Cassa depositi e Prestiti deve espandere il suo intervento sull’economia reale, il governo nomina un professionista di prima qualità, ma che è espressione della finanza internazionale. C’è un’enorme contraddizione e vedo uno spostamento dell’asse verso interessi forti, quelli del big business industriale e finanziario. Costamagna non è l’unico. Si mettono grandi banchieri d’affari ovunque».
Tipo?
«Ce n’è uno stuolo a Palazzo Chigi, tutti consiglieri del premier ».
Bersani dice: «Se vado via dal Pd, mi rifugio in Vaticano».
Solo uno scherzo?
«L’esortazione Evangelii Gaudium e l’enciclica Laudato Sii contengono una critica radicale al capitalismo che la sinistra non è in grado di esprimere da almeno tre decenni. Consideriamo il riformismo un adattamento passivo alla situazione data, senza nessuna ambizione di correzione di rotta che rimetta la persona al centro. È la politica della Merkel e prima di lei di Schroeder, tanto celebrato a sinistra ».
Sembra quasi dire che Renzi c’entra poco o nulla.
«Il processo non è recente. Il punto è: vogliamo invertirlo o rimaniamo subalterni al dominio tedesco sull’eurozona rappresentando interessi forti e sacrificando in cambio quelli diffusi della gente? Il Pd è quello dei cittadini o di Marchionne e delle banche d’affari internazionali? ».
Civati: la sinistra Possibile vale almeno il 10% dei voti
“Con noi, assieme a Fassina e Cofferati, anche tanti giovani. Non rottamiamo le persone, ma le idee del Novecento”intervista di Francesca Schianchi La Stampa 26.6.15
Un appuntamento con gli altri big fuoriusciti dal Pd, Fassina e Cofferati, il 4 luglio. E un altro, organizzato dalla sua associazione, «Possibile», il 17-19 luglio a Firenze, condiviso da altri movimenti: «Un’occasione per essere tutti insieme e cominciare a costruire un solo soggetto politico», spiega l’ex dem Pippo Civati.
In che tempi?
«Rispetteremo tempi e modi di tutti: fino a ieri l’altro Fassina ancora stava nel Pd, e non so se la fiducia sulla scuola porterà a un’altra diaspora in Senato… L’importante è che protagonisti siano gli elettori e non i ceti politici».
Un buon proposito già sentito altre volte.
«Vogliamo dare vita a un programma di governo che nasca dalla mobilitazione delle persone, dalla discussione più ampia possibile, non un soggetto che sia una sommatoria di sigle».
L’ennesima sinistra del secolo scorso?
«Ma no, c’è bisogno di ragionare - in termini nuovi e senza nostalgia - di politica, di sviluppo, di ricerca. Dobbiamo proporre cose che non esistono ancora, mettere in campo ricette economico-sociali che sappiano includere. Il fatto è che la parola innovazione è la più fraintesa del dizionario italiano».
Cosa intende dire?
«C’è chi ha pensato che la sinistra dovesse essere destra per essere innovativa. Il motivo per cui molti si sono allontanati dal Pd è che ha proposto soluzioni che avevamo già scartato perché erano quelle di Berlusconi».
Facile dire soluzioni nuove, difficile realizzarle: una sinistra moderna cosa fa per prima cosa?
«Io metterei in campo una forma di reddito minimo sull’esempio del Trentino, togliendo gli 80 euro a chi sta bene, come la moglie del parlamentare che può farne a meno».
E sullo spinoso tema dell’immigrazione, cosa farebbe?
«Sulla questione dei campi rom, insieme ai Radicali di Roma, ho proposto di spendere i 24 milioni l’anno che già vengono spesi per individuare percorsi di inclusione e legalità. Non dobbiamo negarci i problemi: Salvini ne parla in modo strumentale e inaccettabile, noi dobbiamo affrontarli con proposte serie e misurate».
Fassina sembra voler tornare alla sinistra di prima del Lingotto: lei non è d’accordo, o sbaglio?
«Ognuno porta il proprio bagaglio e il proprio punto di partenza. Ma il problema non è cosa abbiamo fatto prima, ma cosa faremo da oggi in poi».
E sull’idea – sempre di Fassina - che la vera sinistra la interpreta papa Francesco, concorda?
«La vera sinistra è laica. Solo quando ha scelto la laicità come elemento fondamentale, allora può citare l’enciclica del Papa».
Anche lei vuole rottamare una vecchia idea di sinistra?
«Non ho mai amato il termine rottamazione, ma il concetto è che dobbiamo fare un ragionamento libero, non tanto dalle persone, ma dagli schemi del passato».
Infatti vuole includere anche chi, come Cofferati, non è un volto nuovo della sinistra…
«Domenica alla riunione di Possibile c’erano duemila persone, di età media più bassa della mia: e allora certo che ci può stare anche chi è più anziano ed esperto. La questione è generazionale in termini politici, su come si rappresenta il mondo di oggi. Perché lo si vede anche sulle unioni civili: noi continuiamo a fare quel che altri hanno fatto dieci anni fa».
Non siete un po’ troppi leader per questo soggetto politico?
«E’ un problema che non mi sto ponendo: il leader lo farà chi meglio saprà interpretare la sfida che abbiamo davanti».
Che spazio avete secondo lei?
«Secondo me, il potenziale è del 10%. Dopodiché, certo, bisogna saperlo rappresentare».
Non un’impresa velleitaria come qualcuno insinua, allora…
«Velleitario è chi ha sbaraccato il centrosinistra, non chi cerca di gestire le conseguenze. E poi sa cosa le dico?».
Cosa?
«Anche di Grillo si disse che era velleitario. Si disse “vada alle elezioni e vedremo come andrà”. Visto come è andata, speriamo lo dicano anche a noi...».
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