RisvoltoThe remarkable story of how an artist and a scientist in seventeenth-century Holland transformed the way we see the world.On a summer day in 1674, in the small Dutch city of Delft, Antoni van Leeuwenhoek―a cloth salesman, local bureaucrat, and self-taught natural philosopher―gazed through a tiny lens set into a brass holder and discovered a never-before imagined world of microscopic life. At the same time, in a nearby attic, the painter Johannes Vermeer was using another optical device, a camera obscura, to experiment with light and create the most luminous pictures ever beheld.“See for yourself!” was the clarion call of the 1600s. Scientists peered at nature through microscopes and telescopes, making the discoveries in astronomy, physics, chemistry, and anatomy that ignited the Scientific Revolution. Artists investigated nature with lenses, mirrors, and camera obscuras, creating extraordinarily detailed paintings of flowers and insects, and scenes filled with realistic effects of light, shadow, and color. By extending the reach of sight the new optical instruments prompted the realization that there is more than meets the eye. But they also raised questions about how we see and what it means to see. In answering these questions, scientists and artists in Delft changed how we perceive the world.In Eye of the Beholder, Laura J. Snyder transports us to the streets, inns, and guildhalls of seventeenth-century Holland, where artists and scientists gathered, and to their studios and laboratories, where they mixed paints and prepared canvases, ground and polished lenses, examined and dissected insects and other animals, and invented the modern notion of seeing. With charm and narrative flair Snyder brings Vermeer and Van Leeuwenhoek―and the men and women around them―vividly to life. The story of these two geniuses and the transformation they engendered shows us why we see the world―and our place within it―as we do today.
lunedì 15 giugno 2015
Ottica e pittura nel XVIII secolo
Laura J. Snyder: Eye of the Beholder: Johannes Vermeer, Antoni van Leeuwenhoek, and the reinvention of seeing, W. W. Norton, New York, pagg. 432, $ 27.95
RisvoltoThe remarkable story of how an artist and a scientist in seventeenth-century Holland transformed the way we see the world.On a summer day in 1674, in the small Dutch city of Delft, Antoni van Leeuwenhoek―a cloth salesman, local bureaucrat, and self-taught natural philosopher―gazed through a tiny lens set into a brass holder and discovered a never-before imagined world of microscopic life. At the same time, in a nearby attic, the painter Johannes Vermeer was using another optical device, a camera obscura, to experiment with light and create the most luminous pictures ever beheld.“See for yourself!” was the clarion call of the 1600s. Scientists peered at nature through microscopes and telescopes, making the discoveries in astronomy, physics, chemistry, and anatomy that ignited the Scientific Revolution. Artists investigated nature with lenses, mirrors, and camera obscuras, creating extraordinarily detailed paintings of flowers and insects, and scenes filled with realistic effects of light, shadow, and color. By extending the reach of sight the new optical instruments prompted the realization that there is more than meets the eye. But they also raised questions about how we see and what it means to see. In answering these questions, scientists and artists in Delft changed how we perceive the world.In Eye of the Beholder, Laura J. Snyder transports us to the streets, inns, and guildhalls of seventeenth-century Holland, where artists and scientists gathered, and to their studios and laboratories, where they mixed paints and prepared canvases, ground and polished lenses, examined and dissected insects and other animals, and invented the modern notion of seeing. With charm and narrative flair Snyder brings Vermeer and Van Leeuwenhoek―and the men and women around them―vividly to life. The story of these two geniuses and the transformation they engendered shows us why we see the world―and our place within it―as we do today.
Il microscopio e la camera oscura
Nati nel 1632, Vermeer e il filosofo naturale Van Leeuwenhoek lavorarono a Delft quando esplose l’uso degli strumenti ottici
di Franco Giudice Il Sole Domenica 14.6.15
L’idea, oggi così ovvia, che gli strumenti siano un aiuto dei sensi è
una conquista relativamente recente nella storia dell’umanità . Risale a
circa quattrocento anni fa, all’epoca della cosiddetta rivoluzione
scientifica del XVII secolo, quando iniziò ad affermarsi un modo di
“guardare” la natura del tutto nuovo.
Il canone percettivo, fondato sul primato degli organi di senso, si
rivelò improvvisamente inadeguato, tanto da sconvolgere la rassicurante
immagine che l’uomo aveva dell’universo e di se stesso. E a mostrare
questa inadeguatezza furono appunto gli strumenti inventati in quel
periodo, soprattutto il telescopio e il microscopio, che per la prima
volta consentivano di trascendere i limiti imposti dalla natura ai sensi
e alla conoscenza umana.
Tra resistenze e polemiche, a farsi strada fu l’idea che il mondo
visibile non coincideva più con quello catturato dallo sguardo naturale,
a occhio nudo, e che bisognava pertanto ripensare l’azione stessa del
vedere. Una svolta cruciale insomma, che capovolgeva lo statuto
dell’osservatore e inaugurava una stagione senza precedenti.
È di questa «rivoluzione dello sguardo» che Laura J. Snyder racconta nel
suo libro, facendo immergere il lettore nell’Olanda del secolo d’oro,
dove sembra che gli strumenti ottici abbiano esercitato un’attrazione
irresistibile e contagiosa. Al punto che se gli scienziati, per scrutare
la natura, non potevano più rinunciare al telescopio e al microscopio,
anche gli artisti consideravano ormai indispensabile servirsi di lenti,
specchi e camere oscure, sia per creare immagini straordinariamente
dettagliate di fiori e insetti, sia per ottenere scene con effetti
realistici di luce, ombra e colore.
Più che altrove, dunque, nella Repubblica olandese del XVII secolo il
nuovo modo indagare la natura trasformò non solo la scienza, ma anche
l’arte. E nessun luogo, secondo Laura Snyder, ne offre uno spaccato
migliore di Delft. Due protagonisti assoluti di tale cambiamento furono
infatti il più grande pittore e il più grande filosofo naturale di
questa piccola città : Johannes Vermeer e Antoni van Leeuwenhoek.
Il loro rapporto costituisce da sempre un problema seducente, anzi uno
splendido mistero. Poiché entrambi condividevano lo stesso interesse per
gli effetti visivi delle lenti, si è ipotizzato che si conoscessero
bene e si scambiassero informazioni sull’ottica o su altri argomenti
analoghi. Tanto più poi che essi sembrano uniti da un’intricata
ragnatela di fili: nacquero tutti e due nel 1632, addirittura nella
stessa settimana; da adulti vissero e lavorarono nei pressi della Piazza
grande del mercato di Delft; ebbero amici in comune; e quando nel 1675
Vermeer morì, Leeuwenhoek fu nominato suo esecutore testamentario.
Purtroppo, però, non esiste alcuna testimonianza che dimostri una loro
effettiva frequentazione.
Alcuni storici dell’arte hanno suggerito che lo studioso raffigurato in
due famosi dipinti di Vermeer – L’astronomo (1668) e Il geografo
(1668-69 ca.) – sia Leeuwenhoek, e che possa essere stato proprio lui a
commissionarli al pittore. Anche in questo caso, però, non c’è alcuna
prova documentaria. E non aiuta di certo il confronto con i ritratti
noti di Leeuwenhoek che, essendo di epoca successiva, risultano poco
rassomiglianti con quelli eseguiti da Vermeer.
L’impossibilità di stabilire se Vermeer e Leeuwenhoek si conoscessero è
un fatto ammesso dalla stessa Laura Snyder, che lo considera perfino
secondario, convinta com’è che «il vero fascino della storia delle loro
vite e delle loro opere consista nel ruolo centrale che entrambi ebbero
nell’affermazione dell’idea moderna di visione». È in questa idea che, a
suo avviso, va ricercato l’autentico legame tra i due geni di Delft.
Mercante di tessuti e piccolo funzionario pubblico, Leeuwenhoek iniziò a
far uso di lenti per motivi professionali: per esaminare le trame delle
stoffe. Non aveva ricevuto alcuna istruzione universitaria, non
conosceva il latino, e non aveva particolari cognizioni di storia
naturale o di filosofia. Fu in tutto e per tutto un autodidatta, che nel
tempo libero imparò a molare, lucidare e montare lenti con notevoli
capacità di ingrandimento. Quasi un passatempo, che finì però per
trasformarsi in un secondo lavoro e in un’insaziabile curiosità per ogni
aspetto della natura. Così, questo semplice uomo di commercio,
nell’estate del 1674, poteva annunciare alla Royal Society qualcosa che
aveva dell’incredibile: analizzando al microscopio l’acqua di un
laghetto vicino a Delft, era riuscito a vedere una miriade di
piccolissimi organismi viventi, ossia i protozoi. Era la prima di una
serie di straordinarie scoperte, tra cui quella dei batteri e degli
spermatozoi.
Anche se altri avevano già ottenuto importanti risultati con il
microscopio, Leeuwenhoek finì per superarli tutti. Le sue osservazioni
rivelavano una dimensione della vita sconosciuta e non percepibile ai
sensi, un nuovo mondo di cui nessuno prima aveva immaginato l’esistenza:
il mondo microscopico. E con la pubblicazione delle sue ricerche sulle
«Philosophical Transactions», la rivista ufficiale della Royal Society,
Leeuwenhoek divenne uno scienziato di fama internazionale. Studiosi,
dignitari di corte e perfino sovrani, come Pietro il Grande di Russia,
si recavano a Delft per assistere allo stupefacente spettacolo di
minuscole creature viventi che Leewenhoek preparava per loro.
Vermeer, invece, un successo del genere non lo assaporò nemmeno.
L’artista che ha creato alcune delle opere più ammirate e celebrate di
tutti i tempi – dalla Veduta di Delft alla Fanciulla con perla
all’orecchio, dalla Merlettaia all’Allegoria della pittura – rischiò
quasi di essere cancellato dagli annali della storia dell’arte. Certo,
durante la maggior parte della sua carriera si conquistò una buona fama a
Delft ed era conosciuto anche al di fuori della sua città . Ma dipingeva
con estrema lentezza, la sua produzione fu piuttosto esigua, e non
diventò mai una figura di spicco nel mercato dell’arte. Quando nel 1672,
in seguito alla guerra con la Francia, l’Olanda precipitò in una
drammatica crisi economica, Vermeer ne fu letteralmente inghiottito.
Alla sua morte, lasciò la moglie, dieci figli minorenni e un’ingente
quantità di debiti. I suoi dipinti andarono dispersi e in molti casi
attribuiti a pittori più noti di lui. La rivalutazione critica della sua
opera iniziò soltanto a Settecento inoltrato.
Laura Snyder ripercorre ogni tappa di questa tragica vicenda, ma la sua
attenzione si rivolge soprattutto a una delle questioni più complesse e
dibattute tra gli studiosi: il ruolo della camera oscura nella pittura
di Vermeer. Questo dispositivo, che nel XVII secolo era diventato ormai
di ampio uso, si basa su un principio alquanto semplice: la luce che
passa attraverso un piccolo foro ed entra in una stanza immersa nel buio
proietta sulla parete opposta un’immagine capovolta di qualsiasi
oggetto o scena si trovi all’esterno. L’immagine viene poi messa a fuoco
con una lente convessa collocata in prossimità del foro e può, con
l’aiuto di uno specchio, essere raddrizzata. Poiché però la camera
oscura non lascia tracce visibili nei dipinti, è sempre difficile
stabilirne l’impiego da parte di un artista.
Nel caso di Vermeer, dopo l’importante studio di Philip Steadman
(Vermeer’s Camera, Oxford University Press, 2001), che ha dimostrato
come, nella composizione di almeno dieci quadri, il pittore si sia
avvalso di una camera oscura, la discussione poggia ora su un terreno
più solido. Laura Snyder è molto critica – e un po’ ingenerosa – nei
confronti di questo libro. Ma anche lei, pur sottolineando che «Vermeer
non era schiavo dell’ottica della camera oscura», è certa che l’artista
di Delft ne facesse uso e riuscisse così, come ripete più volte, a
vedere «cose nuove», cose non visibili a occhio nudo. Sfugge tuttavia
quali siano queste “cose” che soltanto la camera oscura rende visibili.
Ovviamente, la camera oscura, l’abbiamo detto, mostra in scala oggetti e
fenomeni che ci circondano, ma non come quelli veramente invisibili, in
quanto troppo lontani o troppo piccoli, rivelati dal telescopio e dal
microscopio. Le suggestive descrizioni che fa Laura Snyder di alcuni
effetti di colore, luce e ombra presenti nei dipinti di Vermeer, non
bastano quindi a spiegare quale fosse, in concreto, il supplemento
visivo che la camera oscura offriva all’artista. Il ricorso a questo
dispositivo scaturiva infatti dalla sua capacità di trasformare scene
tridimensionali in immagini bidimensionali, che potevano essere studiate
in dettaglio e perfino ricalcate. Ma ciò che Vermeer apprezzava di più
era che la camera oscura produceva immagini con un sensibile aumento del
tono e del colore, permettendo di vedere, o di vedere meglio rispetto
alla scena originale, le sfumature di luce e ombra.
Il libro di Laura Snyder è scritto con un’efficacia narrativa che non ha
nulla da invidiare a un romanzo come quello che Tracy Chevalier ha
dedicato a Vermeer (La ragazza con l’orecchino di perla, Neri Pozza).
Questo pregio, che ne rende piacevole la lettura, non sempre però si
concilia con il rigore storico che ci aspetterebbe da una studiosa. A
stupire quindi non sono tanto certe sue interpretazioni, su cui si può
essere d’accordo o meno, quanto alcuni scivoloni. Anche perché,
soprattutto in epoca di Wikipedia, erano facilmente evitabili, come la
sede dell’Accademia dei Lincei, che l’autrice colloca a Firenze e non a
Roma, o come la traduzione dell’«occhialino» di Galileo con un
improbabile little eye, anziché con il più appropriato small eyeglass.
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