martedì 22 settembre 2015
Carter e Magris su Robert Graves
Confronto con uno dei più esperti conoscitori di Robert Graves, lo scrittore e poeta inglese che analizzò il tema della divinità femminile Dall’Irlanda all’Asia Minore: il culto della Grande madre contro quello di Zeus
IL MITO MATRIARCALE
All’origine del volume anche lo choc del Primo conflitto mondiale. Il risultato: la rappresentazione fantastica e barocca della nostra società distruttiva e suicida
17 set 2015 Corriere della Sera di Claudio Magris
Il mito, è stato scritto, è ciò che non è mai accaduto e accade sempre. Nessuna creatura, divina o umana, è mai nata come Afrodite dalla spuma del mare e dai genitali dell’evirato Urano, ma l’infinito del cielo e del mare associati alla dea dell’amore dicono tante verità su quest’ultimo. Mito, afferma Valéry, è ciò che accade soltanto nella parola e solo questo gli conferisce verità che attraversa il tempo. Mito, in greco, vuol dire racconto; parla certo anche del mistero, ma del mistero che c’è nel vivere, innamorarsi, morire. Mistero di tutti, non occulto segreto di pochi custodito da pretesi iniziati né oscurità ineffabile, come pretende tanta cultura esoterica, spesso pacchiana. C’è stato pure un uso fascista del mito, che Mann o Broch — grandi autentici poeti del mito — volevano esorcizzare. Il mito ha bisogno dell’illuminismo e viceversa; altrimenti si ha soltanto uno pseudo arcano kitsch o una piatta e ottusa ragione strumentale.
Nel Novecento il mito è stato fondamentale per la letteratura, che ha trovato in esso le sue strutture profonde — basti pensare, per fare solo un esempio fra molti, a Joyce. Sono pure usciti molti libri che hanno rinarrato, interpretandoli, i miti — specie greci — costitutivi della nostra civiltà o di civiltà a noi prossime, facendoli «echeggiare di nuovo tra noi», come scrive Pietro Citati. I libri di Kerényi, di Calasso, di Guidorizzi, di Mascioni, di Graves (che insieme a Patai ha rinarrato pure quegli ebraici) e altri ancora.
Uno dei grandi mitografi del Novecento è Robert Graves, il celebre scrittore e poeta inglese noto soprattutto per i suoi romanzi storici — Io, Claudio (1934); Il divo Claudio (1934) — e grande specialmente come poeta. Quale mitologo, il suo capolavoro è forse La Dea Bianca (1948), vastissima e poetica summa che ricostruisce, analizza e interpreta una tradizione mitica che abbraccia soprattutto le divinità e i culti celti, gallesi e irlandesi, spingendosi sino all’Asia minore e più oltre ancora e celebrando il mito femminile, lunare, matriarcale e infero contrapposto a quello olimpico, virile, patriarcale, gerarchico. La Grande madre contro Zeus.
Ne parlo con uno dei più esperti interpreti e conoscitori di Graves, Nicholas Carter. Nato in Inghilterra nel 1942, cresciuto in Rhodesia e in Sudafrica dove ha studiato all’Università del Natal, prima di tornare in Inghilterra a diplomarsi all’Università di Oxford e di conseguire il Ph.D al famoso Trinity College di Dublino. È fra l’altro autore di una grande monografia su Graves. Nel 1986 è arrivato a Trieste, a insegnare inglese, e si è fermato; uno di quei nomadi che — come l’inglese Richard Burton o i fratelli Joyce — la storia ha depositato sulle spiagge di una città eterogenea cresciuta in un impero diverso da quello britannico.
«In questo libro, gli chiedo, Graves sembra assomigliare più a Mircea Eliade che a Kerényi o a Thomas Mann; sembra credere a una verità arcana ma oggettiva di questi miti, soprattutto celti. Una verità da prendere alla lettera come quella delle religioni, non una metafora poetica della vita, della natura e del mondo...».
Nicholas Carter — Nel suo romanzo La figlia di Omero, Nausicaa, che è il narratore, afferma, con una ferma convinzione che è pure di Graves, che non esiste alcuna vera vita aldilà di quella che conosciamo e che si svolge sotto il sole, la luna e le stelle. Ma una volta, mentre ero con lui nel suo giardino e lui mi insegnava come si deve diserbare, improvvisamente mi disse che avrebbe ricostruito a Colchester l’altare dell’imperatore Claudio. In senso metaforico, credevo pensando al progetto di un libro, ma lui — guardandomi direttamente negli occhi e lasciandomi spiazzato e incapace di replicare — mi disse: «Claudio, come lei sa, è un dio».
I miti mi hanno affascinato fin da quando avevo dieci anni e, trascurando le letture scolastiche, ho comperato i due volumi sui miti di Graves restandone sconcertato, perché non rinarravano solo le vicende a me care di Giasone o della guerra di Troia, ma nei commenti si addentravano nella storia e nell’antropologia, indagavano la società matriarcale a suo avviso originariamente dominante nel Mediterraneo e poi scalzata dai popoli patriarcali invasori. Più tardi ho capito che nel mito Graves cercava di rimpiazzare la civiltà distrutta dalla Prima guerra mondiale e cercava pure una salvezza personale, trovandola o credendo di trovarla nella Dea Bianca, che era insieme una visione del mondo e la sua Musa. Anche il suo Danubio, del resto, ha un’analoga funzione unificante, risonanze che forse non esistevano prima del suo libro e che forse nascono dalla scrittura...
Claudio Magris — Certo, ogni nuova configurazione di qualsiasi realtà la cambia, la arricchisce; ogni commento al mito è mitico a sua volta ossia una nuova narrazione. Glissant mi ha detto una volta che ho fatto parlare l’inconscio del Danubio. Pure io da ragazzo ero affascinato dal mito, leggevo compilazioni e riassunti dei miti delle più diverse civiltà. Mi sono confrontato con i significati anche contraddittori del mito: ideaforza e/o verità essenziale, come nel mio Mito absburgico. In altri libri la struttura profonda è costituita da miti — di Euridice, di Alcesti, del Vello d’oro. La Dea Bianca celebra — contro la mitologia olimpica maschile — quella femminile e matriarcale; mi chiedo se tale civiltà sia mai veramente esistita. La Dea Bianca è anche il sesso che tutto abbraccia e annienta. Non la Grecia apollinea ma la Grecia e l’Asia dionisiaca, la notte, il grembo polimorfo di ogni vita. Questa Dea Bianca è tuttavia pure dominio crudele, soprattutto sessuale, della donna sull’uomo. Si può parlare di una sessualità masochista in Graves ?
Nicholas Carter — Posso rispondere con le parole dello stesso Graves, il quale diceva che, da quando aveva quindici anni, la passione determinante della sua vita era stata la poesia, in contrapposizione all’ambiente ostile della scuola. Certezza nella poesia significava incertezza nella vita, non meno di quanto lo sia l’amore romantico. Ed è qui che arriva, salvifica, la Dea madre di tutto ciò che vive e che sa pure incarnarsi in una donna mortale, Musa di cui il poeta si innamora perdutamente, benché consapevole di ciò che lo attende, dolore e tradimento. Come osserva Rougemont, «l’amore felice non ha storia».
Claudio Magris — Pure nella cultura tedesca nazisteggiante c’era una contrapposizione fra mito maschile — solare olimpico, dorico, gerarchico — e mito femminile in cui l’amore della madre non va particolarmente all’eroe, come nella visione dorica, ma egualmente a tutti i suoi figli, forti o deboli, però solo ai figli usciti dal suo stesso grembo, a tutti quelli dello stesso sangue, della stessa razza...
Nicholas Carter — Nessun albero ha una sola radice e le origini della Dea Bianca sono molteplici. Stretta- Vedi pagina 41
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