martedì 22 settembre 2015

La delazione nelle comunità ebraiche italiane

curci roberto - via san nicolo' 30
Roberto Curci: Via San Nicolò 30. Traditori e traditi nella Trieste nazista, il Mulino

Risvolto

Una storia sbagliata, che coinvolge molti ebrei della comunità triestina e ha il suo centro simbolico in una casa di via San Nicolò (la stessa in cui abitò Joyce), dove si trovava ad un tempo la libreria antiquaria dell'ebreo Umberto Saba e il laboratorio di sartoria e l'abitazione dell'ebreo Grini, lontano parente di Saba. Un figlio di questo sarto, durante l'occupazione nazista, collaborerà attivamente a identificare e catturare molti dei suoi correligionari, poi deportati e uccisi. Attorno alle infami imprese dell'ebreo traditore, ricostruite anche in base alle risultanze processuali, ciò che Curci delinea è però una rete ambigua di legami, di corresponsabilità, di vigliaccherie, di reticenze e silenzi che avviluppa Trieste. Una storia che si vorrebbe dimenticare, e che invece riveste uno straordinario valore esemplare. 

Un saggio di Roberto Curci ricostruisce tradimenti e drammi durante la Shoah nella città della famigerata Risiera di San Sabba. Vicende dolorose e ambigue su cui negli anni del dopoguerra i diretti interessati stesero un velo di silenzio

EBREI NEMICI DEGLI EBREI 

15 set 2015  Corriere della Sera di Paolo Mieli 

L’ATTIVITÀ DELATORIA DEL TRIESTINO GRINI LE INVETTIVE ANTISEMITE DI UMBERTO SABA 
Per anni nel secondo dopoguerra passò di bocca in bocca la voce che da qualche parte a Trieste fossero nascosti cinque forzieri che contenevano beni sequestrati dai nazisti agli ebrei (gioielli, orologi, persino protesi dentarie in oro) e poi lì abbandonati al momento della disfatta dell’esercito hitleriano. Forse in attesa di tempi migliori nei quali chi sapeva di quel tesoro avrebbe potuto recuperarlo. È di qui che prende le mosse un libro assai avvincente di Roberto Curci, Via San Nicolò 30. Traditori e traditi nella Trieste nazista, in procinto di essere pubblicato dal Mulino. 
Nel 1997, racconta Curci, «quasi per incanto si scoprì che in effetti le cinque casse colme di oggetti preziosi e personali… non erano fantasia o leggenda, e non giacevano in qualche segreto rifugio dei numerosi nazisti sfuggiti alla cattura, ma erano a Roma, alla Tesoreria centrale dello Stato». Quei beni furono restituiti all’Unione delle comunità ebraiche dall’allora ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi, che rilevò la pochezza di quel «risarcimento» e, nella cerimonia dedicata alla restituzione, disse che non si trattava di gioielli e altri preziosi, bensì di un «tesoro di memorie e di sofferenze». 
La vita delle comunità israelitiche dell’Italia nordorientale era stata particolarmente drammatica ai tempi dell’occupazione nazista successiva all’armistizio del 1943. Giuseppe Jona, clinico di grande fama nonché presidente della Comunità ebraica di Venezia, il 17 settembre del 1943 si tolse la vita con un’iniezione di morfina, per non essere costretto a consegnare ai nazisti l’elenco aggiornato dei concittadini ebrei. Due mesi dopo, il 1° dicembre, «Il Gazzettino» giustificherà le persecuzioni naziste sostenendo che gli ebrei «nemici occulti o aperti, comunque mai smascherati, non potevano più vivere liberamente fra noi, troppo di questa libertà essi hanno in ogni tempo e in ogni circostanza approfittato». «Isolati nei campi di concentramento», proseguirà il giornale veneziano, «la loro azione sarà stroncata… e con i loro beni (si provvederà) ai più urgenti bisogni dei nostri fratelli colpiti dal terrorismo aereo». «La congiura giudaica aveva tirato troppo la corda, oggi la corda si è definitivamente rotta ed ha portato ai colpevoli il giusto castigo», concludeva l’articolo. E per gli ebrei fu l’inizio della fine. Una fine che fu resa ancora più atroce da alcuni casi di delazione. 
Il 16 agosto del 1944, due dei cinque figli di Adolfo Luft e Teresa Ribarich si imbatterono alla stazione di Venezia in un loro correligionario «che conoscevano fin troppo bene». E uno dei due, non si sa se Adolfo o Ignazio, gli urlò: «Farabutto! Sappiamo che tu, ebreo, denunci gli ebrei!». Il destinatario di quelle accuse era Mauro Grini. Chi era l’uomo a cui era stato indirizzato quel grido e che «ancor oggi, per la comunità ebraica di Trieste, è «l’innominabile»? 
Su Grini e sulle sue nefaste imprese, osserva Curci, «esiste ben scarna letteratura, cui fa comunque velo una diffusa, prudente reticenza, forse frutto di insondabili meccanismi di rimozione». Per «il delitto plurimo di cui si macchiò — magari lamentandosi della propria malasorte — mancò, e continua a mancare, un davvero plausibile movente». Né vale la pena di ricorrere a «opinabili verdetti psicoanalitici», alla «trita diagnosi dell’odio di sé, ovvero dell’antisemitismo semita… o a ipotesi di distorsioni dell’Io, di presunte esigenze di riscatto (o ritorsione) personale o sociale, difficilmente però attribuibili al dissipato giovanotto Grini, amante della vita agiata e — così affermava chi lo conobbe — delle belle automobili». 
Su di lui resta una scheda diffusa dal Comitato di liberazione nazionale per l’Alta Italia, datata 1° marzo 1945 e destinata all’«attenzione» dei partigiani, che pubblicò Mimmo Franzinelli nel documentatissimo libro Delatori (Mondadori). C’è scritto che Mauro Grini è «specializzato» nella consegna alle SS dei suoi correligionari. Ne ha fatto catturare trecento a Trieste, un centinaio a Venezia e a Milano «continua con una media di due al giorno». «Percepisce settemila lire per ciascun ebreo che fa arrestare». «A Milano è in compagnia di due tedeschi, gira al centro e specie in Galleria».  
Il nostro personaggio non risparmia neanche i suoi parenti più stretti. Sarebbe stato proprio lui, scrive Curci, «per disumano rancore nei confronti della sua medesima famiglia e in particolare del padre, a denunciare e a far rastrellare i Grini, a metà del ’44, proprio mentre il capofamiglia Samuele assieme alla moglie e al secondogenito stava meditando la fuga da Trieste e raccogliendo i mezzi necessari a propiziarla». Ma, secondo la testimonianza di Bruno Maestro, era stata una messa in scena: l’intera famiglia Grini si trovava sì nella Risiera di San Sabba, ma godeva di un «trattamento preferenziale». Di più: la madre cieca di Mauro


Grini, Cornelia Coen Luzzatto, dotata di un’eccellente memoria, «collaborava ai rastrellamenti degli ebrei operati dal figlio Mauro, perché lo informava di quanti elementi ciascuna famiglia si componesse, così che nessuno potesse sfuggire e salvarsi». I Grini nel campo «godevano di un trattamento di eccezionale favore», testimonierà anche Enrico Breiner al giudice Sergio Serbo nel processo che si terrà nel giugno del 1967. In un successivo dibattimento giudiziario, celebrato nel 1976, il giudice fu costretto a mettere a verbale che nel dopoguerra, a Trieste, tutti i familiari dell’informatore «invero (e ingiustamente) furono considerati, e non solo nell’ambiente ebraico, quali beneficiati dall’opera di delazione e persecuzione svolta dal Mauro Grini». A cominciare dal fratello Carlo e da sua moglie Lidia Frankel. Mauro Grini, in ogni caso, non si sarebbe limitato a prendere soldi dai tedeschi. Affiancato da una sua «donna-complice», Maria Collini, aveva offerto talvolta protezione alle sue vittime. Ma «spesso e volentieri incassa e poi tradisce, ossia garantisce di proteggere o salvare e poi non lo fa: chiede diecimila lire per evitare la deportazione del padovano Carlo Sommermann, che invece finisce in qualche campo di sterminio e non ne fa ritorno». Poi «arraffa quanto può nelle case di coloro che fa catturare: denaro, gioielli e capi di vestiario nell’abitazione di Simone Levi; libretti di banca “per l’ammontare di parecchie centinaia di migliaia di lire” in quella della famiglia Trevi», finita poi in Risiera; «centomila lire, gioielli e vestiti nell’appartamento di Paolo Macerata, deportato e scomparso; mentre in quella della maestra Grünwald Levi, appena fatta arrestare, “asportò subito un vestito da uomo e vari capi

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