martedì 22 settembre 2015

Cosa sta diventando la filosofia nell'epoca del social network. E dell'egemonia dei giornali tipo Repubblica o il Manifesto

Nein Eric Jarosinski: Nein. Un manifesto, traduzione di Luca Mastrantonio, Marsilio, pagg. 141, euro 12

Risvolto
Irriverente e divertente indagine filosofica sul nostro quotidiano, Nein. Un manifesto nasce dal fenomeno Twitter @NeinQuarterly, che ha raggiunto in pochi anni un seguito eccezionale in tutto il mondo. Giocando con modelli come Nietzsche, Kraus, Benjamin e Adorno, Eric Jarosinski - che si definisce un «intellettuale fallito» convertitosi in «aforista su internet» - inventa una filosofia a in pillole per un mondo condannato alla distrazione e alla tirannia del sì. Per Luca Mastrantonio - che ne ha curato l’edizione italiana - «i no di Nein. non sono semplici no, e neppure dei sì mascherati: sono l’utopia della negazione, realizzata nel luogo della comunicazione breve. Perché per dire no al mondo bisogna dire no a se stessi e anche a chi ti vende facili soluzioni. Ci vuole un esercizio costante, di dissenso dotato di senso. In 140 comodi caratteri».
La filosofia non è ancora social
Adriano Fabris Avvenire 22 settembre 2015

Nein, il manifesto di Eric JarosinskiLa raccolta degli aforismi di @NeinQuarterly, la voce più cinica del web
Panorama

Caro Adorno sono i tweet i Minima Moralia 2.0I suoi aforismi del No spopolano sui social Parla il web-filosofo Eric JarosinskiFRANCESCA DE BENEDETTI
Eric Jarosinski, americano di 44 anni, ex docente di cultura tedesca all’università della Pennsylvania,è un uomo garbato,e le sue risposte non sono mai brevi. Ma il suo alter ego, @NeinQuarterly, è spietato: dal 2012 twitta aforismi filosofici e battute taglienti, con un grandissimo seguito social. E ora le sue massime sono diventate
un libro, Nein. Un manifesto, edito da Marsilio. Grandi questioni o piccole cose, niente sfugge al nichilismo dell’autore: «Tutto è possibile, anche il peggio», avvisa lui. E al lettore la cosa piace: Nein è diventato il fenomeno pop della negatività. In cui ogni frase è però originale, preparata con cura e ingredienti pregiati. Non a caso la grande fonte di ispirazione è Theodor Adorno: «I suoi Minima Moralia sono l’opera che ho più frequentato, un allenamento a interrogarsi sul mondo in modo critico». Anche se, aggiunge, «perfino i grandi del pensiero non vanno mai presi troppo sul serio».
Professor Jarosinski, perché ha lasciato l’università per diventare Nein?
«Una volta credevo nella filosofia, leggevo autori come Adorno o Marx. Esattamente come faccio ora. Ma ero solo alla mia scrivania, obbligato a scrivere libri per fare carriera accademica. Mi sentivo sotto pressione, inadeguato di fronte a testi e autori difficili. Ho cominciato a twittare per puro piacere e non ho più smesso, anzi ho lasciato la vita di prima. Mi diverto molto di più».
Nein si definisce “intellettuale fallito”: un invito a riscoprire il piacere del fallimento, contro la religione del successo e dei “sì”?
«Quell’etichetta me la sono data il giorno in cui ho deciso di uscire dalla trappola che mi ero creato con l’università. Adottando il fallimento come parte di ciò che sono, ho ricevuto in cambio libertà. Ho smesso di non sentirmi mai abbastanza: che aspettative avere da un fallito dichiarato? Tutti noi dovremmo smettere di rincorrere mete che non sentiamo nostre ».
Ma perché proprio i tweet?
«Il tweet è sfida: l’immediatezza è stimolante, sei sempre connesso ad altri che possono criticarti. Non c’è contesto se non un flusso di messaggi in bottiglia. Ho imparato a capire il mezzo, cercando il ritmo giusto per l’umorismo. Non voglio esagerare l’impatto di Twitter nell’avvicinare le persone alla filosofia: gran parte del mio pubblico è già interessata. Ma il mio progetto è liberatorio: alleggerisco autori e temi difficili dall’ansia che portano con sé, e dico che li si può criticare con ironia. Immagino i miei follower, magari ex studenti di filosofia, nei loro uffici in pausa caffè a leggere i miei aforismi».
Con il libro-manifesto vuole provocare una reazione? In altre parole, c’è un “nein” che dovremmo dire e manchiamo di dire?
«Sono cresciuto in una cittadina del Wisconsin dove dire no era un desiderio represso. Non è facile dire no nelle cittadine del Midwest, non lo è negli Usa, è meno difficile in culture come quella tedesca. Dopo il primo “nein” all’accademia, ne ho detti molti altri. Parlando d’attualità, ho una posizione molto critica verso l’austerity, ad esempio. Ma il tipo di “nein” su cui ho costruito un progetto non va inteso come un semplice no a tutto. È un “no, ci devono essere altre possibilità”. Prenda la questione dei migranti. In Germania e altre parti d’Europa si difende una cultura dell’accoglienza: un “nein” alle risposte facili di certa destra che prova a capitalizzare la paura».
Essere pop ha un costo?
«Twitter fa parte dell’industria culturale. Spesso per costruire i miei tweet piego il tipico linguaggio pubblicitario a contenuti molto diversi. Non vendo prodotti, offro dialettica: usare il format di una pubblicità di carte di credito per parlare di Dio è una sfida estetica ».
E perché convertire i tweet in libro?
«Il libro nasce anche da una necessità economica, coi tweet non si sbarca il lunario. Ma c’è di più. Accorpare quei frammenti in un corpus organico significa dargli nuova vita, nuovo senso».
Adorno è per lei una fonte di ispirazione: considera gli aforismi di Nein i “Minima Moralia” del web?
«Amo i Minima Moralia , la sua opera che più ho frequentato. È un allenamento a interrogarsi sul mondo in modo critico, cosa che provo a fare anch’io. I grandi della filosofia vanno presi sul serio ma anche demistificati. Ritenerli intoccabili significherebbe tenerli a distanza. Adorno è stato a lungo rimosso dalla cultura popolare di massa. Il mio logo è una sua caricatura: gli ho fatto indossare un monocolo, che è un tratto aristocratico e strizza l’occhio a un certo pubblico. Lui mi ispira, ma voglio praticare l’irriverenza ».
“I social sono bottiglie senza messaggi, pieni di amici ma non veri”, scrive su Twitter.
«Nein non è antitecnologico, pratica l’accettazione critica. C’è sempre un rapporto con il proprio tempo da considerare, e malgrado i difetti non sottovaluterei la capacità di denuncia di cui i social possono essere portatori».
Anche su Facebook presto potremo cliccare su un nuovo pulsante “mi dispiace”, ma ancora non potremo dire “nein: non ci piace”.
«Facebook vuole mantenere un ambiente positivo perché è più conveniente in termini di business. Ma saranno determinanti anche i significati che noi faremo assumere, con l’uso, a quel pulsante. Zuckerberg non può determinarli e controllarli dall’alto: molto dipenderà da noi».
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“Una volta credevo nella carriera accademica ora in rete raggiungo molti più studenti” “I grandi filosofi sono fonti d’ispirazione ma non bisogna prenderli troppo sul serio”


Una teoria critica a colpi di tweet
Nein. Un’intervista con Eric Jarosinski, il filosofo statunitense diventato una star di Twitter e della Rete, nonché autore del volume di aforismi «Nein» pubblicato da Marsilio
Simone Pieranni, Benedetto Vecchi Manifesto 27.10.2015


«Ho ini­ziato a scri­vere quando non ero più in grado di scri­vere», rac­conta , pro­fes­sore di let­te­ra­tura tede­sca negli Stati Uniti, tede­sco di ori­gine e indi­riz­zato ad una vita da intel­let­tuale fallito. 

Poi, come tanti altri, sco­pre Twit­ter, comin­cia a scri­vere afo­ri­smi e bat­tute basate sul para­dosso, sul gioco di parole. Il signi­fi­cato è poco impor­tante, conta il ritmo, l’ironia, e quel Nein così spesso usato. Su Twit­ter, dove viag­giano sen­ti­menti di una marea umana, spesso preda dell’ego e dell’esibizionismo, il no di Eric Jaro­sin­ski fa brec­cia. I fol­lo­wer aumen­tano, la noto­rietà anche. 

Un arti­colo del «New Yor­ker» lo sdo­gana al grande pub­blico, comin­cia a col­la­bo­rare con testate gior­na­li­sti­che, pub­blica un libro di afo­ri­smi, pub­bli­cati in Ita­lia da Mar­si­lio (Nein, pp. 137, euro 12). 

Il suc­cesso diventa glo­bale, tra­cima dalla Rete e inve­ste la discus­sione sul fare filo­so­fia, sul destino della net­work cul­ture, sulla politica. 

Alcuni gior­na­li­sti para­go­nano gli afo­ri­smi di Jaro­sin­ski a quelli scritti tanti anni fa da Theo­dor W. Adorno. Altri fanno il nome di Frie­drich Nie­tzsche, altri ancora lo stile fram­men­ta­rio di Wal­ter Ben­ja­min. Niente di tutto ciò, dice l’interessato. 

Più sem­pli­ce­mente, la sua è un’attitudine cri­tica con­den­sata in 140 carat­teri, cioè il vin­colo impo­sto dal social net­work e usato da Jaro­sinki come un limite da rispet­tare al fine della chia­rezza e dell’efficacia dei suoi tweet. 

Il suo account ha ormai cen­ti­naia di migliaia di «seguaci». C’è anche una linea di mer­chan­di­sing per il suo Nein. E come una rock­star, comin­cia la sua tournee. 

Cosa si aspet­tava dalla sua atti­vità su Twit­ter, era pronto a que­sto genere di successo? 

Non mi aspet­tavo niente, a dire il vero. Volevo scri­vere testi filo­so­fici nor­mali, ma non ci riu­scivo più. Avevo una spe­cie di «blocco dello scrit­tore». All’inizio su Twit­ter scri­vevo per me. Poi ho comin­ciato ad avere un pub­blico di gior­na­li­sti tede­schi che accen­de­vano il com­pu­ter nei miei stessi orari. Pos­siamo dire quindi che si è trat­tato di un feno­meno media­tico legato al vec­chio modo di fare gior­na­li­smo. È a que­sto punto che il dia­rio per­so­nale che stavo costruendo è diven­tato altro. Gli argo­menti, i temi che affron­tavo sono rima­sti «liberi», cioè non segui­vano un pro­gramma defi­nito a priori, ma ho comin­ciato a stare più attento alla loro ricezione. 

Lei ha una for­ma­zione filo­so­fica che riba­di­sce nei suoi tweet. Vuol dire che in Rete si può fare filo­so­fia solo con la forma dell’aforisma? 

Non penso affatto di fare filo­so­fia. Più sem­pli­ce­mente ritengo di poter dare un con­tri­buto all’insegnamento della filo­so­fia. Amo però molto autori che hanno scelto l’aforisma per il loro filo­so­fare. Forse sono stato influen­zato dalla forma da loro scelta per espri­mere con­cetti e pen­sieri. Più banal­mente, mi sono posto il pro­blema di come possa essere comu­ni­cato un con­cetto in ter­mini sem­plici e con una chia­rezza che spesso è igno­rata da molti filosofi. 

Molti filo­sofi affer­mano che la loro non è filosofia.…. 

Idea inte­res­sante, ma riguarda certo quel che ho fatto e che fac­cio in Rete. So bene qual è la dif­fe­renza tra un gioco di parole e il pro­cesso lungo, fati­coso che porta a defi­nire un con­cetto o a misu­rarsi con un tema tipico della filo­so­fia. Ho ini­ziato gio­cando con le parole e ho con­ti­nuato a gio­carci. Nel corso del tempo, quando sono cioè uscito dal dia­rio per­so­nale, mi sono pre­fisso un obiet­tivo: svol­gere una tra­du­zione di temi filo­so­fici in un lin­guag­gio che possa atti­rare l’attenzione di un pub­blico più vasto, meno limi­tato a quello dell’accademia, dove è spesso con­fi­nata la filo­so­fia. Il ruolo che mi sono asse­gnato è dun­que quello del tra­dut­tore. E lo fac­cio attra­verso il gioco di parole. 

Lei è un autore che si misura con la cul­tura filo­so­fica tede­sca con un approc­cio disin­can­tato con la Rete. Non c’è, infatti, nei suoi afo­ri­smi nes­sun atteg­gia­mento di rifiuto della Rete come ambito che nega la pos­si­bi­lità di svi­lup­pare un pen­siero «auten­tico». Ma non c’è, all’opposto, nes­suna pro­pen­sione apo­lo­ge­tica delle pos­si­bi­lità offerte dalla comu­ni­ca­zione on line.… 

Ho fre­quen­tato per più di vent’anni il mondo filo­so­fico tede­sco. Anche qui la casua­lità ha svolto un ruolo impor­tante, per­ché mi sono avvi­ci­nato ai filo­sofi tede­schi per caso, come per Twit­ter. Sono stati venti anni molti intensi. Mi sono inna­mo­rato della filo­so­fia tede­sca, l’ho poi odiata, fino a giun­gere alla con­clu­sione che era riu­scito, forse, a cono­scerla. Ho dun­que fatto cono­scenza dell’altro. 

Un’esperienza che invito a fare a tutti gli stu­denti con i quali parlo, per­ché cono­scere l’altro è un’esperienza entu­sia­smante. Dopo venti anni pas­sati in Ger­ma­nia, mi sono accorto che mi ero ricon­ci­liato con il mio essere ame­ri­cano, cosa che prima mal dige­rivo. Sono infatti quasi fug­gito dal mio paese. Sono tor­nato a casa arric­chito, cam­biato, tra­sfor­mato, cresciuto. 

Con l’aumento dei fol­lo­wer sono cam­biati i suoi mes­saggi? Il suc­cesso li ha influenzati? 

Sono diven­tato più attento rispetto a quanto scri­vevo prima. Quello che mi manca di più adesso è la per­dita di un lato per­so­nale nei miei tweet. 

Come si evol­verà al di là del libro il per­so­nag­gio cui ha dato voce su Twitter? 

È già cam­biato tan­tis­simo. All’inizio mi occu­pavo di filo­so­fia, di studi ger­ma­nici, que­sto tipo di lavo­rio acca­de­mico mi ha stan­cato e ho cer­cato di dare al pro­filo quello che gli ame­ri­cani chia­mano «voce», uno stile e que­sta voce è subito diven­tata più poli­tica, Que­sto ha por­tato ine­so­ra­bil­mente a due van­taggi: mi posso occu­pare di que­stioni che mi inte­res­sano e poi ho un potere che ha ori­gine dalla visi­bi­lità acqui­sita in Rete. Que­sto potere mi per­mette di indi­riz­zare il mio pub­blico verso cose che ritengo impor­tanti. È noto che nel mondo acca­de­mico è assente la con­nes­sione tra teo­ria e pra­tica. In pas­sato ero impe­gnato nei sin­da­cati, ero un atti­vi­sta e vor­rei che i prin­cipi che ho fos­sero sem­pre evi­denti, pur senza diven­tare dogmatico. 

Evol­versi verso un punto poli­tico non è certo una buona cosa per gli affari. Espri­mere un punto di vista poli­tico cri­tico verso l’establishment non arric­chi­sce, ma non è certo il suc­cesso eco­no­mico che cer­cavo all’inizio. Il seguito, l’«audience» che ho mi ha aiu­tato a vivere facendo con­fe­renze, par­te­ci­pando a semi­nari. La scelta di poli­ti­ciz­zare i tweet non vuol tut­ta­via dire assu­mere posi­zioni set­ta­rie. Spesso vado a vedere i pro­fili dei miei fol­lo­wer; ce ne sono molti da cui si intui­sce una posi­zione poli­tica chiara che non coin­cide con la mia. Intui­sco che potranno esserci dei punti di con­tra­sto, ma sono con­tento. Per me è impor­tante non il numero delle per­sone che mi seguono, ma chi mi segue.

In che modo il con­for­mi­smo di Twit­ter influi­sce sulla sua inte­ra­zione con il pubblico.… 

Avrei potuto fare que­sto libro uti­liz­zando sti di scrit­tura e argo­menti più popo­lari e rico­no­sciuti, ma volevo tro­vare il modo di dire alcune cose impor­tanti delle quali tra 10 anni potessi ancora rispec­chiarmi. Que­sto libro è scritto in una forma finora assente per quanto riguarda la filo­so­fia. Oscilla tra lo scherzo, il gioco e la poe­sia. Quello che lega tutto ciò è il ritmo. Nella tra­du­zione tede­sca ad esem­pio i tra­dut­tori con cui ho lavo­rato a stretto con­tatto sta­vano attenti soprat­tutto a quello che dicevo, ma per me la cosa più impor­tante era il ritmo. La sfida vera all’inizio della scuola di Fran­co­forte era que­sta: loro usa­vano l’espressione «lasciare un mes­sag­gio in una bottiglia». 

La forma, il ritmo e l’ironia rap­pre­sen­tano la forma della bot­ti­glia, la sfida è met­terci den­tro il mes­sag­gio, la cosa fun­ziona soprat­tutto nel gior­na­li­smo e il suc­cesso sta pro­prio nell’unire il vec­chio e il nuovo, pro­prio come ha fatto Wal­ter Ben­ja­min, che non ha avuto timore di misu­rarsi con la cul­tura di massa e con le tec­no­lo­gie che con­sen­ti­vano una dif­fu­sione di massa della cul­tura alta. Il gior­na­li­smo forse può essere un vei­colo di que­sta nuova forma espressiva. 

In che modo la mone­tiz­za­zione del suo suc­cesso con que­sto libro e altre atti­vità di mar­ke­ting, finirà per cam­biare o meno la sua pre­senza su Internet.… 

Si tende a pen­sare che chi ha molti fol­lo­wer abbia molto suc­cesso, ma que­sto non si tra­duce in denaro, nean­che per la stessa azienda Twit­ter. Io lo uso come se fossi una band musi­cale, gua­da­gno andando in tour­nee e pro­prio i musi­ci­sti hanno capito bene que­sto mec­ca­ni­smo. Quindi voglio viag­giare, ma non voglio fare rea­ding nor­mali, per­ché sareb­bero rea­ding di poe­sia brutta, allora uso un esca­mo­tage in cui io fac­cio da spalla, serio e pre­ciso e do la bat­tuta al video che fa la bat­tuta. Fac­cio l’accademico e i video creano un cor­to­cir­cuito che fun­ziona bene. Mi piace molto scri­vere cose comi­che, ma non sono un attore. 

Inter­net è il posto dove pro­vare a dare forma a una rifles­sione sul mondo, sapendo che la costru­zione dell’audience, del pub­blico è un lavoro vero e pro­prio. Nella Rete è però ammesso di tutto. Posi­zioni con­for­mi­ste e posi­zioni anti­con­for­mi­ste. Con­senso verso il pen­siero domi­nante e dis­senso anche radi­cale rispetto lo sta­tus quo. Ciò che conta è che il flusso non si inter­rompa mai. Cosa ne pensa? 

La con­trad­di­zione è parte inte­grante del mio essere in Rete. Posso dire che uno dei miei pro­po­siti all’inizio di que­sta avven­tura era di costruire un soli­da­rietà verso un punto di vista cri­tico, senza, lo ripeto, nes­suna pre­tesa dog­ma­tica. Par­tivo dal pre­sup­po­sto che ave­vamo perso tutto e che non c’era niente altro da per­dere. Volevo solo espri­mere l’adesione ad alcuni prin­cipi. Se que­sto è com­pren­si­bile dal punto di vista per­so­nale, per la dimen­sione pub­blica que­sto richiamo a dei prin­cipi è ine­rente all’ethos, cioè a una etica pub­blica. Volevo però rivol­germi a una comu­nità di chi non ha più nes­suna comu­nità alla quale appartenere. 

In Rete c’è un pub­blico indi­stinto, gene­rico. Mi rivol­gevo e mi rivolgo a chi con­di­vide una dimen­sione cri­tica sulla realtà, ma senza mai cadere nell’insulto, nell’attacco fron­tale verso chi esprime invece un punto di vista diverso. I social media sono il regno della per­so­na­liz­za­zione della cri­tica. Più che attac­care posi­zioni diverse dalle pro­prie, si Inter­net si pre­fe­ri­sce insul­tare la persona. 

Da parte mia, invece, pre­fe­ri­sco pro­ce­dere così: que­sta è la mia posi­zione, voi che ne pen­sate? Come dicevo: penso a una comu­nità di chi non più comu­nità di appar­te­nenza, di chi ha cioè perso già tutto. 

Per quanto riguarda la Rete, non credo che Inter­net cam­bierà la realtà. Sono stato un atti­vi­sta, ho usato il tele­fono, le mai­ling list, gli sms, i primi social media per pub­bli­ciz­zare sit in, mani­fe­sta­zioni. Sono però per­suaso che senza un rap­porto vis-à-vis non riu­sci­rai mai a con­vin­cere una per­sona a par­te­ci­pare una mani­fe­sta­zione. Se viene meno que­sto rap­porto in pre­senza, puoi rac­co­gliere molti «mi piace» o il tuo tweet potrà essere rilan­ciato, ma nes­suno si impe­gnerà in prima per­sona. Tra i miei fol­lo­wer ci sono gior­na­li­sti impe­gnati, atti­vi­sti, teo­rici cri­tici dei media, ma que­sta comu­nità dei senza più comu­nità rimane rele­gata alla Rete. Per cam­biare la realtà serve molto più che un «mi piace».


Tra Adorno e i fumetti Storia di un tweet affilato che rese satira la filosofia

21 nov 2015 Libero FRANCESCO SPECCHIA
Sempre detto. Le intuizioni migliori nascono dal fancazzismo, che con gl’intellettuali, in una bizzarra reazione chimica, si muta spesso in estrema forma d’arte. Troppo spesso.
Non è il caso di Eric Jarosinski, geek americano, slavato assistente di tedesco all’Università non di Heidelberg ma della Pennsylvania. Troppo indolente per scrivere un libro, troppo timido per spiegarlo a lezione. Eric ha cominciato, cazzeggiando, a twittare come un pazzo una sua personale filosofia dell’esistente. Ma l’ha fatto sulle coordinate dell’ironia ristretta di Ambrose Bierce, Emil Cioran e -perfino- Groucho Marx, riadattati in modalià social; ne è uscita una seguitissima rubrica sulla rivista tedesca Die Zeit e sul quotidiano olandese NcrHandlsblad, divenuta ben presto un fenomeno mondiale. Fenomeno che, oggi, trasformato in libro da Marsilio, Nein. Un manifesto, pp 144, euro12 , nell’icastica copertina fatta a faccia di Adorno in monocolo, sta riscuotendo un notevole trasversale anche in Italia. «Nein non è no. Nein non è sì. Nein è nein», spiega Luca Mastrantonio che, avendone curato la traduzione s’è divincolato abilmente tra le assonanze, i giochi di parole e i calambour della lingua inglese (anche se il flusso originale dei tweet è un calibrato mix di inglese, tedesco, olandese). Non per nulla uno dei tweet più citati di Jarosinski è: «EuroDizionario. Italiano: la lingua del corteggiamento. Francese: la lingua dell’amore. Tedesco: l’amore per la lungia. Inglese: l’amore per l’inglese». Un altro, per rimananere, in tema è: «Tedesco. Lingua inventata per la filosofia, ma usata per costruire automobili». Ma si potrebbe andare avanti all’infinito, fulminati da ogni lezione sociologica che sboccia da ogni capitolo del libro: praticamente iniezioni di Benjamin, Kracauer e della scuola di Francoforte nel corpaccione di una società malata e curabile solo col sorriso. Altri tweet sono scudisciate sotto diversi piani di lettura: «Solo due problemi con il mondo di oggi. 1. Il mondo. 2.Oggi. Tre, se conti domani». «Ontologia: perché cazzo? Epistemologia: come perchè cazzo? Fenomenologia: il cazzo». «Marx, un marxista e un post marxista entrano in un bar. Marx odia i prezzi. Il marxista odia la folla. Il postmarxista odia Marx». «Vita: prima causa di morte». «SocialMedia. È quando i nostri amici escono dalle nostre vite». Oppure: «Il brunch è l’unica cosa in cui tutti credono la domenica» (il che, visto da Milano -vi assicuro- possiede una connotazione sacrale) .
Eric, affogato dalla popolarità del suo account @NeinQuartely, ora ha lasciato l’università -ma non l’insegnamentoper dedicarsi appieno a Twitter, affinando la tecnica dello «scrivere la didascalia di una vignetta che non esiste», dice lui citando il fumettista Gary Larson, quello di Far Side .E, in realtà, Nein mi ricorda spaventosamente proprio un cult comic, Platon La Gaffe, Survivre au Travail avec les philosophes in Francia edito Dargaud in Italia da Linus; ovvero la saga satirica sul Platone stagista in una multinazionale di filosofia. Tra l’altro, lì, uno degli autori lo scrittore Charles Pépin (l’altro e Yul) risulta anch’egli filosofo svogliato che insegna a Sciences PO, la prestigiosa università parigina di studi politici e sociali. Potrebbe essere una striscia di Pépin , il tweet di Nine: «Quanto Costa. Metti in discussione l’autorità. Diventa un’ autorità. Metti in discussione te stesso. Chiedi alla tua autorità se va bene che tu la metta in discussione». Per dire.
Ecco. Jarosinski oltre al mestiere dei grandi aforisti, ha assimilato anche quello dei grandi cartoonist. Per questo la sua lettura è assai piacevole anche per chi, come il sottoscritto, in filosofia possiede le basi culturali di un aborigeno australiano. Qualcuno, per Nein, una genialata editoriale di Luca De Michelis, evoca una «Negazione utopica» o un’«utopia del dissenso», roba assai dirompente. Non saprei. Per me, più fancazzista che intellettuale, è comunque molto divertente...      

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