La filosofia non è ancora socialAdriano Fabris Avvenire 22 settembre 2015
martedì 22 settembre 2015
Cosa sta diventando la filosofia nell'epoca del social network. E dell'egemonia dei giornali tipo Repubblica o il Manifesto
Risvolto
Irriverente e divertente indagine filosofica sul nostro quotidiano,
Nein. Un manifesto nasce dal fenomeno Twitter @NeinQuarterly, che ha
raggiunto in pochi anni un seguito eccezionale in tutto il mondo.
Giocando con modelli come Nietzsche, Kraus, Benjamin e Adorno, Eric
Jarosinski - che si definisce un «intellettuale fallito» convertitosi in
«aforista su internet» - inventa una filosofia a in pillole per un
mondo condannato alla distrazione e alla tirannia del sì. Per Luca
Mastrantonio - che ne ha curato l’edizione italiana - «i no di Nein. non
sono semplici no, e neppure dei sì mascherati: sono l’utopia della
negazione, realizzata nel luogo della comunicazione breve. Perché per
dire no al mondo bisogna dire no a se stessi e anche a chi ti vende
facili soluzioni. Ci vuole un esercizio costante, di dissenso dotato di
senso. In 140 comodi caratteri».
La filosofia non è ancora socialAdriano Fabris Avvenire 22 settembre 2015
La filosofia non è ancora socialAdriano Fabris Avvenire 22 settembre 2015
Nein, il manifesto di Eric JarosinskiLa raccolta degli aforismi di @NeinQuarterly, la voce più cinica del web
Panorama
Caro Adorno sono i tweet i Minima Moralia 2.0I suoi aforismi del No spopolano sui social Parla il web-filosofo Eric JarosinskiFRANCESCA DE BENEDETTI
Eric Jarosinski, americano di 44 anni, ex docente di cultura tedesca all’università della Pennsylvania,è un uomo garbato,e le sue risposte non sono mai brevi. Ma il suo alter ego, @NeinQuarterly, è spietato: dal 2012 twitta aforismi filosofici e battute taglienti, con un grandissimo seguito social. E ora le sue massime sono diventate
un libro, Nein. Un manifesto, edito da Marsilio. Grandi questioni o piccole cose, niente sfugge al nichilismo dell’autore: «Tutto è possibile, anche il peggio», avvisa lui. E al lettore la cosa piace: Nein è diventato il fenomeno pop della negatività. In cui ogni frase è però originale, preparata con cura e ingredienti pregiati. Non a caso la grande fonte di ispirazione è Theodor Adorno: «I suoi Minima Moralia sono l’opera che ho più frequentato, un allenamento a interrogarsi sul mondo in modo critico». Anche se, aggiunge, «perfino i grandi del pensiero non vanno mai presi troppo sul serio».
Professor Jarosinski, perché ha lasciato l’università per diventare Nein?
«Una volta credevo nella filosofia, leggevo autori come Adorno o Marx. Esattamente come faccio ora. Ma ero solo alla mia scrivania, obbligato a scrivere libri per fare carriera accademica. Mi sentivo sotto pressione, inadeguato di fronte a testi e autori difficili. Ho cominciato a twittare per puro piacere e non ho più smesso, anzi ho lasciato la vita di prima. Mi diverto molto di più».
Nein si definisce “intellettuale fallito”: un invito a riscoprire il piacere del fallimento, contro la religione del successo e dei “sì”?
«Quell’etichetta me la sono data il giorno in cui ho deciso di uscire dalla trappola che mi ero creato con l’università. Adottando il fallimento come parte di ciò che sono, ho ricevuto in cambio libertà. Ho smesso di non sentirmi mai abbastanza: che aspettative avere da un fallito dichiarato? Tutti noi dovremmo smettere di rincorrere mete che non sentiamo nostre ».
Ma perché proprio i tweet?
«Il tweet è sfida: l’immediatezza è stimolante, sei sempre connesso ad altri che possono criticarti. Non c’è contesto se non un flusso di messaggi in bottiglia. Ho imparato a capire il mezzo, cercando il ritmo giusto per l’umorismo. Non voglio esagerare l’impatto di Twitter nell’avvicinare le persone alla filosofia: gran parte del mio pubblico è già interessata. Ma il mio progetto è liberatorio: alleggerisco autori e temi difficili dall’ansia che portano con sé, e dico che li si può criticare con ironia. Immagino i miei follower, magari ex studenti di filosofia, nei loro uffici in pausa caffè a leggere i miei aforismi».
Con il libro-manifesto vuole provocare una reazione? In altre parole, c’è un “nein” che dovremmo dire e manchiamo di dire?
«Sono cresciuto in una cittadina del Wisconsin dove dire no era un desiderio represso. Non è facile dire no nelle cittadine del Midwest, non lo è negli Usa, è meno difficile in culture come quella tedesca. Dopo il primo “nein” all’accademia, ne ho detti molti altri. Parlando d’attualità, ho una posizione molto critica verso l’austerity, ad esempio. Ma il tipo di “nein” su cui ho costruito un progetto non va inteso come un semplice no a tutto. È un “no, ci devono essere altre possibilità”. Prenda la questione dei migranti. In Germania e altre parti d’Europa si difende una cultura dell’accoglienza: un “nein” alle risposte facili di certa destra che prova a capitalizzare la paura».
Essere pop ha un costo?
«Twitter fa parte dell’industria culturale. Spesso per costruire i miei tweet piego il tipico linguaggio pubblicitario a contenuti molto diversi. Non vendo prodotti, offro dialettica: usare il format di una pubblicità di carte di credito per parlare di Dio è una sfida estetica ».
E perché convertire i tweet in libro?
«Il libro nasce anche da una necessità economica, coi tweet non si sbarca il lunario. Ma c’è di più. Accorpare quei frammenti in un corpus organico significa dargli nuova vita, nuovo senso».
Adorno è per lei una fonte di ispirazione: considera gli aforismi di Nein i “Minima Moralia” del web?
«Amo i Minima Moralia , la sua opera che più ho frequentato. È un allenamento a interrogarsi sul mondo in modo critico, cosa che provo a fare anch’io. I grandi della filosofia vanno presi sul serio ma anche demistificati. Ritenerli intoccabili significherebbe tenerli a distanza. Adorno è stato a lungo rimosso dalla cultura popolare di massa. Il mio logo è una sua caricatura: gli ho fatto indossare un monocolo, che è un tratto aristocratico e strizza l’occhio a un certo pubblico. Lui mi ispira, ma voglio praticare l’irriverenza ».
“I social sono bottiglie senza messaggi, pieni di amici ma non veri”, scrive su Twitter.
«Nein non è antitecnologico, pratica l’accettazione critica. C’è sempre un rapporto con il proprio tempo da considerare, e malgrado i difetti non sottovaluterei la capacità di denuncia di cui i social possono essere portatori».
Anche su Facebook presto potremo cliccare su un nuovo pulsante “mi dispiace”, ma ancora non potremo dire “nein: non ci piace”.
«Facebook vuole mantenere un ambiente positivo perché è più conveniente in termini di business. Ma saranno determinanti anche i significati che noi faremo assumere, con l’uso, a quel pulsante. Zuckerberg non può determinarli e controllarli dall’alto: molto dipenderà da noi».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
“Una volta credevo nella carriera accademica ora in rete raggiungo molti più studenti” “I grandi filosofi sono fonti d’ispirazione ma non bisogna prenderli troppo sul serio”
Una teoria critica a colpi di tweet
Nein. Un’intervista con Eric Jarosinski, il filosofo statunitense diventato una star di Twitter e della Rete, nonché autore del volume di aforismi «Nein» pubblicato da Marsilio
Simone Pieranni, Benedetto Vecchi Manifesto 27.10.2015
«Ho iniziato a scrivere quando non ero più in grado di scrivere», racconta , professore di letteratura tedesca negli Stati Uniti, tedesco di origine e indirizzato ad una vita da intellettuale fallito.
Poi, come tanti altri, scopre Twitter, comincia a scrivere aforismi e battute basate sul paradosso, sul gioco di parole. Il significato è poco importante, conta il ritmo, l’ironia, e quel Nein così spesso usato. Su Twitter, dove viaggiano sentimenti di una marea umana, spesso preda dell’ego e dell’esibizionismo, il no di Eric Jarosinski fa breccia. I follower aumentano, la notorietà anche.
Un articolo del «New Yorker» lo sdogana al grande pubblico, comincia a collaborare con testate giornalistiche, pubblica un libro di aforismi, pubblicati in Italia da Marsilio (Nein, pp. 137, euro 12).
Il successo diventa globale, tracima dalla Rete e investe la discussione sul fare filosofia, sul destino della network culture, sulla politica.
Alcuni giornalisti paragonano gli aforismi di Jarosinski a quelli scritti tanti anni fa da Theodor W. Adorno. Altri fanno il nome di Friedrich Nietzsche, altri ancora lo stile frammentario di Walter Benjamin. Niente di tutto ciò, dice l’interessato.
Più semplicemente, la sua è un’attitudine critica condensata in 140 caratteri, cioè il vincolo imposto dal social network e usato da Jarosinki come un limite da rispettare al fine della chiarezza e dell’efficacia dei suoi tweet.
Il suo account ha ormai centinaia di migliaia di «seguaci». C’è anche una linea di merchandising per il suo Nein. E come una rockstar, comincia la sua tournee.
Cosa si aspettava dalla sua attività su Twitter, era pronto a questo genere di successo?
Non mi aspettavo niente, a dire il vero. Volevo scrivere testi filosofici normali, ma non ci riuscivo più. Avevo una specie di «blocco dello scrittore». All’inizio su Twitter scrivevo per me. Poi ho cominciato ad avere un pubblico di giornalisti tedeschi che accendevano il computer nei miei stessi orari. Possiamo dire quindi che si è trattato di un fenomeno mediatico legato al vecchio modo di fare giornalismo. È a questo punto che il diario personale che stavo costruendo è diventato altro. Gli argomenti, i temi che affrontavo sono rimasti «liberi», cioè non seguivano un programma definito a priori, ma ho cominciato a stare più attento alla loro ricezione.
Lei ha una formazione filosofica che ribadisce nei suoi tweet. Vuol dire che in Rete si può fare filosofia solo con la forma dell’aforisma?
Non penso affatto di fare filosofia. Più semplicemente ritengo di poter dare un contributo all’insegnamento della filosofia. Amo però molto autori che hanno scelto l’aforisma per il loro filosofare. Forse sono stato influenzato dalla forma da loro scelta per esprimere concetti e pensieri. Più banalmente, mi sono posto il problema di come possa essere comunicato un concetto in termini semplici e con una chiarezza che spesso è ignorata da molti filosofi.
Molti filosofi affermano che la loro non è filosofia.….
Idea interessante, ma riguarda certo quel che ho fatto e che faccio in Rete. So bene qual è la differenza tra un gioco di parole e il processo lungo, faticoso che porta a definire un concetto o a misurarsi con un tema tipico della filosofia. Ho iniziato giocando con le parole e ho continuato a giocarci. Nel corso del tempo, quando sono cioè uscito dal diario personale, mi sono prefisso un obiettivo: svolgere una traduzione di temi filosofici in un linguaggio che possa attirare l’attenzione di un pubblico più vasto, meno limitato a quello dell’accademia, dove è spesso confinata la filosofia. Il ruolo che mi sono assegnato è dunque quello del traduttore. E lo faccio attraverso il gioco di parole.
Lei è un autore che si misura con la cultura filosofica tedesca con un approccio disincantato con la Rete. Non c’è, infatti, nei suoi aforismi nessun atteggiamento di rifiuto della Rete come ambito che nega la possibilità di sviluppare un pensiero «autentico». Ma non c’è, all’opposto, nessuna propensione apologetica delle possibilità offerte dalla comunicazione on line.…
Ho frequentato per più di vent’anni il mondo filosofico tedesco. Anche qui la casualità ha svolto un ruolo importante, perché mi sono avvicinato ai filosofi tedeschi per caso, come per Twitter. Sono stati venti anni molti intensi. Mi sono innamorato della filosofia tedesca, l’ho poi odiata, fino a giungere alla conclusione che era riuscito, forse, a conoscerla. Ho dunque fatto conoscenza dell’altro.
Un’esperienza che invito a fare a tutti gli studenti con i quali parlo, perché conoscere l’altro è un’esperienza entusiasmante. Dopo venti anni passati in Germania, mi sono accorto che mi ero riconciliato con il mio essere americano, cosa che prima mal digerivo. Sono infatti quasi fuggito dal mio paese. Sono tornato a casa arricchito, cambiato, trasformato, cresciuto.
Con l’aumento dei follower sono cambiati i suoi messaggi? Il successo li ha influenzati?
Sono diventato più attento rispetto a quanto scrivevo prima. Quello che mi manca di più adesso è la perdita di un lato personale nei miei tweet.
Come si evolverà al di là del libro il personaggio cui ha dato voce su Twitter?
È già cambiato tantissimo. All’inizio mi occupavo di filosofia, di studi germanici, questo tipo di lavorio accademico mi ha stancato e ho cercato di dare al profilo quello che gli americani chiamano «voce», uno stile e questa voce è subito diventata più politica, Questo ha portato inesorabilmente a due vantaggi: mi posso occupare di questioni che mi interessano e poi ho un potere che ha origine dalla visibilità acquisita in Rete. Questo potere mi permette di indirizzare il mio pubblico verso cose che ritengo importanti. È noto che nel mondo accademico è assente la connessione tra teoria e pratica. In passato ero impegnato nei sindacati, ero un attivista e vorrei che i principi che ho fossero sempre evidenti, pur senza diventare dogmatico.
Evolversi verso un punto politico non è certo una buona cosa per gli affari. Esprimere un punto di vista politico critico verso l’establishment non arricchisce, ma non è certo il successo economico che cercavo all’inizio. Il seguito, l’«audience» che ho mi ha aiutato a vivere facendo conferenze, partecipando a seminari. La scelta di politicizzare i tweet non vuol tuttavia dire assumere posizioni settarie. Spesso vado a vedere i profili dei miei follower; ce ne sono molti da cui si intuisce una posizione politica chiara che non coincide con la mia. Intuisco che potranno esserci dei punti di contrasto, ma sono contento. Per me è importante non il numero delle persone che mi seguono, ma chi mi segue.
In che modo il conformismo di Twitter influisce sulla sua interazione con il pubblico.…
Avrei potuto fare questo libro utilizzando sti di scrittura e argomenti più popolari e riconosciuti, ma volevo trovare il modo di dire alcune cose importanti delle quali tra 10 anni potessi ancora rispecchiarmi. Questo libro è scritto in una forma finora assente per quanto riguarda la filosofia. Oscilla tra lo scherzo, il gioco e la poesia. Quello che lega tutto ciò è il ritmo. Nella traduzione tedesca ad esempio i traduttori con cui ho lavorato a stretto contatto stavano attenti soprattutto a quello che dicevo, ma per me la cosa più importante era il ritmo. La sfida vera all’inizio della scuola di Francoforte era questa: loro usavano l’espressione «lasciare un messaggio in una bottiglia».
La forma, il ritmo e l’ironia rappresentano la forma della bottiglia, la sfida è metterci dentro il messaggio, la cosa funziona soprattutto nel giornalismo e il successo sta proprio nell’unire il vecchio e il nuovo, proprio come ha fatto Walter Benjamin, che non ha avuto timore di misurarsi con la cultura di massa e con le tecnologie che consentivano una diffusione di massa della cultura alta. Il giornalismo forse può essere un veicolo di questa nuova forma espressiva.
In che modo la monetizzazione del suo successo con questo libro e altre attività di marketing, finirà per cambiare o meno la sua presenza su Internet.…
Si tende a pensare che chi ha molti follower abbia molto successo, ma questo non si traduce in denaro, neanche per la stessa azienda Twitter. Io lo uso come se fossi una band musicale, guadagno andando in tournee e proprio i musicisti hanno capito bene questo meccanismo. Quindi voglio viaggiare, ma non voglio fare reading normali, perché sarebbero reading di poesia brutta, allora uso un escamotage in cui io faccio da spalla, serio e preciso e do la battuta al video che fa la battuta. Faccio l’accademico e i video creano un cortocircuito che funziona bene. Mi piace molto scrivere cose comiche, ma non sono un attore.
Internet è il posto dove provare a dare forma a una riflessione sul mondo, sapendo che la costruzione dell’audience, del pubblico è un lavoro vero e proprio. Nella Rete è però ammesso di tutto. Posizioni conformiste e posizioni anticonformiste. Consenso verso il pensiero dominante e dissenso anche radicale rispetto lo status quo. Ciò che conta è che il flusso non si interrompa mai. Cosa ne pensa?
La contraddizione è parte integrante del mio essere in Rete. Posso dire che uno dei miei propositi all’inizio di questa avventura era di costruire un solidarietà verso un punto di vista critico, senza, lo ripeto, nessuna pretesa dogmatica. Partivo dal presupposto che avevamo perso tutto e che non c’era niente altro da perdere. Volevo solo esprimere l’adesione ad alcuni principi. Se questo è comprensibile dal punto di vista personale, per la dimensione pubblica questo richiamo a dei principi è inerente all’ethos, cioè a una etica pubblica. Volevo però rivolgermi a una comunità di chi non ha più nessuna comunità alla quale appartenere.
In Rete c’è un pubblico indistinto, generico. Mi rivolgevo e mi rivolgo a chi condivide una dimensione critica sulla realtà, ma senza mai cadere nell’insulto, nell’attacco frontale verso chi esprime invece un punto di vista diverso. I social media sono il regno della personalizzazione della critica. Più che attaccare posizioni diverse dalle proprie, si Internet si preferisce insultare la persona.
Da parte mia, invece, preferisco procedere così: questa è la mia posizione, voi che ne pensate? Come dicevo: penso a una comunità di chi non più comunità di appartenenza, di chi ha cioè perso già tutto.
Per quanto riguarda la Rete, non credo che Internet cambierà la realtà. Sono stato un attivista, ho usato il telefono, le mailing list, gli sms, i primi social media per pubblicizzare sit in, manifestazioni. Sono però persuaso che senza un rapporto vis-à-vis non riuscirai mai a convincere una persona a partecipare una manifestazione. Se viene meno questo rapporto in presenza, puoi raccogliere molti «mi piace» o il tuo tweet potrà essere rilanciato, ma nessuno si impegnerà in prima persona. Tra i miei follower ci sono giornalisti impegnati, attivisti, teorici critici dei media, ma questa comunità dei senza più comunità rimane relegata alla Rete. Per cambiare la realtà serve molto più che un «mi piace».
Tra Adorno e i fumetti Storia di un tweet affilato che rese satira la filosofia
21 nov 2015 Libero FRANCESCO SPECCHIA
Sempre detto. Le intuizioni migliori nascono dal fancazzismo, che con
gl’intellettuali, in una bizzarra reazione chimica, si muta spesso in
estrema forma d’arte. Troppo spesso.
Non è il caso di Eric Jarosinski, geek americano, slavato assistente di
tedesco all’Università non di Heidelberg ma della Pennsylvania. Troppo
indolente per scrivere un libro, troppo timido per spiegarlo a lezione.
Eric ha cominciato, cazzeggiando, a twittare come un pazzo una sua
personale filosofia dell’esistente. Ma l’ha fatto sulle coordinate
dell’ironia ristretta di Ambrose Bierce, Emil Cioran e -perfino- Groucho
Marx, riadattati in modalià social; ne è uscita una seguitissima
rubrica sulla rivista tedesca Die Zeit e sul quotidiano olandese
NcrHandlsblad, divenuta ben presto un fenomeno mondiale. Fenomeno che,
oggi, trasformato in libro da Marsilio, Nein. Un manifesto, pp 144,
euro12 , nell’icastica copertina fatta a faccia di Adorno in monocolo,
sta riscuotendo un notevole trasversale anche in Italia. «Nein non è no.
Nein non è sì. Nein è nein», spiega Luca Mastrantonio che, avendone
curato la traduzione s’è divincolato abilmente tra le assonanze, i
giochi di parole e i calambour della lingua inglese (anche se il flusso
originale dei tweet è un calibrato mix di inglese, tedesco, olandese).
Non per nulla uno dei tweet più citati di Jarosinski è: «EuroDizionario.
Italiano: la lingua del corteggiamento. Francese: la lingua dell’amore.
Tedesco: l’amore per la lungia. Inglese: l’amore per l’inglese». Un
altro, per rimananere, in tema è: «Tedesco. Lingua inventata per la
filosofia, ma usata per costruire automobili». Ma si potrebbe andare
avanti all’infinito, fulminati da ogni lezione sociologica che sboccia
da ogni capitolo del libro: praticamente iniezioni di Benjamin, Kracauer
e della scuola di Francoforte nel corpaccione di una società malata e
curabile solo col sorriso. Altri tweet sono scudisciate sotto diversi
piani di lettura: «Solo due problemi con il mondo di oggi. 1. Il mondo.
2.Oggi. Tre, se conti domani». «Ontologia: perché cazzo? Epistemologia:
come perchè cazzo? Fenomenologia: il cazzo». «Marx, un marxista e un
post marxista entrano in un bar. Marx odia i prezzi. Il marxista odia la
folla. Il postmarxista odia Marx». «Vita: prima causa di morte».
«SocialMedia. È quando i nostri amici escono dalle nostre vite». Oppure:
«Il brunch è l’unica cosa in cui tutti credono la domenica» (il che,
visto da Milano -vi assicuro- possiede una connotazione sacrale) .
Eric, affogato dalla popolarità del suo account @NeinQuartely, ora
ha lasciato l’università -ma non l’insegnamentoper dedicarsi appieno a
Twitter, affinando la tecnica dello «scrivere la didascalia di una
vignetta che non esiste», dice lui citando il fumettista Gary Larson,
quello di Far Side .E, in realtà, Nein mi ricorda spaventosamente
proprio un cult comic, Platon La Gaffe, Survivre au Travail avec les
philosophes in Francia edito Dargaud in Italia da Linus; ovvero la saga
satirica sul Platone stagista in una multinazionale di filosofia. Tra
l’altro, lì, uno degli autori lo scrittore Charles Pépin (l’altro e Yul)
risulta anch’egli filosofo svogliato che insegna a Sciences PO, la
prestigiosa università parigina di studi politici e sociali. Potrebbe
essere una striscia di Pépin , il tweet di Nine: «Quanto Costa. Metti in
discussione l’autorità. Diventa un’ autorità. Metti in discussione te
stesso. Chiedi alla tua autorità se va bene che tu la metta in
discussione». Per dire.
Ecco. Jarosinski oltre al mestiere dei grandi aforisti, ha
assimilato anche quello dei grandi cartoonist. Per questo la sua lettura
è assai piacevole anche per chi, come il sottoscritto, in filosofia
possiede le basi culturali di un aborigeno australiano. Qualcuno, per
Nein, una genialata editoriale di Luca De Michelis, evoca una «Negazione
utopica» o un’«utopia del dissenso», roba assai dirompente. Non saprei.
Per me, più fancazzista che intellettuale, è comunque molto
divertente...
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