venerdì 25 settembre 2015

Di gufi e poche aquile

Da più parti viene giustamente deplorata la fastidiosa attitudine, diffusasi a tutti i livelli della comunicazione, di canzonare gli avversari umiliandoli come gufi, rosiconi & sfigati; presentando di contro se stessi come baciati dalla fortuna e accarezzati dalla vita.

In apparenza sintomo di decadenza del linguaggio, della crisi dei valori solidaristici e del confronto politico, questo brutto modo di fare è in realtà antico come il mondo e quanto la natura conflittuale dell'essere sociale. E per quanto riguarda il periodo che ci sta più vicino ha una precisa genealogia.

Si tratta di un tipico argomento retorico di distinzione, che individua il fondamento del legame sociale nell'invidia e nel conflitto tra l'individuo benriuscito e quello invidioso (gli individui sono l'unica sostanza qui riconosciuta). E che faceva parte in primo luogo dell'armamentario dialettico dell'aristocrazia, la quale ne ha fatto un uso intensivo durante la crisi dell'Ancien Régime, di fronte ai crescenti e mal compresi fenomeni di malcontento sociale.

Nel corso del XIX secolo è poi fatto proprio anche dalla borghesia in ascesa: inevitabilmente volgarizzato come tutto ciò che la borghesia tocca, esso diventa il vanto dell'individuo proprietario e segue da vicino la complicata ma progressiva compenetrazione di queste due classi in un nuovo blocco sociale. Presente in Tocqueville come in Constant, lungo questa linea il tema arriverà nel XX secolo sino a Popper, Hayek e a numerosi altri interpreti del liberalismo. I quali non si sono mai stancati di ripetere quanto il socialismo sia fondato sull'invidia sociale e sul desiderio di vedere l'altro ridotto allo stesso livello di disagio merdoso nel quale noi stessi siamo. Se un uomo non riesce ad avere successo e rimane un fallito, del resto, in questa visione del mondo è unicamente colpa sua e non ha alcun diritto di lamentarsi.

Questo tema, ahinoi, ha però avuto enorme fortuna per vie traverse anche a sinistra.
Trasfigurato da Nietzsche nel momento in cui questi - come ha spiegato Norbert Elias - estremizzava il codice guerriero della tradizione aristocratica nella sua versione borghese degradata, esso ha assunto le forme della morale del ressentiment, ovvero del gregge, cui l'aquila ben riuscita, colui che secondo la Genealogia della morale è di per sé buono in quanto ben nato o ben fatto, deve contrapporre l'immoralismo dello Uebermensch.

Nella lettura di Deleuze, diventa poi il tema della contrapposizione tra forze attive e forze meramente reattive, ma anche della trasgressione di contro all'etica hegeliana del lavoro, e passa da qui nella cultura liquida postmoderna della sinistra tardonovecentesca. E infine in quella dei nostri giorni, dove diventa sinonimo dell'esser - improbabilmente - sempre belli e fighi di fronte ai cessi sfigati che non sanno godersi la vita, siano essi le zecche nella loro globalità per il ceto medio televisivo che sogna di essere Briatore, la sinistra PD per i renziani (con qualche fondamento di verità, va detto) o i nostalgici comunisti per i fan di Vendola, ecc. ecc.

Il materialismo storico ha consentito da tempo alle forme di coscienza delle classi subalterne e degli intellettuali ad esse legati (?) di oltrepassare l'atteggiamento meramente reattivo. Tuttavia, la sinistra aperitiva di oggi non dovrebbe mai dimenticare una cosa: nella società divisa in classi è inevitabile che proprio nell'invidia, come appunto Nietzsche aveva ben capito, risieda una delle radici del conflitto politico-sociale. Non sarà mai possibile pertanto affrontare l'invidia come fenomeno politico senza tematizzare anzitutto questo conflitto [SGA].

Renzi e l'egemonia culturale
La Stampa 29 9 2015

Sedotti dall’arroganza di Renzi
La musica di Renzi. Le ultime villanie del premier dicono qualcosa di nuovo su noi tutti: che ci stiamo assuefacendo a una volgarità e una violenza che dovrebbero destare allarme e forse scandalizzareAlberto Burgio manifesto 27.09.2015
In effetti la roz­zezza dell’attacco non è una novità. Come non lo è il fatto che il governo opti deci­sa­mente per la parte dato­riale, degra­dando i lavo­ra­tori a fan­nul­loni e i sin­da­cati a gra­vame paras­si­ta­rio che si prov­ve­derà final­mente a ridi­men­sio­nare. È una cifra di que­sto governo un that­che­ri­smo ple­beo che liscia il pelo agli umori più retrivi di cui tra­bocca la società scom­po­sta dalla crisi. Sem­pre dac­capo il «capo del governo» si ripro­pone come ven­di­ca­tore delle buone ragioni, che guarda caso non sono mai quelle di chi lavora. E si rivolge, com­plice la gran­cassa media­tica, a una pla­tea indi­stinta al cui cospetto agi­tare ogni volta il nuovo capro espiatorio.
Sin qui nulla di nuovo dun­que. Nuova è invece, in parte, l’ennesima caduta espres­siva. Un les­sico che si fa sem­pre più greve, pros­simo allo squa­dri­smo ver­bale di un novello Fari­nacci. Così ci si esprime, forse, al Bar Sport quando si è alzato troppo il gomito. Se si guida il governo di una demo­cra­zia costi­tu­zio­nale non ci si dovrebbe lasciare andare al man­ga­nello.
«La musica è cam­biata», «tiro dritto» e «me ne frego». Senza dimen­ti­care i benea­mati «gufi». Quest’uomo fu qual­che mese fa liqui­dato come un cafon­cello dal diret­tore del più palu­dato quo­ti­diano ita­liano. Quest’ultimo dovette poi pron­ta­mente slog­giare dal suo uffi­cio, a dimo­stra­zione che il per­so­nag­gio non è uno sprov­ve­duto. Sin qui gli scon­tri deci­sivi li ha vinti, e non sarebbe super­fluo capire sino in fondo per­ché. Ma la cafo­ne­ria resta tutta. E si accom­pa­gna alla scelta con­sa­pe­vole di sele­zio­nare un udi­to­rio di faci­no­rosi, di fru­strati, di sma­niosi di vin­cere con qual­siasi mezzo — magari ven­den­dosi e sven­den­dosi nelle aule parlamentari.

Secondo un’idea della società che cele­bra gli spi­riti ani­mali e ripu­dia i vin­coli arcaici della giu­sti­zia, dell’equità, della soli­da­rietà.
Di fatto il tono si fa sem­pre più arro­gante, auto­ri­ta­rio, duce­sco. Gli altri deb­bono, lui decide. Ne sa qual­cosa il pre­si­dente del Senato, trat­tato in que­sti giorni come quan­tità tra­scu­ra­bile. E qual­cosa dovrebbe saperne anche il pre­si­dente della Repub­blica, che evi­den­te­mente ha altro a cui pen­sare, visto che non ha fatto una piega — un silen­zio fra­go­roso — quando Renzi ha minac­ciato di chiu­dere il Senato e tra­sfor­marne la sede in un museo — per for­tuna non più in «un bivacco di mani­poli». E forse pro­prio qui sta il punto, ciò che non per­mette di libe­rarsi di que­sto fasti­dioso rumore di fondo.

Que­sta enne­sima vil­la­nia non aggiunge gran­ché a quanto sape­vamo già dell’inquilino di palazzo Chigi, del suo pro­filo, del suo, diciamo, stile. Dice invece qual­cosa di nuovo e d’importante su noi tutti, che ci stiamo assue­fa­cendo, che ci disin­te­res­siamo, che regi­striamo e accet­tiamo come nor­male ammi­ni­stra­zione una vol­ga­rità e una vio­lenza che dovreb­bero destare allarme e forse scan­da­liz­zare. Tanto più che non si tratta, almeno for­mal­mente, del capo di una destra nerboruta.
Nes­suno ha pro­te­stato, nes­suno ha rea­gito: men che meno, ovvia­mente, gli espo­nenti della «sini­stra interna» del Pd, in teo­ria attenti alla qua­lità della nostra demo­cra­zia e alle ragioni e alla dignità del mondo del lavoro. Que­ste parole sono sci­vo­late come acqua sul marmo, segno che le si è assunte come del tutto nor­mali, cose giu­ste dette al momento giu­sto. In effetti da un certo punto di vista indub­bia­mente lo sono. Quest’ultima aggres­sione si armo­nizza appieno con la «musica» che que­sto governo suona da quando si è inse­diato. Ma la forma è sostanza, soprat­tutto in poli­tica. E il sovrap­più di aggres­si­vità e di vol­ga­rità che la con­trad­di­stin­gue stu­pi­sce non sia stato nem­meno rilevato.
Evi­den­te­mente ci va bene essere gover­nati da uno che — al netto delle sue scelte, sem­pre a favore di chi ha e può più degli altri — non sa aprir bocca senza minac­ciare insul­tare sfot­tere ridi­co­liz­zare. Ci va bene la tra­co­tanza, ci piace la sup­po­nenza, ci seduce l’arroganza. Apprez­ziamo la vio­lenza che scam­biamo per forza e per auto­re­vo­lezza. Dovremmo riflet­terci un po’ su. Dovremmo fare più atten­zione alle parole dette e ascol­tate, avere mag­giore rispetto per noi stessi. E chie­derci final­mente che cosa siamo diven­tati e rischiamo di diven­tare segui­tando di que­sto passo.

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