Un museo a cielo aperto che prosegue nella Sala dei Gigli. Il contrasto tra antico e moderno? Più sfumato del previsto Maurizia Tazartes - il Giornale Sab, 26/09/2015
Ribaltare miti e sedurre in gara coi grandi maestri
A Firenze l’artista americano espone una Proserpina rapita con gioia e un fauno che provoca la Giuditta di Donatello
26 set 2015 Libero FRANCESCA BELLOLA
L’attesissima mostra di Jeff Koons (1955) inaugura il progetto In Florence, un programma spettacolare e innovativo che vede i protagonisti di oggi confrontarsi con i maestri del Rinascimento fiorentino. Il geniale e controverso artista americano, definito l’erede di Andy Warhol e oggi dalle quotazioni stellari, ex marito della pornostar Cicciolina (sono numerose le sue opere a carattere hard con scene di sesso ispirate appunto da Ilona Staller, che lo raffigurano come coprotagonista: v. la serie Made in Heaven), espone nel capoluogo toscano, fino al 28 dicembre, due delle sue opere più famose e dissacranti alla ricerca di un dialogo con Michelangelo, Bernini e Donatello.
Le sedi prescelte per la mostra «Jeff Koons in Florence», a cura di Sergio Risaliti, sono Palazzo Vecchio e Piazza della Signoria. Qui, a poca distanza dalla copia in marmo del David di Michelangelo, viene esposta, per la prima volta dopo circa cinquecento anni dalla messa in posa dell’Ercole e Caco di Baccio Bandinelli (1493-1560), una scultura monumentale alta più di tre metri dal titolo Pluto and Proserpina. Uno dei miti in cui arte, bellezza e amore suggellano una continua rinascita e il superamento del dolore e della morte.
Sono occorsi due giorni di lavori e più di dieci operai altamente specializzati per installare l’imponente scultura dal peso di oltre due tonnellate. L’opera è ispirata al celebre gruppo scultoreo Il ratto di Proserpina realizzato, su commissione del cardinale Scipione Caffarelli Borghese, da Gian Lorenzo Bernini, quando l’artista, tra il 1621 e il 1622, aveva di poco superato i venti anni. Nel marmo di Bernini Proserpina lotta invano per la sua verginità gridando e invocando la madre Demetra e le compagne con cui stava cogliendo fiori. Nei suoi occhi si leggono vergogna per la sua nudità offesa, disperazione nei confronti dell’ira di Plutone e paura, perché tra poco la ragazza conoscerà le tenebre dell’Ade.
Plutone e Proserpina di Jeff Koons, invece, adornati da mazzi di fiori freschi, sono avvinghiati in un abbraccio struggente e sensuale. L’effetto cromatico dell’opera, realizzata in acciaio inox, lucidata a Sopra, l’artista Usa Jeff Koons (1955). A destra, il suo «Barberini Faun». Sotto, la scultura di oltre tre metri «Pluto and Proserpina». Entrambe le opere sono esposte a Firenze fino al 28 dicembre specchio, con una cromatura in color oro e adornata da fiori cerulei, è di straordinaria bellezza.
A Palazzo Vecchio, nella Sala dei Gigli decorata con affreschi di Domenico Ghirlandaio e ospitante l’originale in bronzo della Giuditta e Oloferne di Donatello, è collocato il Barberini Faun, gesso provocante e incantevole realizzato nel 2013 nell’ambito della serie Gazing Ball.Spiega Koons: «Ho pensato a Gazing Ball guardando per molti anni sfere di questo genere. Ho voluto affermare la perentorietà e la generosità della superficie specchiante e la gioia che scatenano sfere come queste. La serie Gazing Ball si basa sulla trascendenza. La consapevolezza della propria mortalità è un pensiero astratto e, a partire da questa scoperta, uno inizia ad avere coscienza maggiore del mondo esterno, della propria famiglia, della comunità e può instaurare un dialogo più vasto con l'umanità al di là del presente».
Il Barberini Faun seduce con il suo calco in gesso, puro, leggero e impalpabile, in contrasto con la perentoria generosità di una sfera azzurra che gravita sulla coscia sinistra del giovane Fauno, riflettendo come uno specchio.
L’artista ha rielaborato le sculture del periodo greco-romano con l’aggiunta di una sfera, archetipo della perfezione del cosmo e dell’infinito, introducendo, nel caso specifico, una forma di equilibrio instabile che costituisce per l’autore un’espressione concettuale importante. In questo modo lo spettatore, invece di prostrarsi davanti alla perfezione dei canoni classici, tenderà a focalizzare la sua attenzione sulla realtà spesso fragile e volubile riflessa nello spazio lucido della sfera.
Jeff Koons in Florence ci coinvolge in un gioioso e raffinato gioco di confronti e di rinvii tra antico e contemporaneo, tra superfici scintillanti e oggetti oscuri e magici. Peccato però che i Grandi Maestri non abbiano il diritto di replica...
Michelangelo e Donatello si interesserebbero al mio lavoro” L’artista americano espone il suoPluto e Proserpinaa Firenze accanto ai capolavori del Rinascimento. “Non mi interessa il confronto ma il dialogo con quelle sculture” Francesco Bonami 3 10 2015
Jeff Koons ci tiene a dirmi che dal sindaco di Firenze Dario Nardella ha appena ricevuto non una ma quattro chiavi della città, le antiche porte erano infatti quattro. Il riconoscimento non è da poco ma è meritato. Era da cinque secoli che un artista non mostrava e installava un opera d’arte sull’arengario davanti a Palazzo Vecchio in Piazza della Signoria, lì in mezzo alla copia del David di Michelangelo e la Giuditta e Oloferne di Donatello. Jeff Koons invitato da Nardella stesso con la complicità del segretario generale della Fiera dell’Antiquariato Fabrizio Moretti, ha presentato il suo Pluto e Proserpina ispirato a Lorenzo Bernini ma realizzato in un colore giallo metallico con alla base dei fiori che crescono, sbocciano e se non si annaffiano muoiono. Incontriamo Koons nel suo albergo davanti ad un vero caffè americano.
Perché invece di un’opera Doc come il famosoBaloon Dogha scelto questo lavoro d’ispirazione barocca?
«A me piace molto il dialogo e credo che questa scultura parli bene al contesto e alle opere che la circondano»
L’idea del colore giallo da dove arriva?
«È da tempo che indago su come la scultura fosse un tempo policroma e quindi pittura e scultura fossero quasi un’unica cosa. Poi c’è stata la separazione e questo momento lo trovo molto interessante. Il colore quindi è un tentativo di ritrovare una unità all’interno del lavoro. D’altronde anche molte delle sculture di Donatello erano dorate e poi hanno perso la doratura»
Il suo lavoro ha sempre a che fare con la generosità
«Sì, è importante per me che le opere creino un rapporto diretto con chi le vede. La superficie riflettente aiuta questa unione di chi guarda con l’opera. Riflettendosi dentro l’opera stessa lo spettatore ne fa parte»
Come laGazing Ball, la palla blu specchiante che è appoggiata nell’altra opera, la copia del Fauno Barberini installata nella sala dei Gigli sempre a Palazzo Vecchio?
«Sì. La Gazing Ball è un oggetto che si trova spesso nei giardinetti suburbani americani. L’ho sempre trovata affascinante e generosa. Chi la mette davanti alla propria casa vuole condividere lo spazio privato con chi sta fuori. È un’idea molto bella che credo tutta l’arte dovrebbe condividere»
Lei guarda molto alla storia dell’arte...
«Sono fortunato. Gli artisti Rinascimentali ad esempio potevano guardare alla scultura greca ma avevano pochissimi esempi di pittura antica da prendere come esempio. Io invece ho a disposizione un catalogo infinito di capolavori sia pittorici che di scultura»
Quali artisti Le piacciono?
«Moltissimo Poussin».
Ma prima non erano gli artisti Pop a interessarla?
«Sì agli inizi m’interessavano moltissimo Warhol, Lichtenstein e Dalí. Viaggiai dalla Pennsylvania dove vivevo a New York per incontrare Dalí quando ero ancora uno studente»
Cosa succede quando ci si trova davanti a un’opera d’arte che non si conosce?
«Ricordo quando vidi per la prima volta Manet! Dopo non ero più lo stesso. Io credo che il confronto con le opere d’arte cambi il nostro Dna. Da quando ho visto Manet io sono un’altra persona e cosi è successo con tante altre opere d’arte, da Velázquez a Goya».
Anche la sua arte può cambiare il Dna di chi la incontra?
«Sì credo che le nostre mutazioni si possano trasmettere agli altri»
Lei è uno dei più importanti artisti viventi e ha quest’anno compiuto i sessant’anni. Come è cambiato il suo rapporto con l’arte da quando era più giovane?
«Sono più in contatto con la mia mortalità e sento meglio il battito del cuore delle mie opere. Prima ero più intuitivo ora sono più riflessivo più lento, forse meno diretto».
Come è nato il rapporto con Firenze?
«Avevo conosciuto Fabrizio Moretti che mi aveva proposto questo progetto. Poi è venuto da me in studio insieme al Sindaco di Firenze, una persona molto speciale. Così siamo partiti con questa idea».
Gli spazi dove esporre chi li ha scelti?
«Prima abbiamo deciso la Sala del Giglio che mi sembrava un luogo naturale per una scultura della serie Gazing Ball. Poi l’Arengario che credo sia un luogo eccezionale».
Per il suo prestigio?
«Non solo. Ma anche per la sua capacità di far partecipare l’arte con la gente. Le sculture vengono incontro allo spettatore. È un aspetto che mi affascina della Firenze Rinascimentale. Un periodo storico che definire democratico è sicuramente rischioso. Ma tuttavia credo che la concezione dell’arte all’epoca prevedesse la partecipazione della cittadinanza. Il dialogo dell’arte con la vita pubblica era evidente. Questa idea di condividere la bellezza mi pare eccezionale. Credo che Firenze sia forse la città che lo ha espresso meglio e che continua ad esprimerlo. Queste giornate per me sono state una continua conversazione con il contesto che mi circonda».
Che differenza c’è con la sua mostra di Versailles?
«A Versailles si sentiva di più la dimensione politica del luogo, la rappresentazione di un potere forte. Questo a Firenze non c’è»
Che significato hanno i fiori alla base di Pluto e Proserpina?
«Come nel mio Puppy davanti al Guggenhein di Bilbao che fiorisce e cambia costantemente con le stagioni anche qui l’idea è di far sentire all’interno di una scultura statica il ciclo della vita che cambia e si trasforma»
Non si sente intimidito dal confronto con i grandi maestri Rinascimentali?
«Vede per me quello che è importante è il dialogo non il confronto. Certo non potrei essere in compagnia migliore. Ma credo che Michelangelo e Donatello potrebbero essere interessati dal mio lavoro, farsi delle domande ad esempio sulla mia riflessione sulla policromia».
Quali programmi dopo Firenze?
«Prima a New York dai miei figli e poi andiamo nella mia fattoria in Pennsylvania. Ma la settimana dopo devo volare a Vienna dove presento la mia Baloon Venus al Naturhistorisches Museum accanto alla Venere di Willendorf la piccola scultura Paeleolica che mi ha ispirato per la mia Venere».
Cosa si prova a passare attraverso due epoche cosi lontane in pochi giorni?
«Dal Rinascimento al Paleolitico si passa da una sensibilità più mentale e filosofica ad una più fisica. Da una dimensione più artistica ad una più naturale. Ma sia arte che natura in modi diversi comunicano quella generosità che credo debba essere alla base di ogni opera d’arte non solo mia ma quella di tutti gli artisti».
Accanto
ai "Sette palazzi celesti" ora ci sono cinque grandi tele. E una
ironica riflessione sui pensatori tedeschi, da Kant a Marx
Francesca Amé
- il Gironale Sab, 26/09/2015
Così vicina così lontana ecco come l’arte antica diventa contemporanea
di Salvatore Settis Repubblica 16.10.15
Basta
una sfera di vetro blu per trasformare un calco del Fauno Barberini (II
secolo a.C.) in un’opera di Jeff Koons (2013)? Sì, a quel che pare,
visto che il gesso (con la palla di vetro) è ora esposto a Palazzo
Vecchio come opera d’arte contemporanea, con il titolo Gazing Ball ; e
quando in omaggio al pudore di un dignitario arabo lo si è voluto
nascondere dietro un paravento, non è chiaro se l’impudico esibizionista
di nudità fosse l’antico scultore ellenistico o la star della scena
artistica di oggi. L’arte greco-romana è una presenza ossessiva
nell’arte di questi anni: un altro calco dello stesso Fauno Barberini è
stato vestito da hipster dal francese Léo Caillard, il Laocoonte è stato
rivisitato e riproposto da sir Eduardo Paolozzi, da Richard Deacon,
Patrick Alò, Marco Borgianni e tanti altri, fino alla mostra (in corso a
Roma) Laocoonte e i suoi figli di Germano Serafini. Da Giulio Paolini a
Oliver Laric, antiche figure di dei e di eroi popolano (spesso in
gesso) mostre e musei di arte contemporanea, ed è forse il caso di
chiedersi perché.
Come ha scritto Dieter Roelstraete, «un numero
crescente di artisti di ogni età e formazione adotta espressioni
retrospettive, storiografiche, dal documento di archivio allo scavo
archeologico». Frugare nella storia estraendone “reperti”, ora con finti
scavi o immaginando civiltà scomparse (come Anne e Patrick Poirier),
ora ripescando frammenti del passato nei musei (come Fred Wilson, che ha
coniato la formula “geologica” mining the museum ) è oggi un aspetto
essenziale della ricerca artistica: “l’artista come storico”, per usare
il titolo di un famoso saggio di Mark Godfrey.
Eppure l’onda d’urto
dell’arte contemporanea, travolgendo regole, abitudini, pratiche
consolidate, sembrava aver innalzato un’impenetrabile barriera verso
l’arte “antica”, confinandola nel retrobottega della memoria in nome di
un presente che sempre si rinnova, ma non sedimenta, non viene da
lontano, né accetta di farsi esso stesso “passato” col trascorrere degli
anni: o è presente, o non è. Anche (forse soprattutto) gli studiosi di
arte antica sono dominati da questo paradigma della frattura, della
discontinuità, della grande muraglia fra “antico” e “contemporaneo”: è
per questo che spesso, per rivitalizzare un museo storico attraendo
visitatori, lo si riduce a mera cornice di mostre di artisti d’oggi,
quasi che da essi debba venire non il confronto né lo stimolo, ma la
vera, l’unica giustificazione culturale e politica dell’istituzione-
museo.
Rarissimo è che avvenga il contrario, e cioè una mostra di
arte antica in un contesto contemporaneo: perciò subito mi attrasse e mi
convinse la proposta di progettare una mostra di arte classica per
l’apertura della Fondazione Prada, nei nuovi spazi progettati da Rem
Koolhaas. Scegliere ed esporre opere d’arte greca e romana in un
contesto architettonico di fortissimo carattere, con un duro contrasto
fra pieni e vuoti, fra luce naturale e pareti cieche, fra argentee
pareti “industriali” di schiuma di alluminio e un pavimento di luminoso
travertino iraniano, era una bella sfida, ma non bastava. Era necessario
tematizzare l’arte classica, evitando la trappola di un più o meno
giustificato “parallelo” con opere contemporanee ( come troppo spesso si
fa, invitando artisti d’oggi a “confrontarsi” con l’arte del passato).
L’arte
classica doveva esser presentata rigorosamente per quel che è, “da
sola”, ma scegliendone un aspetto che risuonasse sia con la nuovissima
architettura che con le collezioni di arte contemporanea della
Fondazione Prada esposte non lontano.
Perciò Serial Classic: e cioè
una prospettiva sull’arte greco- romana che ne sottolinea la serialità,
la tensione verso il multiplo, la ripetizione, la copia, e che proprio
in questa sua intima natura prova a indicare la vera radice del suo
esser “classica” (cioè modellizzabile). Sommuovendo il pavimento come in
un movimento tellurico, ritagliandovi “isole” in cui le lastre di
travertino, innalzate sopra spessori di acrilico, si squarciavano ad
accogliere le sculture antiche (evitando l’uso di piedistalli), Koolhaas
ha interpretato e moltiplicato la forza espressiva di quelle statue. Ci
ha aiutato a mostrare che l’arte classica può non essere irrigidita in
un astratto culto delle forme; che ogni arte può essere contemporanea.
Pubblichiamo
un estratto della lectio magistralis che Salvatore Settis terrà a
Fumane di Valpolicella oggi in occasione del ritiro del premio Allegrini
“L’arte di mostrar l’arte”
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