Jeremy Corbyn non ha ancora parlato alla sua prima conferenza da leader del Labour, ma i guai già si stanno addensando sul suo capo (e sulla sua capigliatura, arruffata nonostante i tentativi del figlio di darle una postura degna di un leader).
Prima è arrivata la lista degli assenti alla tre giorni avviata ieri: una lista che include tutti gli ex leader del Labour ancora in vita, da Neil Kinnock a Tony Blair, da Gordon Brown a Ed Miliband. Poi un’intervista — quella di ieri all’ Observer — che voleva probabilmente essere strumento della riaffermazione della volontà del leader («Ho quel che serve per essere premier») ma che suonava terribilmente come excusatio parecchio petita («Non mi dimetterò: sono il rappresentante, e il prodotto, di un movimento democratico»).
Ma il peggio — forse— è giunto in un annuncio dato al mondo dal Financial Times . Che ieri sera rivelava la composizione del team di consiglieri che, riunendosi quattro volte l’anno, aiuterà Corbyn a scrivere i documenti programmatici di politica economica del new-new-Labour (e terrà lezioni per i parlamentari). Un team che pare un bignami della sinistra-sinistra che conta: soprattutto per la presenza di Thomas Piketty, autore dell’acclamatissimo Il capitale nel XXI secolo , e del Nobel Joseph Stiglitz.
Compagni di strada ingombranti, per un’impresa formidabile. Ma a cui prestare attenzione. Perché — come spiegava il giornalista Yannis Palaiologos a Politico — alcuni di questi esperti formavano il think tank informale che ha ispirato, senza metter mano alle tasche per puntare una sola fiche , la scommessa giocata dalla Grecia con la linea-Varoufakis. Ora, senza aver mai fatto cenno a una marcia indietro, puntano a portare la loro internazionale del radicalismo anti-austerity al di là della Manica. C’è da scommettere che, tra i loro più grandi fan, ci sia anche David Cameron.
Canta Bandiera Rossa e legge Marx? Sì, ma non solo. Perché per rendere credibile la sua prossima candidatura a guidare la Gran Bretagna, il neo leader laburista Jeremy Corbyn ha reclutato una squadra di influenti professori e intellettuali. Obiettivo: dimostrare che si può dare battaglia, da sinistra, all’austerity alle banche e al dominio del liberismo Redistribuendo la ricchezza
FINORA i conservatori lo ridicolizzavano perché legge Marx, canta Bandiera Rossa e non mette mai la cravatta: “Affidereste l’economia della Gran Bretagna a uno così?”, tuona il Sun , organo ufficioso della destra anglosassone. Ma adesso Jeremy Corbyn ha colto l’occasione del congresso annuale del partito per annunciare l’arruolamento di un “all star team” di economisti di sinistra, anzi molto di sinistra, e di colpo l’establishment sembra prendere più seriamente il nuovo leader laburista. È una squadra che comprende un premio Nobel americano, Joseph Stiglitz, un intellettuale francese della rive (decisamente) gauche , Thomas Piketty, un’italiana che ha fatto gli studi negli Usa e insegna nel Regno Unito, Mariana Mazzucato, una russa trapiantata a Londra, un inglese docente a Oxford e un ex-analista della Banca d’Inghilterra. Si riuniranno quattro volte l’anno per dare consigli e vere e proprie “lezioni” a Corbyn, al ministro del Tesoro del suo governo ombra John McDonnell e a qualunque parlamentare laburista affetto da scetticismo sulla possibilità di adottare una formula anti-austerità, se non anti-capitalismo. «Aiuteranno il Labour a scrivere un programma di sinistra», afferma il Financial Times . E la bibbia della City, davanti a mezza dozzina di “compagni economisti” di questo peso, non ironizza.
Daranno consigli al leader Labour per cambiare la politica economica “Meno finanza e più industria per cancellare i privilegi”intervista di Eugenio Occorsio a Mariana Mazzucato Repubblica 29.9.15
“Voglio eliminare le ingiustizie perché amo il Regno Unito” Corbyn strega la platea Labour
di Alessandra Rizzo La Stampa 30.9.15
Aveva promesso «politica, non spettacolo» e ha mantenuto la parola: Jeremy Corbyn, alla sua prima conferenza come leader laburista, è salito sul palco accolto da una standing ovation, ma senza musica. Ha invocato una «politica più gentile» e una «società più giusta», facendo appello a patriottismo e valori britannici in un discorso mirato a fugare i dubbi di quanti ritengono le sue idee pacifiste e anti-austerity troppo radicali per il Paese. «È perché amo il mio Paese che voglio eliminare le ingiustizie», ha detto a Brighton, sulla costa meridionale inglese.
Attacchi e passi falsi
Corbyn ha ripreso in mano l’iniziativa dopo settimane di attacchi e passi falsi, dal rifiuto di cantare l’inno nazionale alla faticosa composizione del governo ombra. Sfondo rosso, cravatta rossa, è apparso rilassato e sicuro di sè. Ha ribadito alcuni dei cavalli di battaglia, nazionalizzazione delle ferrovie, costruzione di case popolari, fino alla proposta, che sta spaccando il partito, di smantellare il deterrente nucleare. Ha attaccato le politiche di austerity di Cameron. «Vogliono farci credere che non c’è alternativa», ha detto tra gli applausi. Ma è incappato in una gaffe quando è emerso che brani del suo discorso, in particolare un passaggio anti-austerity molto citato dai media («Il popolo britannico non è costretto ad accettare ciò che gli viene dato») era stato scritto anni fa e respinto da generazioni di segretari laburisti. Un bell’imbarazzo per un politico che fa dell’essere genuino una delle sue doti principali.
Se la reazione in sala è stata generosa, non altrettanto tra i ranghi di un partito in cui sono in pochi a credere che Corbyn possa riportare il Labour al successo. Quasi tutti i big del partito si sono schierati contro il segretario e molti hanno rifiutato di entrare nel governo ombra. Per John McTernan, stratega già consigliere di Tony Blair, quello di Corbyn «è stato il peggior discorso politico che abbia mai sentito». Ma Corbyn, forte di una vittoria netta, si dice pronto a promuovere una politica che parta dal basso. Denuncia gli attacchi personali, cita Maya Angelou, poetessa Usa icona dei diritti civili, e accusa la stampa conservatrice di aver ingigantito i dissidi interni. Resta da vedere se i propositi di democrazia e tolleranza all’interno del partito sapranno tradursi in una linea politica chiara e una leadership forte.
Nella Manchester nostalgica Corbyn sfida il convegno Tory
Tornano i toni da barricata nella città della rivolta anti Thatcherdi Giulia Zonca La Stampa 5.10.15
Da una parte i delegati del congresso Tory, dall’altra gli attivisti «anti austerity» che tirano le uova: i due fronti di Manchester sembrerebbero netti in questa semplice foto con il tuorlo che cola sulle giacche scure e i cartelli che insultano il governo inglese, ma la frittata è piena di contraddizioni.
Nella settimana che riunisce dentro la stessa città la convention dei conservatori, le manifestazioni dei sindacati e pure il nuovo leader laburista Jeremy Corbyn non c’è nulla di definito. La situazione sfugge alle etichette, agli schieramenti e persino al tempo.
Crisi di identità
Slogan e proteste riportano al decennio 1980-90, ambizioni e speranze spingono nella direzione opposta e pretendono un futuro diverso e pure all’interno dello stesso partito, persino dello stesso elettore, ci sono mondi in conflitto che Manchester mette a nudo. La città più monocromatica del Regno Unito, la città con un consiglio comunale tutto Labour proprio mentre in parlamento i Tory hanno la maggioranza assoluta che mancava dal 1992, la città che ha fatto la storia della lotta di classe, non sa che direzione prendere.
Tutta colpa di Corbyn, un po’ estremista e un po’ profeta. Ha risvegliato idee di sommossa e spiriti popolari e anche irritato chi ormai aveva svoltato verso un laburismo più progressista soprattutto a Manchester, passata dalle strade buie e rivoltose degli anni degli scioperi di massa a quelle luccicanti e intellettuali che oggi cercano addirittura di rivaleggiare con Londra. L’orgoglio locale ha cambiato orizzonte. Bastava Corbyn diventato a sorpresa capo dei Labour a scatenare la crisi di coscienza solo che oggi Manchester è il centro della politica britannica e i contrasti bruciano ancora di più.
Stasera c’è il leader labour
Corbyn ha deciso di occupare la convention Tory in programma fino a mercoledì. Ha prima appoggiato la marcia degli 80 mila che ieri hanno sfilato, insultato, sputato, impagliato fiori, agitato striscioni contro i tagli e urlato contro gli stipendi leggeri e stasera si presenta a Manchester, ospite del sindacato, a due isolati dalla convention avversaria. Di solito questi incroci si evitano ma Corbyn adora provocare ed è subito diventato bersaglio. Ieri il segretario di Stato Philip Hammond ha aperto il suo comizio così: «Corbyn ha già danneggiato la reputazione del Regno Unito». Dalla strada gli ha risposto Anas Altikriti, fondatore del gruppo Muslim Brotherood e anima della protesta: «Il vero evento in città siamo noi, non quel decrepito dibattito in fondo alla via». Però diversi nomi forti del partito laburista hanno criticato Corbyn per il sostegno alle fronde. E Manchester, protagonista di tutto, è diventata il ritratto perfetto della confusione.
La protesta lampo
Quindici giorni fa si è svegliata nel 1990. Un detenuto di Strangeaway, la prigione cittadina, è salito sul tetto, lo ha spaccato, si è agitato con una sbarra recuperata dai rottami. Ha incrociato le gambe e annunciato che sarebbe rimasto lì. Chiedeva condizioni migliori in un carcere affollato. Alla seconda notte appollaiato sul tetto ha radunato un «protest party», monitorato dalla polizia e movimentato dalla fantasia di chi si sentiva di nuovo pronto al muro contro muro. Flashback: Strangeaway ha già visto detenuti sul tetto, il primo aprile di 25 anni fa un gruppo di carcerati si è arrampicato lì e ci è rimasto per 25 giorni. Il sit in è diventato guerriglia ed è finita malissimo. Due morti, più di 200 feriti, brutti ricordi e anche un rapporto che ha scosso l’Inghilterra. La prigione era davvero un letamaio.
L’ultima rivolta è arrivata pochi giorni dopo la vittoria di Corbyn, la gente si è riunita lì davanti e pareva il set di un film di Ken Loach. Donne disoccupate con infradito e piumini, legate a braccetto in una catena del malcontento. Una bionda si è appassionata alla causa e ha urlato all’uomo sul tetto: «Facci sentire vivi, ricorda a Manchester di cosa è capace». Intorno si aprivano lattine di birra e si appendevano lenzuoli pasticciati di rosso, utopie e desideri circondati dal simbolo dell’anarchia per celebrare un improbabile eroe, uno condannato per aver sparato allo zio.
Basta una pizza e una coca
La famiglia ovviamente non era al party ma c’erano ragazzi in tuta seduti su motorini scassati, uomini che distribuivano hamburger. Figli di chi ha rovesciato pulmini quando la Thatcher ha chiuso le miniere, persone tradite dalla Manchester che ha svoltato eppure non troppo convinte di voler tornare indietro: «Agenti guardateci, noi non ce ne andiamo da qui». Dopo 36 ore sono tornati a casa, il detenuto sul tetto è sceso con la promessa di una pizza e una Coca Cola e siamo tornati di colpo nel 2015. Corbyn dovrà tenere conto del concetto contemporaneo di resistenza. Anche se altri echi delle barricate sono tornati in strada ieri, in una città sempre più confusa.
I Tory mostrano i muscoli del successo elettorale in una zona tradizionalmente ostile e Corbyn cavalca ogni contraddizione. Il cortocircuito temporale è il minimo che ci si possa aspettare.
Un’agenda per la sinistra (e non solo per Corbyn)
L’economista spiega i motivi dell’ingresso nel think tank laburistadi Mariana Mazzucato Repubblica 8.10.15
BRIGHTON SETTE economisti (fra cui Joseph Stiglitz, Thomas Piketty e la sottoscritta) hanno accettato di fare da consulenti economici per Jeremy Corbyn, il nuovo leader del Partito laburista britannico. Mi auguro che il nostro scopo comune sia aiutare il Labour a creare una politica economica fondata sugli investimenti, inclusiva e sostenibile. Metteremo sul tavolo idee diverse, ma voglio proporvi le mie considerazioni riguardo alle politiche progressiste di cui il Regno Unito e il resto del mondo hanno bisogno oggi.
Quando il Partito laburista ha perso le elezioni, lo scorso maggio, in tanti, anche esponenti del Governo ombra, gli hanno contestato di non aver saputo interloquire con i «creatori di ricchezza», cioè la comunità imprenditoriale. Che le imprese creino ricchezza è evidente.
MA anche i lavoratori, le istituzioni pubbliche, le organizzazioni della società civile creano ricchezza, promuovendo crescita e produttività nel lungo termine. Un programma economico progressista deve partire necessariamente dal riconoscimento che la creazione di ricchezza è un processo collettivo e che gli esiti di mercato sono il risultato dell’interazione fra tutti questi «creatori di ricchezza». Dobbiamo abbandonare la falsa dicotomia “Stato contro mercato” e cominciare a ragionare più chiaramente su quali risultati vogliamo che il mercato produca. Investimenti pubblici “mission-oriented”, con un obiettivo chiaro, hanno molto da insegnarci. La politica economica dovrebbe impegnarsi attivamente per plasmare e creare mercati, non limitarsi a ripararli quando si guastano.
Le politiche tradizionalmente considerate “business friendly”, come i crediti di imposta e la riduzione delle aliquote, a lungo andare possono essere nocive per l’attività imprenditoriale. Allo stesso modo, è ora di superare il dibattito sull’austerity e discutere di come costruire collaborazioni intelligenti e reciprocamente vantaggiose fra pubblico e privato, in grado di alimentare la crescita per decenni.
Per cominciare dobbiamo investire in istruzione, capitale umano, tecnologia e ricerca. In molti settori gli imponenti progressi tecnologici e organizzativi hanno prodotto un aumento della produttività. Molte di queste innovazioni decisive affondano le loro radici in ricerche finanziate dallo Stato. Per garantire che ci siano progressi anche in futuro, ci sarà bisogno di interventi diretti e investimenti in innovazione lungo l’intera catena dell’innovazione: ricerca di base, ricerca applicata e finanziamenti alle imprese nelle fasi iniziali.
Oltre a questo c’è bisogno di una finanza paziente e a lungo termine. Gran parte della finanza attuale è troppo speculativa e troppo focalizzata sui risultati immediati. Per una rivoluzione tecnologica c’è bisogno della pazienza e della dedizione dei finanziamenti pubblici. In certi Paesi, come Germania e Cina, sono delle banche pubbliche a svolgere questo ruolo; in altri, il compito è affidato a organismi pubblici. Una cosa del genere significa anche definanziarizzare l’economia reale, troppo attenta al breve termine.
Nell’ultimo decennio, le aziende del “Fortune 500” che operano in settori come l’informatica, la farmaceutica e l’energia hanno speso più di 3mila miliardi di dollari per riacquistare azioni proprie, allo scopo di gonfiare il prezzo del titolo, le stock options e i compensi dei dirigenti. Bisogna ricompensare quelle aziende che reinvestono i profitti in produzione, innovazione e formazione del capitale umano.
Il passo successivo è incrementare i salari e il tenore di vita. Fino agli anni 80, gli incrementi di produttività erano accompagnati da aumenti salariali. Il collegamento si è spezzato per effetto della riduzione del potere negoziale dei lavoratori e del crescente orientamento delle aziende verso la finanza. I sindacati sono un elemento chiave per un’efficace governance delle imprese e vanno coinvolti maggiormente nelle politiche per l’innovazione, spingendo per investimenti in istruzione e formazione, i motori a lungo termine dei salari.
Anche le istituzioni pubbliche devono essere rafforzate. Per poter prendere decisioni di politica economica audaci c’è bisogno di agenzie pubbliche e istituzioni che siano capaci di assumersi dei rischi. Creare una rete di agenzie e istituzioni decentralizzata e dotata di adeguati finanziamenti, che lavora in collaborazione con le imprese, renderebbe lo Stato più efficiente e maggiormente focalizzato in senso strategico.
Anche il sistema fiscale deve diventare più progressivo. Dobbiamo farla finita con l’abbassare le tasse alla cieca, creando scappatoie che consentono pratiche di elusione fiscale, e offrire crediti di imposta che hanno effetti limitati in investimenti e creazione di posti di lavoro.
Anche sul debito bisogna cambiare atteggiamento. Invece di focalizzarci sui deficit di bilancio, dovremmo puntare l’attenzione sul denominatore del rapporto debito-Pil. Se gli investimenti pubblici accrescono la produttività di lungo periodo, il rapporto rimane sotto controllo. Nell’Ocse, molti dei Paesi con un rapporto debito-Pil più elevato (per esempio Italia, Portogallo e Spagna) hanno un disavanzo relativamente contenuto, ma non investono efficacemente in istruzione, ricerca, formazione, o programmi di welfare disegnati in modo da facilitare l’aggiustamento economico.
La politica di bilancio e la politica monetaria sono importanti, ma solo se abbinate alla creazione di opportunità nell’economia reale. La creazione di moneta, attraverso il cosiddetto quantitative easing , non alimenterà l’economia reale se la nuova moneta finirà nei forzieri di banche che non prestano. E quando le imprese non vedono opportunità, i tassi di interesse non bastano a influenzare gli investimenti.
Infine, non dobbiamo aver paura di guidare la direzione dello sviluppo verso un’economia verde. Gli stimoli di bilancio dovrebbero sostenere progetti trasformativi, come quelli che hanno determinato i grandi progressi dell’informatica e delle telecomunicazioni, delle biotecnologie e delle nanotecnologie, tutte aree «prescelte» da un settore pubblico che ha lavorato al fianco delle imprese. Lo sviluppo verde è molto di più delle semplici energie rinnovabili: può diventare una direzione nuova per l’intera economia.
Copyright: Project Syndicate, 2015 www.project-syndicate.org (Traduzione di Fabio Galimberti)
L’eresia di Corbyn, repubblicano e anti nuke
Gran Bretagna. Il neo leader Labour conferma l’opposizione all’atomica. E l’8 ottobre scorso ha deciso di «bucare» la cerimonia del Privy Council, o Consiglio della coronadi Leonardo Clausi il manifesto 10.10.15
LONDRA Mai come nel caso del neoeletto leader del Labour Party, Jeremy Corbyn, si era invertita la piramide gerarchica all’interno di un partito di opposizione, con la base che ha spettacolarmente scippato il timone alla dirigenza. E le conseguenze sono dirompenti, sia per le ripercussioni negli equilibri interni al partito e nella propaganda dei conservatori – il cui congresso, tenutosi a Manchester, si è appena concluso — che per via dell’ormai ben nota eresia corbyniana su due cardini dello status quo politico-istituzionale del paese: gli armamenti nucleari e la monarchia.
Un’eresia, quella del segretario, perfettamente familiare e condivisa dalle frange militanti e socialiste che ne hanno resa possibile la mirabolante vittoria e proprio per questo altrettanto invisa e impresentabile per la maggioranza dei deputati centristi, terrorizzati da un futuro di pluridecennale marginalità per il partito.
Il rinnovo del sistema missilistico Trident – megaprogramma bellico-nucleare di durata pluriennale che andrà presto votato in parlamento e il cui costo basterebbe a risolvere n emergenze umanitarie, è stato il primo test. Già durante il recente congresso di Brighton, tra il pacifista Corbyn, da sempre attivo sul fronte del disarmo unilaterale, e i moderati del suo governo-ombra sono emerse evidenti frizioni.
Con i volti corrucciati in una gravitas di circostanza, una sequela di analisti politici televisivi è sfilata davanti al neosegretario chiedendogli «Lei dunque non premerebbe il bottone (dell’attacco nucleare) per difendere la Gran Bretagna?» Corbyn ha ribadito la sua contrarietà all’arsenale nucleare, un’opposizione, va forse ricordato, in totale discontinuità con tutti i suoi predecessori dal secondo dopoguerra a oggi e si è detto ancora una volta pronto a intavolare una discussione aperta con i dissenzienti, ma è chiaro che ad attendere l’unità del partito di cui si è fatto infaticabile promotore è un futuro difficile.
C’è poi la madre di tutte le anglo-eresie, e cioè il repubblicanesimo di Corbyn. Il suo ruolo di leader del partito d’opposizione implica la partecipazione a una sequela di antichissime liturgie, prostrazioni, professioni di fedeltà alla sovrana e liriche intonazioni d’inni nazionali. All’oltraggio recentemente arrecato dal suo silenzio durante l’inno nella messa di suffragio per la battaglia d’Inghilterra ha fatto seguito il non presentarsi, lo scorso 8 ottobre, alla cerimonia del Privy Council, o Consiglio della corona, anch’esso antichissimo organismo composto dalla crema della crema — 500 optimates fra laici e chierici — che ha lo scopo di consigliare la monarca nel logorante esercizio della sua monarchia e che comporta l’accesso a riservate informazioni circa la sicurezza nazionale.
La questione è del tutto formale: l’ammissione al consiglio può anche avvenire senza genuflessioni e baciamano a Elizabeth Windsor, e lo stesso Cameron ha mancato tre volte l’evento dopo la sua elezione a leader del partito. Ma è chiaro quanto, in un paese ancora confidentemente monarchico, l’equilibrismo di Corbyn si faccia delicato. Durante la campagna elettorale aveva detto che rimpiazzare la monarchia non era prioritario e un portavoce del partito ha confermato che diventerà presto membro del consiglio. Ma questa coerente professione di repubblicanesimo è corroborante per i suoi sostenitori quanto lo è per i Tories e i loro spin doctors.
I quali nel frattempo, un po’ come gli sceneggiatori dell’indimenticata serie televisiva «Boris», hanno subito cominciato a infarcire i discorsi di Cameron, Osborne e di Boris Johnson di soundbit come «terreno comune» (common ground), termine che indica in buona sostanza il centro, per poi superarsi quando, in occasione del suo atteso discorso di chiusura del congresso di Manchester, Cameron, come già Osborne prima di lui, si è spinto fino a definire il suo il «partito dei lavoratori», alludendo forse agli startupper di Shoreditch finanziati dalla City.
Discorso in conflitto con quello paraxenofobico del ministro dell’interno Theresa May, che nella corsa alla leadership — Cameron ha annunciato che lascerà prima delle prossime elezioni nel 2020 — ha deciso di rivolgersi alla destra del partito lanciandosi in un attacco anti-immigrati che ha inorridito quegli imprenditori i cui business fioriscono grazie a contratti a zero ore e a trattamenti salariali che solo i migranti economici accettano per disperazione.
Ma se in questo congresso Cameron ha gustato il sapore dell’insperata e risicata maggioranza parlamentare, la settimana del premier non è stata proprio tutta rosa e fiori. Chiedendogli conto della «squallida» alleanza con gli autocratici Sauditi, prossimi a decapitare un dissidente diciassettenne, in un’intervista su Channel Four, il veterano Jon Snow lo ha costretto a una giustificazione stentata e penosa.
di Ian Buruma Repubblica 11.10.15
LA COSA straordinaria di Jeremy Corbyn, l’outsider della hard left affermatosi alla guida del partito laburista britannico, non è la sua presunta mancanza di patriottismo. Che sia o meno disposto a intonare God save the Queen nelle occasioni pubbliche appare infatti un dettaglio di poco conto. Ciò che rende la sua ideologia straordinaria è il fatto di essere tanto reazionaria. Corbyn è un socialista di vecchio stampo, che vorrebbe spennare i ricchi e riportare i trasporti e le aziende di pubblica utilità sotto il controllo statale. La sua retorica sulla lotta di classe indica una totale rottura con la democrazia sociale tradizionale.
Nell’Europa del dopoguerra la democrazia sociale è sempre scesa a patti con il capitalismo. L’ideologia di sinistra si ispira, soprattutto in Gran Bretagna, più a tradizioni morali cristiane (“più metodismo che Marx”) che a qualsiasi dogma politico. Leader laburisti come Clement Attlee, il primo premier dopo la Seconda guerra mondiale, non erano contrari alle economie di mercato: volevano semplicemente regolamentarle in modo da promuovere gli interessi della classe operaia. Durante la Guerra fredda la democrazia sociale rappresentava nell’Europa occidentale l’alternativa egalitaria al comunismo. Attlee, ad esempio, era ferocemente anticomunista. Alle conferenze del partito laburista si ostentava adesione ai vecchi simboli del socialismo. I leader di partito cantavano l’Internazionale con gli occhi velati dalla nostalgia. E sino al 1995, quando fu abrogata da Tony Blair, la Clausola 4 della costituzione del partito prometteva “la proprietà comune dei mezzi di produzione” e il “controllo popolare” dell’industria. (Non è detto che Corbyn non proverà a ripristinarla). A livello di governo nazionale, però, i socialisti ideologici venivano lasciati in disparte per fare spazio a personaggi più pragmatici.
Quando Tony Blair, seguendo l’esempio dell’amico Bill Clinton, promosse la “terza via”, il socialismo sembrava morto e sepolto. Clinton e Blair, che avevano dato il cambio all’altra strana coppia anglo-americana formata da Ronald Reagan e Margaret Thatcher, intaccarono il tessuto della democrazia sociale stringendo compromessi che Attlee non avrebbe nemmeno sognato. Il genio di Clinton e Blair è stato abbinare un interesse per i poveri a una sconveniente riverenza nei confronti dei ricchi di Wall Street o della City londinese. Blair trascorse le vacanze con Berlusconi, Clinton elargì la grazia a ricchi compagni di merende permettendo loro di sottrarsi alla giustizia. Entrambi, lasciata la carica pubblica, hanno sfruttato la propria reputazione per arricchirsi. Si potrebbe dire che evitando compromessi con il capitalismo i leader della “terza via” abbiano finito per compromettere se stessi. Questo è uno dei motivi per cui con Corbyn la hard left è tornata al contrattacco strappando il potere a chi si era compromesso. Corbyn, soprattutto per i giovani, è il tanto atteso uomo delle convinzioni, “autentica” voce del popolo. Di fronte a un socialista vero i democratici sociali della soft-left rimanevano senza parole, non avendo mai posseduto una vera e propria ideologia.
È possibile che Hillary Clinton venga punita allo stesso modo? O che il centrosinistra che rappresenta perda il controllo dei Democratici? Secondo alcuni sondaggi il suo principale antagonista alle primarie — Bernie Sanders, autoproclamatosi socialista — si sta avvicinando alla posizione di apparente predominio di Clinton. Sanders, al pari di Corbyn (e di Donald Trump), possiede un’aria di autenticità e a differenza dei professionisti di Washington, abituati a seguire un copione, appare come un politico che dice ciò che pensa. Tuttavia non credo che vincerà. Non esiste una sinistra democratica radicale quanto quella dei seguaci di Corbyn. Rispetto a Corbyn, Sanders è un moderato. Ciò che una fazione militante ha fatto al partito laburista oggi viene fatto non ai democratici ma ai repubblicani. Con una differenza: i “ribelli” repubblicani sembrano più estremi di Corbyn. Per non parlare di Sanders. Il partito repubblicano rischia di finire nelle mani di fanatici che considerano il compromesso all’interno del governo una forma perversa di tradimento. Oltre ad essere radicali, gli aspiranti candidati repubblicani sono persino più reazionari di Corbyn. I loro slogan “riprendiamoci il Paese” o “rendiamo l’America di nuovo grande” suggeriscono un ritorno a un passato immaginario in cui né il New Deal né i diritti civili interferivano con la serenità dei virtuosi cristiani bianchi. Anch’essi apprezzano l’“autenticità” (vedi Trump) e sono in rivolta contro leader di partito considerati compromessi solo per aver cercato di governare a Washington Dc.
È troppo presto per prevedere quale sarà il candidato presidenziale repubblicano. Tuttavia catturare la guida di un partito è più facile che essere eletto presidente degli Usa. Anche in Gran Bretagna pochi si aspettano che Jeremy Corbyn vinca un’elezione nazionale; ecco perché il suo partito è così disperato. Malgrado una campagna elettorale sino ad oggi fiacca, e a dispetto di una diffusa percezione di inautenticità, o di palese evasività, alla fine Hillary Clinton probabilmente unirà il partito e ce la farà. Non perché le sue opinioni siano più convincenti di quelle dei professionisti della politica del centrosinistra laburista. Ma perché i suoi avversari appaiono peggiori.
(Traduzione di Marzia Porta)
Corbyn tiene le posizioni
Fiscal Charter. Il Labour vota contro la legge sul pareggio di bilancio, solo 21 blairiti votano con la maggioranza Tory. La norma (simile a quella introdotta nella Costituzione dal governo Monti) è passato con 350 sì e 258 no (Labour, Snp e Verdi)di Leonardo Clausi il manifesto 16.10.15
LONDRA Che il compito di Jeremy Corbyn fosse impari, si sapeva. È come se avesse conquistato la leadership dello stesso partito al quale si era proposto come alternativa nella campagna per le primarie: ovvio che la triplice alleanza non scritta di tories, moderati neolaburisti e media mainstream gli avrebbe dato immenso filo da torcere.
Polarizzato fra la spinta sindacalista e militante dietro al segretario e l’arroccamento contro di lui della maggioranza dei notabili del Parliamentary labour party (Plp), il partito continua ad avere le convulsioni.
Per curarlo, Corbyn e John McDonnell — il ministro ombra delle finanze dipinto come «radicale» dai commentatori — devono camminare in bilico sull’abisso che separa l’ala neoliberista del partito da quella «neosocialista».
In economia, ciò implica fare necessariamente delle concessioni alla vulgata della responsabilità fiscale così come propagandata dai tories e dai blairisti. Questo per cancellare lo stigma mediatico di spendaccioni negazionisti del deficit che sarebbe stato, sempre secondo detta vulgata, causa principale della disastrosa sconfitta del Labour alle ultime politiche.
(L’equivalente sul fronte internazionale è che il partito potrebbe appoggiare l’intervento militare in Siria senza l’autorizzazione dell’Onu, negata dal veto russo, giacché almeno 50 deputati si dicono pronti a trasgredire la linea non interventista del segretario).
Una di queste concessioni, in questo caso sorprendentemente larga, McDonnell l’aveva annunciata già prima del recente congresso di Brighton.
Nella votazione parlamentare di mercoledì, aveva detto, il Labour avrebbe appoggiato il cosiddetto Fiscal Charter, altrimenti noto come Charter of budget responsibility: un obbligo legale a quel pareggio di bilancio da sempre cavallo di battaglia del ministro delle finanze Osborne, e in nome del quale i Tories proseguono gioiosi nello smantellamento dello stato sociale.
Si tratta di una misura politica, travestita da economica. Non solo impedirà per legge a futuri governi di spendere più delle proprie entrate fiscali in condizioni di crescita; impegna quello attuale a continuare a ridurre annualmente il debito in rapporto al Pil e a raggiungere un avanzo di bilancio entro il 2019–20, da mantenersi permanentemente fin quando un think tank creato dai tories, l’Office for Budget Responsibility (Obr), avrà ritenuto sufficiente la crescita dell’economia nazionale.
(In Italia questo identico risultato è stato raggiunto nel 2012 con il famoso «pareggio di bilancio» approvato all’unanimità da Pd e Pdl e inserito di corsa nell’art.81 della Costituzione dal governo Monti, ndr).
Un obiettivo-feticcio che Osborne aveva promesso sarebbe stato raggiunto quest’anno, che è stato bucato e probabilmente continuerà ad esserlo. Ma soprattutto, utilissima nel produrre fratture fra il Plp e la leadership.
Così, sorpassando a destra il partito un tempo guidato da Ed Miliband, già piegato a un’austerity light, McDonnell rischiava di fare un regalo ancora più grande a Osborne, che nel dibattito in aula prima del voto ha esortato i parlamentari laburisti dissenzienti a votare con la maggioranza, e addirittura a disertare le fila Labour per entrare nelle loro, «il nuovo partito dei lavoratori».
Per Corbyn un danno di credibilità enorme verso la base che lo ha eletto, e che avrebbe lasciato gli indipendentisti scozzesi del SNP soli con i verdi a votare contro il Fiscal charter.
Ma il rinsavimento non è tardato.
Dopo aver parlato con alcuni operai metallurgici dello stabilimento SSI Redcar, che in più di 2mila hanno appena perso il lavoro in seguito alla chiusura definitiva dell’altoforno, McDonnell ha avuto una sacrosanta illuminazione: in un precipitoso dietrofront ha annunciato giorni fa che il partito avrebbe votato contro.
E mercoledì sera, con buona pace delle accuse d’incompetenza e dilettantismo che puntualmente piovono su questa nuova dirigenza, il Labour ha votato da partito laburista. Contro il Fiscal charter, anche se è passato lo stesso (320 a 258).
Pur non potendo evitare del tutto la trappola di Osborne, Corbyn e McDonnell hanno tenuto la barra a dritta.
Il chief whip, il capogruppo, ha avuto il suo daffare, e le defezioni ci sono state: 21, meno delle 30 previste. Nemmeno troppe per un serial rebel come Corbyn, che ha sfidato il partito in centinaia di votazioni ed è abituato al dissenso, anche contro di sé.
Tra le più eccellenti, quella della rivale alla leadership sconfitta, la blairiana Liz Kendall, il gallese Chris Evans, l’ex-ministro ombra delle finanze Chris Leslie, Jamie Reed e l’ex-ministro ombra dell’istruzione Tristram Hunt.
Un confronto duro in aula, dopo quello tutto sommato soft tra Corbyn e Cameron la stessa mattina di mercoledì alle «Prime minister questions», dove il leader dell’opposizione ha nuovamente sottoposto al primo ministro casi reali d’indigenza provocata dalle misure del governo, ripetendo il quasi surreale slittamento dei toni abituali di quel contraddittorio.
Ma è stato anche un momento in cui la politica è sembrata riaffacciarsi sugli scranni di Westminster, dopo un’assenza troppo a lungo riempita – male — dall’amministrazione bipartisan di un tristo esistente.
Martin Amis boccia Corbyn: «Un ignorante senza umorismo»
intervista di Fabio Cavalera Corriere 26.10.15
LONDRA Geniale, sempre controcorrente e provocatore, Martin Amis, lo è di natura e di professione. Non risparmia niente e nessuno. Questa volta la vittima nel mirino del fuoriclasse della letteratura contemporanea inglese è Jeremy Corbyn. Il che sorprende perché lo scrittore ha sempre manifestato le sue simpatie laburiste. Ma il nuovo leader non gli va proprio a genio. La pagella è da bocciatura imbarazzante: ignorante, privo di senso dell’umorismo, un tipo di terz’ordine. Insomma, un vero disastro. Al punto che col laburismo di tale specie, Martin Amis intende rompere i ponti.
L’occasione gli viene offerta dal Sunday Times che ne ospita un lungo articolo, irrisorio e cattivo. E lo si capisce dall’incipit: «Quando avevo 10 anni, il sabato mattino, mi accucciavo vicino alla radio per ascoltare le canzoni dei bambini». La preferita di Amis era «Carbon the Copy Cat» cantata da Tex Ritter, un texano che pronunciava Carbon come «Carbin». Carbon non era che un «maledetto e sciocco felino che vuole imitare animali di diverse specie». E Carbon è Carbin ovvero Corbyn.
Il ritornello della canzone viene ripetuto da Amis: «Come una pecora cerca di belare, come un uccello cerca di cinguettare, come un cane cerca di abbaiare. Prova e riprova… gli esce sempre miao». Quel gatto «maledetto e sciocco» per Amis è proprio Jeremy Corbyn che «ha imparato presto nella vita a dire miao e mai gli capitato di dire qualcosa d’altro».
È il pollice verso di un intellettuale che ha frequentato i circoli della sinistra sindacale britannica. E che ancora poco tempo fa dichiarava al Daily Telegraph : «È profondamente radicata in me la convinzione che non potrei mai votare per i conservatori. Ricordo quando venni negli Stati Uniti e avevo nove anni. Chiesi a mia mamma qual era la differenza fra i repubblicani e i democratici e lei mi rispose che a noi piacciono i democratici perché sono come i laburisti in Inghilterra». E diventò per davvero laburista.
Ma i tempi corrono e gli schemi ideologici di una volta si consumano, hanno bisogno di aggiustamenti. Martin Amis non ha mai cambiato sponda però si è spostato al centro ammettendo pure una certa stima per David Cameron, senza però votarlo. Lo strappo definitivo dell’autore de «La zona d’interesse», «Dossier Rachel», «Guerra contro i cliché», per citare le ultime opere pubblicate in Italia da Einaudi, è arrivato improvviso.
Una sciabolata al laburismo di Corbyn al quale rinfaccia di tutto. Non solo l’essere rimasto vincolato a politiche anni Settanta. L’attacco di Amis colpisce il neoleader su più fronti: «Corbyn dice che gli piace leggere e scrivere… il suo curriculum intellettuale dà l’impressione di rigidità, non è curioso». È «undereducated», in parole semplici: di scarsa cultura o ignorante. E gli fa difetto una delle virtù degli inglesi, il senso dell’umorismo.
Condanna senza appello. E il finale dell’articolo, come nello stile di un personaggio definito il «Mick Jagger della letteratura inglese», è la peggiore delle provocazioni per Corbyn: «È facile immaginare l’evoluzione del laburismo verso ciò che sarà l’equivalente dei repubblicani americani, disperati, retrogradi ed egocentrici… sempre più ostili alla democrazia e non meritevoli di un solo voto».
Il capo di stato maggiore contro Jeremy Corbyn
Regno unito. Polemica dell’esercito contro il pacifismo del leader Labourdi Leonardo Clausi Il manifesto 11.11.15
LONDRA Avere una costituzione non scritta è assai ecologista, permette un prezioso ed encomiabile risparmio di carta. Ma provoca anche effetti imprevisti e indesiderabili, come lo scontro di qualche giorno fa tra Jeremy Corbyn — che nonostante sia stato fasciato in frac istituzionali e forzato a indossare papaveri di plastica (i beneficenti «poppies» in solidarietà ai caduti di tutte le guerre) sul bavero della giacca, si ostina a mantenere le sue intollerabili posizioni antinucleariste — e il capo di stato maggiore dell’esercito Nicholas Houghton.
Domenica mattina, ospite di Andrew Marr ai microfoni della Bbc, Houghton si è detto «preoccupato» che Corbyn diventi Primo ministro qualora quest’ultimo persista nella sua determinazione a «non sganciare la bomba» per proteggere la patria che si trovi in pericolo nucleare.
L’attacco, che si riferisce alla dichiarazione fatta dal segretario neoeletto alla Bbc settimane orsono e che ha provocato scalpore dentro la destra Labour, oltre naturalmente a tutti i media moderati, è l’ennesimo siluro sparato dall’establishment britannico alla nave laburista, in acque assai movimentate sin da quando il filopacifista ex-deputato di Islington North è finito al timone.
Cosa grave davvero, perché in ogni repubblica liberal democratica che si rispetti, i militari dovrebbero obbedire alla volontà popolare. Si tratta di un assioma teoricamente inviolabile nell’Occidente sviluppato e mai nella sua lunga storia un rappresentante della culla del parlamentarismo si era permesso di andare così lontano. Ma prevenire è meglio che curare, si saranno detti nel regio esercito davanti alla prospettiva innominabile che Corbyn possa avvero vincere le elezioni. Segno che non la reputano poi tanto una missione impossibile.
Altrettanto possibile David Cameron considera la sua, di missione. Così ha definito il primo ministro la rinegoziazione della presenza del Regno Unito nell’Unione europea contenute in una letterina indirizzata al presidente del Consiglio d’Europa Donald Tusk presentata martedì a Chatham House. Risibilmente contestato il giorno prima a un congresso di businessmen da giovanissimi imprenditori in acne e cravatta della Leave campaign, uno dei due comitati per l’uscita dall’Ue, il Primo ministro ha formalmente reiterato i petulanti desiderata britannici per Bruxelles.
È una lista della spesa riassumibile in quattro punti: proteggere il mercato unico europeo, — e quindi il bengodi finanziario tra le principali cause del crash del 2008 — che è la City di Londra, cosicché i 19 paesi dell’eurozona non si avvantaggino a scapito di quelli che non ne fanno parte; una maggiore competitività economica, ovvero più laissez-faire e deregulation ancora non ben definiti, ma la cui adozione avrebbe le solite ricadute nefaste sul lavoro (anche se i diritti dei lavoratori non sono ancora stati presi specificamente di mira: e questa è questione dirimente anche per lo schieramento per il sì o il no all’interno del Labour ); proteggere il Regno Unito dalle conseguenze di un’Unione «sempre più stretta» implicita nel Trattato di Roma, che finirebbe per sottrarre sovranità.
E infine il quarto e più urgente, perché trampolino dell’offensiva alla sua destra sferrata dall’Ukip e dei suoi backbenchers euroscettici più sfegatati: la restrizione all’accesso di migranti economici dell’Ue ai sussidi del welfare per i primi quattro anni dal loro ingresso. Restrizione giustificata da Cameron in toccanti termini umanitari: l’emorragia di lavoratori qualificati finirebbe per ostacolare lo sviluppo dei paesi di provenienza. Nel discorso di accompagnamento alla lettera ha poi aggiunto di voler eliminare lo Human Rights Act introdotto dal Labour, che rappresenterebbe un’intollerabile ingerenza della Corte europea dei diritti umani in questioni esclusivamente pertinenti alla giurisprudenza nazionale.
Quello che Napoleone Bonaparte riteneva fosse un insulto, quando sprezzante tacciava gli inglesi di essere una «nazione di bottegai», per Cameron è ovviamente un complimento. Lo dimostra la retorica del suo discorso, abbondante di «approccio pratico e non ideologico», «di testa e non di cuore». Deluderemo i partner europei, ma che ci volete fare, noi siamo e siamo sempre stati così: rigorosamente pratici, coi piedi per terra, demistificatori naturali.
A cinque minuti dall’aver pronunciato il suo discorso, è stato attaccato dalla destra del partito per non aver osato abbastanza, dall’ex-presidente del parlamento Europeo Juncker, (del quale Cameron aveva cercato in tutti i modi di boicottare l’elezione) che ha definito la richiesta di bandire ogni futura riforma «assai problematica» e da quello in carica, Martin Schulz, che ha definito potenzialmente illegali le misure restrittive nei confronti dei migranti europei.
Via libera ai Tornado. Londra va alla guerra. Batosta annunciata per Corbyn: il premier Cameron trionfa in aula grazie ai voti laburisti. Raf subito in azione. L’ex capo dell’intelligence militare Flynn accusa: «Nessuna strategia coerente»di Leonardo Clausi il manifesto 4.12.15
LONDRA L’aula non aveva ancora finito di applaudire l’eroica prolusione con cui il figlio segreto (nel senso che fino a ieri non lo conosceva nessuno) di Tony Benn, Hilary, metteva il suggello del Labour a una maggioranza che Cameron non si sognava neppure, che già i Tornado scaldavano i motori. Mercoledì sera, con 397 sì contro 223, la camera dei Comuni ha dato la sua robusta approvazione all’intervento, non senza nel frattempo distruggere l’unità parlamentare dei laburisti, cui Corbyn aveva dovuto concedere la libertà di voto secondo coscienza. Con un discorso roboante che pigramente accostava Daesh al fascismo di Franco, Mussolini e Hitler e il cui scopo era scippare a Cameron la leadership interventista e a Corbyn quella del partito, il ministro-ombra agli Esteri Benn è finalmente uscito dall’ombra.
Per Corbyn si tratta di una batosta già scritta: grazie anche alla romanza bellicista cantata da Benn, che enfatizza la spaccatura al cuore parlamentare del Labour e deve aver convinto vari indecisi dell’ultimo momento, sono stati in 66 dei suoi ad autorizzare gli attacchi aerei, contro 152 contrari. Più contenuto il danno nel governo-ombra, dove i no sono stati 17 contro gli 11 sì. Anche per questo Cameron deve aver ridotto da due a uno i giorni da dedicare al dibattito: i sondaggi indicano che, col passare dei giorni, l’umore del paese stava spostandosi dall’appoggio incondizionato del dopo-Parigi a una sempre più diffusa esitazione.
I primi obiettivi militari, raffinerie del Daesh in territorio siriano, sono già stati colpiti all’alba di giovedì: le incursioni della Raf sono partite dalla base di Akrotiri, a Cipro, dove al momento ci sono solo otto velivoli, due Tornado e sei Typhoon, ma altri ne stanno arrivando. Carichi di missili che dovrebbero fare la differenza, secondo Cameron e il suo ministro della difesa Michael Fallon. Sono i gioielli dell’arsenale nazionale, missili che nemmeno quelli americani possono vantare: i Brimstone, 140mila euro l’uno, che vedono e seguono il bersaglio come una muta di segugi. Per limitare le vittime civili, di cui i russi non si curano più di tanto.
«Bisogna colpirli prima che colpiscano noi, tanto siamo già un obiettivo» è stato il mantra dei Tory per tutto il dibattito. E così inizia la terza guerra a distanza di Cameron, la quarta della Gran Bretagna dal 2000. Nessuno sa quando finirà naturalmente, c’è chi parla di almeno tre anni di campagna, ma non è il momento di porsi simili domande disfattiste, minano il morale dei piloti. A un certo punto bisognerà passare a vie di fatto sul territorio, e per questo Cameron conta sui 70mila combattenti «moderati» – ricorrente parola feticcio — che in realtà sono frammentati in gruppi con agende spesso in conflitto.
Proprio l’effettiva esistenza e affidabilità di questi combattenti era alla base dei dubbi di chi era indeciso o contrario all’intervento, una questione direttamente legata anche alle prospettive di chi andrà a riempire il vuoto lasciato dallo stato sedicente islamico. Per ora, l’obiettivo minimo è quello di «degradare» le capacità militari di Daesh, anche perché Cameron non può parlare di uno straccio di linea. Per citare letteralmente il Guardian, che ha chiesto al neopensionato generale americano Mike Flynn, ex capo della Defense Intelligence Agency circa l’esistenza di un piano strategico: «No, no. Non ne abbiamo affatto. Tutto è incoerente e frammentario».
Il massacro di Parigi ha finalmente dato al primo ministro quello che voleva da mesi: il mandato parlamentare ai bombardamenti che solo un’aula bipartisan poteva assicurargli. Ora il premier può dire di non esser stato da meno dei suoi alleati Hollande, Erdogan e Obama, le cui rispettive aviazioni rischiano di collidere con quelle iraniane, russe e di altre democrazie liberali in un’operazione militare che è quasi eufemistico definire incerta. Di aver ribadito il ruolo militare e strategico, ancor prima che diplomatico, di una Gran Bretagna che proprio non vuole imparare dagli errori recenti in Iraq, Afghanistan e Libia. E di essere naturalmente al fianco di Parigi nella guerra contro il «culto della morte».
Ora si teme un redde rationem laburista interno, con i centristi che denunciano una caccia alle streghe: Ken Livingstone, che ultimamente ha fatto delle uscite ben poco tattiche, ha dichiarato il suo sostegno alla de-selezione di chi ha votato per l’intervento. Dal canto suo, Corbyn ha condannato i cyber-insulti ricevuti da alcuni deputati favorevoli all’intervento.
di John Lloyd Repubblica 4.12.15
ADESSO Jeremy Corbyn ha un contendente: Hilary Benn. Paradossalmente, Benn si è trovato in questa posizione dopo essersi schierato con i conservatori al governo.
Fino a quando mercoledì non ha pronunciato il suo discorso – esprimendosi a favore della proposta del governo che autorizza la Royal Air Force a bombardare le postazioni dell’Is in Siria – a sinistra il lamento di coloro che pensano che la leadership di Corbyn danneggerà il partito era che non c’era nessuno disposto a competere contro di lui. Gli altri candidati alla leadership dei laburisti – Tristram Hunt, ex docente universitario, e Chuka Umuna, ex banchiere – non sono ancora emersi come poli di influenza distinti all’interno del partito. Benn, invece, lo ha fatto.
Prospettando l’esigenza di attaccare l’Is in termini di “attacco al fascismo”, ha fatto riferimento sia all’orgoglio britannico per il ruolo assunto nella Seconda guerra mondiale sia alle motivazioni che stanno dietro la necessità da parte della sinistra di farsi coinvolgere in questa guerra.
Quale persona di sinistra negherebbe la necessità di combattere il fascismo? Con un unico discorso, Benn ha fatto sembrare Corbyn e i suoi alleati uomini e donne timorosi di affrontare chi rappresenta una minaccia per tutto il mondo. E vi è un altro aspetto paradossale: Benn è figlio di un famoso politico laburista, Tony Benn, che negli anni Settanta e Ottanta guidò l’ala più a sinistra del Labour. Ebbene: Tony Benn sarebbe stato sicuramente al fianco di Corbyn.
Come si è visto, circa 69 parlamentari laburisti hanno votato con Benn e il governo, dando a quest’ultimo una maggioranza ampia. Benn si è esibito in un discorso fatto con passione. Jeremy Corbyn al confronto è un oratore mediocre, nei suoi discorsi fa quasi sempre affidamento su fogli e foglietti di varia lunghezza e piace soltanto a coloro che già lo appoggiano. La sua forza è quella di parlare “dal cuore”, ma mercoledì Benn ha dimostrato come si fa a parlare veramente dal cuore: usando la testa.
Se Benn intende continuare a mietere successi deve riflettere con attenzione sulla prossima mossa perché Corbyn dietro di sé ha il partito e tutti i nuovi giovani membri che vogliono portare il Labour più a sinistra.
Sfidare tutto ciò è rischioso: un esercito di attivisti potrebbe sollevarsi contro di lui. Dal canto suo Corbyn deve iniziare a vincere. E con ciò intendo seggi in parlamento, elezioni regionali, le amministrative. Il risultato delle elezioni straordinarie di Oldham, città nella quale il Labour difendeva la maggioranza, sarà un banco di prova. Più importanti ancora le elezioni per l’assemblea regionale scozzese della prossima primavera. Se la mancanza di popolarità di Corbyn nel paese si rifletterà in una perdita di voti sarà arrivato il momento di Benn, se egli riuscirà a coglierlo.
(Traduzione di Anna Bissanti)
“Disprezzano noi, i nostri valori, la nostra democrazia. Bisogna sconfiggerli”
Hilary Benn, ministro degli esteri ombra del Labour, figlio di un noto deputato oscura Corbyn appoggiando i raid e potrebbe insidiarne la leadershipdi Enrico Franceschini Repubblica 4.12.15
LONDRA – E’ nata una stella nel partito laburista britannico. Laburismo e politica ce li ha nel sangue: perché il 62enne Hilary Benn è figlio di Tony Benn, leggendario deputato e ministro laburista scomparso nel 2014, tra l’altro famoso per avere fatto passare una legge che gli consentì di rinunciare al titolo di visconte, frutto delle sue aristocratiche origini (ed erano parlamentari, come se non bastasse, anche nonno e bisnonno). Ma soltanto mercoledì sera, quando ha preso la parola verso la fine del dibattito alla camera dei Comuni sui bombardamenti in Siria, Benn junior ha brillato nel firmamento della sinistra britannica come mai prima. Un intervento “elettrizzante”, lo definisce la stampa di Londra, una retorica che qualcuno paragona a Winston Churchill. «Noi laburisti e in generale noi britannici non ci siamo mai spostati sull’altro lato della strada per evitare una minaccia», ha detto Hilary Benn. «Non abbiamo avuto paura dei fascisti. Li abbiamo combattuti arruolandoci nella Brigata Internazionale contro il dittatore Franco. Li abbiamo combattuti affrontando Adolf Hitler e Benito Mussolini. E oggi nei fanatici dell’Is abbiamo di fronte un nuovo Fascismo. Un fascismo che disprezza noi, i nostri valori, la nostra democrazia. E quel che sappiamo dei fascisti è che bisogna sconfiggerli».
Quando si è rimesso a sedere, forse è rimasto lui stesso sorpreso dallo scrosciante applauso risuonato nel palazzo di Westminster: un tripudio raro nella solitamente compassata camera bassa del parlamento. «In quest’aula non capita spesso di ascoltare un discorso così», si è complimentato subito il ministro degli Esteri conservatore Philip Hammond. Del quale Benn è la controparte, rivestendo l’incarico di ministro degli Esteri nel “governo ombra” (faccenda presa molto sul serio da queste parti) dell’opposizione laburista. L’opinione dominante dei commentatori britannici, il giorno dopo, è che a questo punto Benn non mira più a prendere il posto di Hammond in un futuro governo laburista, insomma a fare il ministro degli Esteri sul serio, bensì a rimpiazzare Jeremy Corbyn, che si è opposto ai raid, come leader del Labour e candidarsi a primo ministro nelle elezioni del 2020. Ex-politico locale ed ex-sindacalista, deputato dal 1999, ministro nei governi di Blair e Brown, “Ilario” (si direbbe in italiano) Benn non era sgradito a Corbyn, pur senza esserne un fedelissimo, fino a quando lo ha sfidato ai Comuni schierandosi a favore dei raid in Siria, convincendo un terzo dei deputati laburisti e quasi metà dei ministri del governo ombra a votare con lui per i bombardamenti. Non è di sinistra come il padre Tony, di cui Corbyn si sente discepolo, ma neppure blairiano doc. Non è giovanissimo, ma comunque più giovane del 66enne Corbyn. Se da qui al 2020 il partito sfiduciasse Corbyn, secondo i sondaggi amato da giovani e militanti ma non dalle masse, forse il Labour ha trovato il salvatore dalla “lenta agonia” – previsione del Financial Times – verso cui lo porta la svolta radicale avviata dal suo contestato leader attuale.
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