giovedì 1 ottobre 2015

L'Impostore di Cercas


Javier Cercas: L'impostore, Guanda

Risvolto
Un romanzo vero, ma allo stesso tempo un'opera di finzione. La finzione, però, in questo caso non è frutto della fantasia dell'autore, ma è opera dello stesso protagonista, Enric Marco. Chi è Enric Marco? Un novantenne di Barcellona, militante antifranchista, che negli anni Settanta è stato segretario del sindacato anarchico - la CNT - e in seguito ha presieduto l'associazione spagnola dei sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti, ricevendo numerosi riconoscimenti per il coraggio dimostrato negli anni e la testimonianza degli orrori del lager. In realtà, è un impostore. Nel 2005 la sua menzogna è stata pubblicamente smascherata. Enric Marco, come ha rivelato uno storico, non è mai stato internato a Flossenbiirg. E l'intera sua vita è un racconto intessuto di finzioni, dalla sua partecipazione alla guerra civile alla militanza antifranchista. Dieci anni dopo, Javier Cercas traduce in un romanzo audace, che sfida le convenzioni narrative, l'enigma del personaggio, le sue verità e le sue bugie. In queste pagine intense si dipana un intero secolo di Storia, raccontato con la passione di un sovversivo della letteratura e un'ammirevole onestà dissacratoria.




Cercas racconta le vicende di un impostore che si finse per anni superstite dei lager. Un grande libro sul rapporto tra mistificazione e verità nella memoria collettiva 

Stefania Vitulli - il Giornale Ven, 11/09/2015

Il nostro impostore quotidianoIl nuovo romanzo di Cercas ripropone una figura familiare in ogni epoca, dalla realtà alla fiction. Non un truffatore, ma qualcuno che cerca di dare un senso alla propria vitaMario Baudino La Stampa 18 9 2015
La storia, decisamente boccaccesca, è stata raccontata qualche giorno fa sul Daily Telegraph: una donna ha trascinato in tribunale un’amica per una violenza sessuale abbastanza particolare: fingendosi un maschio gravemente ammalato, costei l’avrebbe sedotta su Internet e fatta in qualche modo innamorare, fino a decidere di incontrarsi in un albergo. Unica condizione, un accurato bendaggio. Il presunto giovanotto non voleva mostrare il volto, sfigurato dal cancro. La cosa sarebbe andata avanti per ben due anni (e non solo per nove settimane e mezzo), fino a quando, finalmente insospettita, la vittima dell’inganno si sarebbe finalmente sbarazzata delle bende, scoprendo così che aveva sempre fatto l’amore non con uno sfortunato e amabilissimo giovane, ma con l’amica, dotata ovviamente di apposita protesi.
Zelig e Gurdulù

La faccenda sembra persino troppo scalcinata per essere vera, ma ora un tribunale dovrà decidere (forse di affidare la ricorrente alle cure di uno psichiatra?) e mettere un sigillo legale sull’ennesimo caso di impostura, vera o presunta non fa molta differenza. È inutile aggiungere che le simpatie del pubblico andranno indefettibilmente all’accusata, perché l’impostore, diciamolo, è una figura sì inquietante ma in fondo simpatica: almeno nel mondo dell’informazione di massa dove trionfa, eterno Zelig in cerca di guai.

Woody Allen nel suo film aveva colto il carattere nevrotico del trasformista, un po’ come il Gurdulù di Calvino (nel Cavaliere inesistente) che si identificava nella prima cosa su cui cadesse la sua attenzione, diventava un’anatra, una pietra, una palla. L’impostore il più delle volte non può fare a meno dell’impostura, per lui è una coazione. È la sua caratteristica principale, anche se non la sola, che l’ultimo romanzo di Javier Cercas (L’impostore, appunto, pubblicato da Guanda) costruisce in tutte le sue contraddizioni.

La bambina e i lupi
Quello di Cercas è un personaggio realmente esistito e di straordinario successo, che riesce a convincere il mondo intero d’essere stato un militante antifranchista e di essere poi sopravvissuto ai Lager nazisti; ottiene onori e seguito, è un eroe spagnolo. Ma è un bugiardo patologico. L’impostore è una figura universale, frutto molto spesso di periodi storici travagliati e terribili, ma non solo. Per restare nell’ambito del nazismo, come avviene nel libro dello scrittore spagnolo, i predecessori non sono pochi.
Fu clamoroso il caso, qualche anno fa, di Misha Defonseca, autrice di un bestseller internazionale da cui venne tratto un film di successo, Sopravvivere con i lupi (in Italia pubblicato nel 1998 da Ponte alle Grazie), dove narrava la sua tragedia di bambina ebrea sfuggita alla deportazione che attraversa a piedi la Polonia, aiutata d un branco di lupi. Era tutto falso, l’autrice (all’anagrafe Monica De Wahel) non era ebrea e non aveva mai visto un lupo, anche se la sua cattolicissima famiglia era stata effettivamente vittima dei nazisti (il padre era un partigiano belga). Confessò a 71 anni: «Questa storia è sì la mia, però non la vera realtà ma piuttosto la mia realtà, la mia maniera di sopravvivere». 
Il falso medico
L’impostore non è esattamente un truffatore, agisce per dare un senso - malato - alla propria vita. Poco sappiamo del falso Smerdi, il primo della storia come tramanda Erodoto, ovvero un sacerdote che fece credere di essere un figlio di Ciro II, re di Pesia, e usurpò il trono nel 522 a. C. Molto si è scritto su Kaspar Hauser, il bambino spuntato a Norimberga nell’Ottocento, che affermò di aver vissuto 10 anni in una buia cella. Vittima di un complotto, caso psicologico, impostore? Molto si conosce delle false figlie dello zar, che dopo la Rivoluzione d’ottobre spuntavano come funghi in Europa. L’impostore «storico» è attratto dai troni (anche immaginari. A inizio Ottocento Mary Baker, figlia di un calzolaio, si spacciò con successo per tal principessa Caraboo dall’isola di Javasu, e parlando una lingua sconosciuta scroccò denaro e favori). 
Quello moderno bada più al sodo. Tony Curtis nel Grande impostore (film celeberrimo degli Anni Sessanta), dette un volto molto amato dal pubblico a Ferdinand Waldo Demara, uno che aveva indossato decine di identità: anche quella di un famoso chirurgo, su una nave della Marina canadese, durante la guerra di Corea. Non fu solo un falso medico come ce ne sono stati e ce ne sono a centinaia, con le motivazioni e le giustificazioni più svariate. Toccò l’apoteosi del falso, operando sedici coreani, in un caso persino a cuore aperto, servendosi pare di un manuale di chirurgia generale. Si salvarono tutti.


Capire l’impostore

La natura umana nel «racconto reale» su Enric Marco e la sua reputazione di (falso) sopravvissuto dai campi di sterminio

F. La Porta Domenicale 6 9 2015
Sul tema dell’impostura è arduo dire qualcosa di originale. Eppure Javier Cercas riesce a farne una decisiva puntata della sua personalissima “inchiesta” sulla natura umana, iniziata con Soldati di Salamina (uno dei libri più belli degli Anni Zero) e Anatomia di un destino . Così l’indagine su Enric Marco – L’impostore , Guanda, trad. Bruno Arpaia – che per decenni si è fatto passare per sopravvissuto ai campi di sterminio (senza mai esserci stato) - e poi per presidente dell’associazione deportati spagnoli, diventa severo autoesame e meditazione sull’esistenza, intrecciando cronaca e autobiografia. E all’impostura si connettono i temi della sua opera: l’eroismo, il conformismo, l’enigma indecifrabile della maggior parte dei nostri comportamenti. Cercas intende capire Marco, non giustificarlo, anche perché gli serve per capire se stesso (nulla di umano ci è estraneo). Un compito difficile, cui lui stesso resiste per vari anni, e che ha come nemico principale il Kitsch , «la negazione di tutto ciò che nella esistenza umana risulta inaccettabile… una menzogna narcisistica che nasconde la verità dell’orrore e della morte» (se pensiamo che i quattro quinti della narrativa italiana si impegnano a rimuovere il conflitto, la depressione, etc... davvero il Kitsch incombe minacciosamente su di noi). Per farlo ha scritto un altro “racconto reale” (come li chiama), ossia un romanzo senza finzione, un reportage narrativo che senza disconoscere un debito verso Capote rivendica un deciso primato della letteratura sul giornalismo. Ma vediamo da vicino il suo protagonista. È un picaro e ciarlatano sfrenato, seduttore e imbroglione, artista del pettegolezzo, «rockstar della memoria storica», maestro nel muoversi nella confusione (fughe improvvise, cambiamenti di famiglia e identità…). Nella transizione alla democrazia si è fatto anche eleggere segretario generale del sindacato anarchico, portandolo al trionfo. Sì, perché è un bugiardo benefico, un impostore virtuoso. Come falso deportato ha fatto conferenze, ha tenuto viva la memoria dell’Olocausto, ha sensibilizzato le coscienze («una menzogna è una grande virtù quando fa il bene», Voltaire). Inoltre le sue bugie sono impastate di altrettante verità: in un Lager non c’è mai stato però in Germania sì: lavorò come volontario in un’azienda tedesca. Venne poi arrestato dalla Gestapo per ragioni imprecisate ma poi processato e assolto. Cercas, che lo conosce e incontra più volte, ne è insieme ossessionato e affascinato. Marco, dopo essere stato smascherato, gioca d’anticipo, confessa tutto ed è grato allo scrittore per questo ritratto così onesto, partecipe e in fondo assolutorio («Marco reinventò la propria vita nel momento in cui l’intero paese stava reinventandosi…»). Ora, un libro del genere sollecita riflessioni di vario tipo. 

L’impostore ha un ritmo perlopiù incalzante – la trama riflessiva si integra con la trama narrativa – anche se nella ricostruzione meticolosa della biografia di Marcos si registrano alcune lungaggini (non possiede la perfetta concentrazione di Soldati di Salamina ). A tratti potrebbe evocare un filone letterario postmoderno: non vi si trova un solo interrogativo (e anche una sola risposta) che non parta da qualche altro autore, e che non si appoggi a una citazione: Primo Levi (al quale farà rispondere da Todorov), Faulkner, Camus, Arrabal, Vargas Llosa (negli altri libri Borges, Ortega, Rossellini…). Come se in Cercas ci fosse il senso dell’esaurimento di una intera cultura: tutte le domande sono già state formulate, e probabilmente in una forma esemplare, migliore di quella che gli daremmo noi. E in questa direzione va la stessa scelta del “racconto reale” e della metafiction : anche qui la consapevolezza di una evidente usura del genere romanzesco e della finzione pura. A un certo punto l’affabulatore Marco viene associato alla figura dello scrittore, il quale non è che un bugiardo che dice la verità. Ma l’accostamento non convince. E infatti Cercas aggiunge che quello dello scrittore è «un inganno consentito», dunque trasparente. Ogni opera di finzione implica un patto sociale con un pubblico e una sospensione dell’incredulità. Inoltre: i generi letterari hanno statuti estetici diversi. Ad esempio l’autore di un reportage non può inventare nulla. Se dopo aver letto in Omaggio alla Catalogna che a Barcellona sotto il controllo anarchico i tram furono dipinti di rosso e tutti vestivano con tute, scoprissi che Orwell se l’è inventato per un maggiore “effetto di realtà”, mi sentirei ingannato. Torniamo al grande impostore. 

Lo storico Bernejo lo ha smascherato nel 2005 sulla base di documenti inoppugnabili. Non tutti i fatti quindi sono interpretazioni: una prova documentale non è una ipotesi tra le altre. Il mondo ancora non si è dissolto in una narrazione. Più in là Cercas paragona Marco a don Chisciotte, come lui assetato di gloria e notorietà. E si sofferma sulla diffusa sindrome narcisista, di cui Marcos – che si è scelto una identità grandiosa per risarcire il senso della propria pochezza – sarebbe solo una versione esagerata. E poi: chi di noi non è un commediante? Chi potrebbe negare che la vita quotidiana di ciascuno sia un mix inestricabile di recita (anche inconsapevole) e autenticità, di messinscena e adesione sincera alle cose? Il punto è un altro. E il lettore non può evitare un proprio giudizio sull’”enigma morale” dell’impostore. La colpa di Marco non consiste certo nell’essere stato una persona normale, comune, non eroica, non particolarmente integra, un uomo della maggioranza, ma nell’avere abusato oltre ogni limite della disarmata credulità delle persone normali, comuni, non eroiche, degli uomini della maggioranza. Di aver tradito la loro assoluta buona fede, oltretutto fingendosi superiore. E di avergli imposto la ferita – mai più rimarginabile – di una violenta disillusione. Marco andava nelle scuole a mostrare se stesso come esempio dell’essere umano che resiste a ogni prova mantenendosi degno. Quando è caduto il velo della impostura cosa è rimasto – nei tanti giovani che lo seguivano – della loro ingenua ma ragionevole fiducia nella dignità umana?

Il punto cieco di Javier Cercas
Intervista. Lo scrittore spagnolo, che sabato e domenica sarà al Festivaletteratura di Mantova, parla del suo nuovo libro, un "romanzo senza finzione" titolato "L'impostore" e basato sul caso vero di un uomo che per tre decenni si spacciò come deportato nei campi nazisti dove non era mai stato
Francesca Borrelli Manifesto 6.9.2015, 6:00
L’ultima sua per­for­mance muove dalla sto­ria di un uomo chia­mato Enric Marco, per quasi tre decenni agli onori della cro­naca in quanto com­bat­tente anti­fran­chi­sta depor­tato nella Ger­ma­nia hitle­riana, poi – rac­con­tava – soprav­vis­suto ai campi nazi­sti e dun­que pre­si­dente per tre anni della grande asso­cia­zione spa­gnola dei soprav­vis­suti, la Ami­cal de Mau­thau­sen. Venne tri­bu­tato di ono­ri­fi­cenze, invi­tato a tenere cen­ti­naia di discorsi, anche in Par­la­mento, richie­sto di migliaia di inter­vi­ste, fin­ché uno sto­rico tanto oscuro quanto osti­nato, Benito Ber­mejo, non sco­prì che era tutto falso: quello che nel libro di Cer­cas sarebbe diven­tato L’impostore (Guanda, tra­du­zione di Bruno Arpaia, pp. 416, euro 20,00) non fu mai depor­tato, men che meno approdò a Flos­sen­bürg dove pre­ten­deva di essere stato inter­nato, e tutta la sua vita fu un enorme abuso, pro­ba­bil­mente per­pe­trato allo scopo di com­pen­sare la man­canza di amore che la madre, una pazza rin­chiusa per tren­ta­cin­que anni nel mani­co­mio dove lo par­torì, non aveva potuto dargli.
Man mano che Cer­cas si adden­trava nella sto­ria di Enric Marco sco­priva in lui «un picaro, un ciar­la­tano sca­te­nato, un imbro­glione unico», sem­pre schie­rato con la mag­gio­ranza, siste­ma­ti­ca­mente pronto a dire di sì, un vorace acca­par­ra­tore di con­sensi, in cerca di sim­pa­tia, onori, visi­bi­lità. La sua gigan­te­sca men­zo­gna era tes­suta di pic­cole verità, e se ebbe tanto ascolto e ne derivò altret­tanto suc­cesso fu gra­zie ad alcune debo­lezze col­let­tive così tipi­che della sini­stra: il pre­sti­gio della vit­tima, l’aura del testi­mone, la con­ver­sione in reto­rica della memo­ria storica.
Javier Cer­cas indu­giò molto a lungo prima di scri­vere que­sto libro: dice di avere avuto paura, per­ché a volte «la realtà uccide e la fin­zione salva».
Rie­pi­lo­ghiamo con lui alcuni temi, prima che sabato pros­simo, al Festi­va­let­te­ra­tura di Man­tova, rac­conti come si è distri­cato in que­sto incre­di­bile intrec­cio di verità e bugie.
Lei aveva costruito il suo romanzo tito­lato «Ana­to­mia di un istante» intorno al gesto di Adolfo Suá­rez che si rifiutò di get­tarsi a terra men­tre i gol­pi­sti spa­ra­vano sul Par­la­mento: un atto di corag­gio che è anche – scrive – un «gesto di gra­zia, di indub­bio valore este­tico». Nell’«Impostore», invece, si è dovuto con­fron­tare con un uomo la cui vita è spro­fon­data nel Kitsch, un bugiardo aspi­rante al ruolo della vit­tima. Sem­bra che lei abbia dovuto vin­cere, tra l’altro, una rilut­tanza di tipo este­tico, quasi avesse avuto paura di venire con­ta­giato, in quanto per­sona e in quanto roman­ziere: come se rac­con­tando la sto­ria di Marco rischiasse di esporsi a un cini­smo con il quale non avrebbe voluto intrat­te­nersi. È così?
Forse. Non c’è etica senza este­tica: il gesto di Suá­rez che dice No è bello per­ché è un gesto di corag­gio; i gesti di Marco che dice Sì sono orri­bili per­ché vili. Lei ha ragione: que­sti due per­so­naggi sono per molti versi oppo­sti (anche se non del tutto: Suá­rez è stato, per gran parte della sua vita, un picaro, come Marco). Comun­que, almeno quando, nel feb­braio del 1981 i gopi­sti spa­ra­rono sull’emiciclo del Par­la­mento, Suá­rez si com­portò da auten­tico eroe, rifiu­tan­dosi di abban­do­nare il suo scranno e di but­tarsi a terra. Marco, per parte sua, è stato un falso eroe per quasi tutta la sua vita. Dico quasi tutta per­ché sta al let­tore deci­dere se, in qual­che momento, abbia con­trad­detto le sue abi­tu­dini. Per il resto, ho l’impressione che il mio atteg­gia­mento verso entrambi i per­so­naggi sia lo stesso: cerco di capirli in tutta la loro com­ples­sità per com­pren­dermi e per com­pren­derci; è quasi super­fluo dire che capire non vuol dire giu­sti­fi­care, sem­mai il contrario.
Trovo molto effi­cace la reto­rica con la quale lei costrui­sce i suoi libri, ripe­tendo anche a distanza di poche pagine, le stesse cose: a volte con le stesse parole, a volte invece cam­bian­dole e aggiun­gendo det­ta­gli, ma sem­pre come se fosse la prima volta che ne parla. È una stra­te­gia nar­ra­tiva che aveva già impie­gato in «Ana­to­mia di un istante», men­tre non com­pare nei romanzi di sola fin­zione. Come ci è arrivato?
Credo che in un certo senso tutti i miei libri – i romanzi come la non-fiction – fun­zio­nino così. Sono un po’ come quelle com­po­si­zioni musi­cali in cui il tema, e per­sino le sin­gole frasi, si ripe­tono più volte, cam­biando via via fino a costruire una rete di signi­fi­cati che dovrebbe impri­gio­nare il let­tore e libe­rarlo allo stesso tempo. La musica che mi piace fun­ziona così: Bach, Mozart, lavo­rano in que­sto modo; ma anche il rock and roll fun­ziona così: sulla base di varia­zioni e ripe­ti­zioni. E natu­ral­mente lo stesso vale per la poe­sia. Come ci sono arri­vato? Non lo so: forse, appunto, attra­verso la poe­sia o la musica. Anche alcuni roman­zieri, tut­ta­via, pro­ce­dono in que­sto modo, per esem­pio Con­rad, e tra i con­tem­po­ra­nei Kun­dera e Tho­mas Bernhard.
A me pare che que­sta stra­te­gia sia sti­li­sti­ca­mente mime­tica dell’intreccio tra verità e fin­zione che è alla base di tutti i suoi libri.
Il fatto è che la fin­zione pura non esi­ste: è una inven­zione di quelli che non sanno cosa sia; d’altronde, se la fin­zione pure esi­stesse, non avrebbe alcun inte­resse: la fin­zione è inte­res­sante per­ché è intrec­ciata alla realtà e se ne ali­menta. Detto que­sto, è ovvio che in qual­siasi scrit­tore mini­ma­mente valido la rela­zione che sta­bi­li­sce tra realtà e fin­zione ha una sua spe­ci­fi­cità, e nel mio caso varia in ogni libro.
Lei ha per­fet­ta­mente ragione quando scrive che il peg­gior nemico della sini­stra è la sini­stra stessa, e quando denun­cia la caduta in un sen­ti­men­ta­li­smo ipo­crita e orna­men­tale; ma non pensa che que­sto sia un feno­meno più ampio, che si accom­pa­gna, per esem­pio, all’addio alla verità che ha con­tras­se­gnato la sta­gione post­mo­derna? Non ci sono fatti, solo inter­pre­ta­zioni, la cele­bre sen­tenza di Nie­tzsche la cui con­se­guenza sarebbe che il mondo vero ha finito per con­ver­tirsi in favola, è quanto Marco porta a giu­sti­fi­ca­zione delle pro­prie bugie. Fin dagli esordi di «Sol­dati di Sala­mina», invece, la sua nar­ra­tiva sem­bra avere molto a cuore la realtà dei fatti. E tut­ta­via, lei torna più volte a scri­vere che la fin­zione salva e la realtà uccide. Come si con­ci­liano que­ste sue convinzioni?
Con­cordo total­mente con il fatto che il Kitsch non è un patri­mo­nio esclu­sivo della sini­stra: se que­sta attira, nel corso del romanzo, le mie cri­ti­che, è per­ché sono un uomo di sini­stra. Il tema della fin­zione che salva di con­tro alla realtà che uccide si ripete lungo tutto il libro, variando di signi­fi­cato. Per un verso è vero che non pos­siamo vivere di sola realtà, e che abbiamo biso­gno della fin­zione per­ché la realtà è non solo insuf­fi­ciente ma bru­tale e non ci offre mai ciò di cui abbiamo biso­gno. «Human kind can­not bear too much rea­lity», dice T.S. Elliot, e ha ragione. Marco ne è un esem­pio per­fetto: si salva inven­tan­dosi un sé eroico, come Alonso Qui­jano si salva inven­tan­dosi un Chi­sciotte tanto eroico quanto pazzo. Per un altro verso, però, si ricordi che alla fine del romanzo Cer­van­tes fa sì che Chi­sciotte muoia savio, lo resti­tui­sce al suo vero sé, pro­prio come io ho cer­cato di ripor­tare Marco alla realtà della sua per­sona, ricon­ci­lian­dolo con la verità della sua vita. Quel che Cer­van­tes dice nel Chi­sciotte tento di dimo­stralo anch’io nell’Impostore: abbiamo biso­gno della fin­zione tanto quanto della realtà. Per il resto, difendo comun­que il post­mo­derno, o almeno alcuni suoi aspetti fon­da­men­tali, inten­dendo qual­cosa che ha la sua ori­gine più remota nel Chi­sciotte e la più vicina in Bor­ges; però sono d’accordo con lei: Nie­tzsche non ha ragione, oltre alle inter­pre­ta­zioni dei fatti esi­stoni i fatti in sé. Quanto a me, non sono già più post­mo­derno, sono post-postmoderno.
Per­ché, stando a quanto ha scritto, un autore dovrebbe aspi­rare alla sconfitta?
Per­ché gli unici libri che vale dav­vero la pena scri­vere sono quelli teo­ri­ca­mente, impos­si­bili. Per que­sto Faul­k­ner diceva che il mas­simo cui dob­biamo aspi­rare noi scrit­tori è una ono­re­vole sconfitta.
A un certo punto Marco le chiede di lasciar­gli qual­cosa a cui aggrap­pare il poco che gli resta della sua iden­tità sma­sche­rata. A me sem­bra che que­sto sia anche il pro­blema del nar­ra­tore: da una parte, la sua empa­tia fa sì che lei si chieda: cosa posso lasciare a Marco per­ché non vada del tutto distrutta quella imma­gine di sé alla quale aveva ade­rito con tutto se stesso? Ma anche: cosa posso lasciare a que­sto per­so­nag­gio affin­ché non sem­bri solo un fan­toc­cio pos­se­duto da una idea? Per­ché con­ti­nui a sem­brare vivo?
Que­sto è un momento chiave del libro. Sapevo fin dall’inizio che non avrei potuto scri­vere un romanzo con­ven­zio­nale, un romanzo di fin­zione, per­ché Marco è di per sé una fin­zione ambu­lante, una giro­va­gante men­zo­gna, e scri­vere una fin­zione sulla fin­zione sarebbe stato ridon­dante, let­te­ra­ria­mente irri­le­vante; ciò che avrei dovuto fare, piut­to­sto, era rac­con­tare la verità di Marco e met­terla in con­flitto con le sue bugie. Cosi, fin dall’inizio dissi a Marco che non inten­devo scri­vere una sua agio­gra­fia, non volevo né ven­di­carlo né ria­bi­li­tarlo, come lui avrebbe desi­de­rato; gli spie­gai che avrei sem­pli­ce­mente cer­cato di rac­con­tare la verità sulla sua vita, tutta la verità. Ma poi, nel momento che lei ha ricor­dato, Marco mi ha fatto pena, mi è dispia­ciuto doverlo spo­gliare dell’involucro di bugie in cui aveva avvolto la sua vita, nel ten­ta­tivo di farsi amare dagli altri e ingan­nan­doli tutti; ma ho anche sen­tito di non poter fare altri­menti, per­ché lo esi­geva il libro, per­ché era il mio dovere. A volte noi scrit­tori ci met­tiamo nei pasticci, è una atti­vità nella quale sono uno spe­cia­li­sta. D’altronde, chi non accetta di met­tersi nei guai non dovrebbe fare lo scrittore.
Per la prima volta lei intro­duce in que­sto romanzo un capi­tolo che è inti­to­lato a una sua teo­ria, già in altre occa­sioni enun­ciata: «il punto cieco». Può rias­su­mere cosa intende con que­sta espressione?
L’anno pros­simo uscirà in Ita­lia un libro, tratto da una con­fe­renza che ho tenuto la pri­ma­vera scorsa a Oxford, in cui lo spie­gherò come meglio posso. L’idea cen­trale può comun­que essere rias­sunta in poche parole: al cuore di tutti i miei romanzi – e della mag­gior parte di quelli che ammiro e che fanno parte della grande tra­di­zione nar­ra­tiva, dal Don Chi­sciotte a Moby Dick al Pro­cesso – c’è sem­pre un punto cieco; vale a dire un punto attra­verso il quale, in teo­ria, non si vede niente. Tut­ta­via, è pre­ci­sa­mente attra­verso que­sto punto cieco che, all’atto pra­tico, il romanzo vede; è attra­verso quel silen­zio che si rende elo­quente, e attra­verso quella oscu­rità che ci illu­mina. Romanzi di que­sto tipo pos­sono venire letti come una ano­mala variante del thril­ler, o addi­rit­tura come degli anti-thriller. Intendo dire che nel loro inci­pit, o nel loro cuore batte una domanda cen­trale, e tutto il romanzo con­si­ste della ricerca di una rispo­sta. Alla fin fine la rispo­sta qual è? È che non c’è altra rispo­sta se non la pro­pria ricerca di una rispo­sta, la domanda in sé, il libro in sé; alla fine della ricerca l’esito non è chiaro, tas­sa­tivo, uni­voco. La rispo­sta è sem­pre ambi­gua, con­trad­dit­to­ria, equi­voca, fon­da­men­tal­mente iro­nica: una rispo­sta che di fatto non è tale, e tut­ta­via è l’unico genere di rispo­sta che può per­met­tersi un romanzo, il cui obbligo non con­si­ste nel far fronte alla domanda che esso stesso si è posto, bensì nel for­mu­larla nel modo più esau­riente pos­si­bile. Natu­ral­mente, è pro­prio la per­sona di Marco il grande punto cieco, il grande inter­ro­ga­tivo dell’Impostore, come la balena lo è di Moby Dick. In con­clu­sione: Marco è il mio Moby Dick.

La vittoria degli impostori nell'era del Grande fratello
Finti sopravvissuti alla Shoah e all'11 settembre, artisti imbroglioni, scrittori «inesistenti». Nella realtà e nella letteratura, è il momento delle false identità
Eleonora Barbieri - il Giornale Mer, 30/09/2015

Elogio di quello che i romanzi non dicono Javier Cercas parte dal “Don Chisciotte” per svelare come la narrazione si fondi sul “punto cieco”: tutte le domande lasciate senza rispostaJAVIER CERCAS Repubblica 27 2 2016
Il mio penultimo romanzo s’intitola “Le leggi della frontiera” e ruota intorno alle vicissitudini di una fittizia banda di delinquenti giovanili sorta alla fine degli anni Settanta in Spagna: la banda dello Zarco. Racconta la storia di un triangolo amoroso che si prolunga per trent’anni, un triangolo formato dallo stesso Zarco (il leader del gruppo), dal Gafitas (un adolescente
di classe media che si unisce alla banda) e infine da Tere (il personaggio che forse incarna tutti i dilemmi morali del libro e ne conserva tutti i segreti). Così, di solito, io descrivo il romanzo; però Carlos Marzal, forse il maggior poeta spagnolo della mia generazione, lo ha descritto come un thriller esistenziale, che non soltanto si pone una domanda quasi poliziesca e cerca di risolverla (chi ha denunciato la banda dello Zarco?), ma che, in quella formulazione e in quel tentativo di risoluzione, implica questioni di ordine esistenziale. La descrizione di Marzal mi sembra esatta, soprattutto se subito dopo si aggiunge che, oltre a essere un thriller esistenziale, Le leggi della frontiera è un antithriller. Perché, contrariamente a quanto di solito accade nei thriller, alla fine la risposta alla domanda che il libro formula è che non c’è risposta; alla fine non sappiamo chi ha denunciato la banda dello Zarco. Al centro stesso del romanzo c’è, perciò, una domanda senza risposta, un enigma irrisolto, un punto cieco, un minuscolo luogo attraverso il quale, in teoria, il lettore non vede nulla; ma la verità, in pratica, è che il significato profondo di tutto il romanzo si trova lì, e che è proprio grazie a quel punto cieco che il romanzo vede, è proprio grazie a quel silenzio che il romanzo è eloquente (o dovrebbe esserlo), è proprio grazie a quell’oscurità che il romanzo illumina (o dovrebbe illuminare).
È questo il paradosso che definisce i romanzi del punto cieco; e anche tutti o quasi tutti i miei romanzi. In qualche momento del loro sviluppo viene formulata una domanda, e il resto del romanzo consiste, in forma più o meno visibile o segreta, in un tentativo di risposta, ma alla fine la risposta è che non c’è risposta. Alla fine di
Anatomia di un istante non sappiamo con esattezza perché il 23 febbraio 1981 Adolfo Suárez, l’architetto della transizione dalla dittatura alla democrazia in Spagna durante gli anni Settanta, rimase immobile al suo posto da primo ministro nella Camera dei Deputati, mentre le pallottole dei golpisti gli fischiavano attorno e tutti o quasi tutti gli altri parlamentari cercavano rifugio sotto i loro scranni; e non lo sappiamo malgrado in un certo senso tutto il libro non sia che un tentativo di scoprirlo.
Allo stesso modo alla fine di Soldati di Salamina non sappiamo con esattezza perché, negli ultimi giorni della guerra civile spagnola, un soldato repubblicano salvò la vita di Rafael Sánchez Mazas mentre il poeta e ideologo fascista cercava di nascondersi in un bosco dopo essere miracolosamente sfuggito a una fucilazione collettiva; e non lo sappiamo benché nel corso di tutto il libro il giornalista che ne è protagonista non faccia altro che cercare di rispondere alla domanda. O, detto in altro modo: in nessuno di quei romanzi viene fornita una risposta chiara, tassativa e inequivocabile al loro interrogativo centrale, bensì soltanto una risposta ambigua, equivoca e contraddittoria, essenzialmente ironica; una risposta che in realtà non è una risposta e che tuttavia è l’unico tipo di risposta che possa permettersi il romanzo, perché il romanzo è il genere delle domande, non quello delle risposte: a rigore, l’obbligo di un romanzo non consiste nel rispondere alla domanda che esso stesso si pone, ma nel formularla con la maggior complessità possibile.
Mi riferisco ai buoni romanzi, è chiaro. O ai buoni romanzi moderni. O ai romanzi moderni che mi piacciono di più. Prendiamo, senza spingerci troppo lontano, il primo romanzo moderno, forse il migliore, in ogni caso quello che contiene in germe tutte le possibilità future del genere e che, proprio per il suo carattere fondativo, ne determina in gran parte l’avvenire. La domanda centrale che Cervantes formula nel Don Chisciotte è trasparente: Don Chisciotte è davvero pazzo?
Almeno di primo acchito, la risposta a questa domanda non è meno trasparente: Don Chisciotte è indubbiamente pazzo. Certo, si può non essere d’accordo sul tipo di follia di cui soffre il nostro cavaliere, e non sono mancati medici che hanno azzardato una diagnosi clinica della sua malattia. E allora? Don Chisciotte è pazzo o no? Non lo sappiamo; o, se si preferisce, Don Chisciotte è pazzo e non è pazzo allo stesso tempo: questa contraddizione, questa ironia, questa ambiguità essenziale, irriducibile, costituisce il punto cieco del Don Chisciotte. Ma è proprio grazie a questo punto cieco che il romanzo di Cervantes dice la cosa più importante che ha da dire.
Ciò che davvero dice Cervantes, grazie al punto cieco del suo capolavoro, è che la realtà — specie la realtà umana, che è quella che davvero gli interessa — è essenzialmente ambigua, ironica e contraddittoria: che Don Chisciotte è pazzo, ma è anche sano di mente; che Don Chisciotte è un personaggio comico e grottesco, ma anche un personaggio ammirevole, un eroe tragico; che tutti gli altri personaggi del libro condividono la duplicità del protagonista e che la condivide perfino il libro stesso: dopo tutto, quest’ultimo è naturalmente un’invettiva contro i libri di cavalleria, come lo stesso Cervantes afferma nel prologo alla prima parte, ma è anche un omaggio ai libri di cavalleria, e il migliore di tutti. Qui si svela la natura essenziale del Don Chisciotte, la sua evidenza più profonda e rivoluzionaria, la sua assoluta genialità, che consiste nell’aver creato un mondo radicalmente ironico.
Questo è il mondo caratteristico del romanzo: non solo quello del Don Chisciotte, ma anche quello del romanzo come genere. Questa tradizione eredita a fondo l’ironica visione del mondo dello scrittore spagnolo, l’antidogmatismo, lo scetticismo e la tolleranza che implica, e perciò risulta altrettanto essenziale o più essenziale dello sviluppo della scienza per il trionfo della modernità; questa tradizione eredita anche, almeno in alcuni casi fondamentali, lo strumento appropriato per collocare l’ironia al centro stesso del romanzo: il punto cieco.

«La follia saggia di Don Chisciotte è il seme del romanzo mondiale» Lo scrittore riflette sulla letteratura citando l’ambiguità di Cervantes E spara a 360˚ su Melville, il golpe spagnolo, Grillo e la strana Europa 29 mar 2016 Libero BARBARA TOMASINO RIPRODUZIONE RISERVATA
Negli occhi abbiamo due punti ciechi attraverso i quali non vediamo niente, questa è l'ipotesi formulata dal fisico francese Edme Mariotte nel XVII secolo. Perché non ce ne accorgiamo?
Perché quello che non vede il sinistro lo vede il destro, e viceversa. Ma anche perché quello che l'occhio non vede, viene ricostruito dal sistema visuale, dal cervello. Questa teoria è alla base dell'ultimo saggio letterario di Javier Cercas, Il punto cieco ( Guanda, pp. 159, euro 17), una riflessione sul romanzo e sul suo funzionamento a partire da un'ambiguità di fondo, da un grande punto oscuro che illumina il romanzo stesso. Cercas, classe ’62, professore universitario di spagnolo è bestsellerista europeo con L’impostore, Il nuovo inquilino, La verità di Agamennone.
Lei aveva anticipato questo tema ne L'impostore. In che modo definisce la natura di un romanzo? «C'è una tradizione di grandi romanzi che lavorano in questo modo: contengono una domanda centrale e il romanzo stesso è la ricerca di una risposta a questa domanda. Ma a differenza ad esempio di un giallo, in cui alla domanda alla fine viene data una risposta precisa, in questi casi non c'è una risposta chiara, tassativa, inequivocabile, ma piuttosto una soluzione ambigua, contraddittoria, poliedrica che dipende dal lettore, il vero protagonista del libro». Ci può fare degli esempi? «Per me tutto comincia con il primo grande romanzo moderno della storia, quello che crea le regole essenziali, il Don Chisciotte di Cervantes. La domanda alla base è molto semplice: Chisciotte è pazzo? Ovviamente è completamente pazzo, lo sappiamo bene, ma al contempo è l'uomo più saggio del mondo…questa ambiguità centrale è il grande punto cieco del romanzo di Cervantes. Ha costruito un personaggio che è ridicolo, comico, ma allo stesso tempo eroico, tragico».
Nel suo libro cita anche il Moby Dick di Melville… «La domanda è chiara: perché il capitano Achab è così tremendamente ossessionato dalla grande balena bianca? Cosa rappresenta per lui? È il bene o il male? È Dio o il diavolo? E' tutto, questa è l'ambiguità centrale del romanzo, e attraverso questa oscurità che Melville conduce la sua riflessione sul bene e sul male. Un altro esempio calzante è Kafka: nel Processo ci sono tante domande che restano senza risposta ed è attraverso questo "silenzio" che il libro parla».
Quindi i suoi lavori funzionano allo stesso modo? «Sì, anch'io costruisco i miei romanzi secondo un punto cieco centrale che tanto più è oscuro, tanto più illumina il racconto. In Anatomia di un istante, ad esempio, la domanda centrale è: perché durante il tentato golpe del 1981 il primo ministro Adolfo Suàrez è rimasto fermo, seduto sulla sua sedia, sfidando le pallottole dei militari? Stiamo parlando di un uomo che era stato organico al regime franchista e che ora rischiava la morte per difendere la giovane e debole democrazia spagnola. Non c'è una risposta univoca a questa domanda, solo ipotesi».
Tuttavia, nei suoi libri c'è spesso un'analisi politica della società vista attraverso la lente della storia. Parliamo di oggi: la Spagna è parte del Mediterraneo, ma non è una rotta per i migranti. Questo perché riesce a difendere con efficacia i propri confini? «Il problema dei flussi migratori non è una questione “locale”, è un problema europeo e la risposta deve essere europea. Il modello secondo me può essere ancora una volta il romanzo, una delle grandi creazioni del Vecchio Continente: un genere che prende tutto, fagocita ogni cosa, eppure resta sempre romanzo, e questo divorare tutto non lo indebolisce, anzi lo rafforza. La stessa cosa può accadere alla nostra cultura con il problema dei rifugiati, i nostri valori vanno difesi perché l'Europa è portatrice di grande civiltà, ma le culture diverse vanno assorbite e viste come un arricchimento, non un pericolo. La libertà, la democrazia, la laicità, sono i nostri punti di forza che ci devono consentire, prima di tutto moralmente, di accogliere chi scappa dalla guerra. L'idea della “purezza” dell'Europa coincide con la sua morte».
Ci sono in Spagna spinte nazionaliste come nel resto d'Europa? «Sì, infatti è un problema europeo, da quando è iniziata la crisi la domanda è sempre la stessa…crediamo in questa grande utopia che è l'Europa unita o ognuno se ne va per la sua strada? Populismo e nazionalismo finiscono per coincidere, è quello che sta succedendo in Germania, in Francia con Le Pen, ma anche in Italia con Grillo. Sono facce diverse, ma la questione non cambia: non crediamo all'Europa, crediamo solo in noi stessi. Il nazionalismo è il cancro del Vecchio Continente ed ha scatenato due guerre mondiali, non dimentichiamolo. Purtroppo ogni giorno si crede sempre meno nell'utopia comunitaria, basta considerare quello che succede in Inghilterra… eppure l'Europa senza la Gran Bretagna è semplicemente impensabile».

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