Zelig e Gurdulù
Il punto cieco di Javier Cercas
Man mano che Cercas si addentrava nella storia di Enric Marco scopriva in lui «un picaro, un ciarlatano scatenato, un imbroglione unico», sempre schierato con la maggioranza, sistematicamente pronto a dire di sì, un vorace accaparratore di consensi, in cerca di simpatia, onori, visibilità. La sua gigantesca menzogna era tessuta di piccole verità, e se ebbe tanto ascolto e ne derivò altrettanto successo fu grazie ad alcune debolezze collettive così tipiche della sinistra: il prestigio della vittima, l’aura del testimone, la conversione in retorica della memoria storica.
Javier Cercas indugiò molto a lungo prima di scrivere questo libro: dice di avere avuto paura, perché a volte «la realtà uccide e la finzione salva».
Riepiloghiamo con lui alcuni temi, prima che sabato prossimo, al Festivaletteratura di Mantova, racconti come si è districato in questo incredibile intreccio di verità e bugie.
Lei aveva costruito il suo romanzo titolato «Anatomia di un istante» intorno al gesto di Adolfo Suárez che si rifiutò di gettarsi a terra mentre i golpisti sparavano sul Parlamento: un atto di coraggio che è anche – scrive – un «gesto di grazia, di indubbio valore estetico». Nell’«Impostore», invece, si è dovuto confrontare con un uomo la cui vita è sprofondata nel Kitsch, un bugiardo aspirante al ruolo della vittima. Sembra che lei abbia dovuto vincere, tra l’altro, una riluttanza di tipo estetico, quasi avesse avuto paura di venire contagiato, in quanto persona e in quanto romanziere: come se raccontando la storia di Marco rischiasse di esporsi a un cinismo con il quale non avrebbe voluto intrattenersi. È così?
Forse. Non c’è etica senza estetica: il gesto di Suárez che dice No è bello perché è un gesto di coraggio; i gesti di Marco che dice Sì sono orribili perché vili. Lei ha ragione: questi due personaggi sono per molti versi opposti (anche se non del tutto: Suárez è stato, per gran parte della sua vita, un picaro, come Marco). Comunque, almeno quando, nel febbraio del 1981 i gopisti spararono sull’emiciclo del Parlamento, Suárez si comportò da autentico eroe, rifiutandosi di abbandonare il suo scranno e di buttarsi a terra. Marco, per parte sua, è stato un falso eroe per quasi tutta la sua vita. Dico quasi tutta perché sta al lettore decidere se, in qualche momento, abbia contraddetto le sue abitudini. Per il resto, ho l’impressione che il mio atteggiamento verso entrambi i personaggi sia lo stesso: cerco di capirli in tutta la loro complessità per comprendermi e per comprenderci; è quasi superfluo dire che capire non vuol dire giustificare, semmai il contrario.
Trovo molto efficace la retorica con la quale lei costruisce i suoi libri, ripetendo anche a distanza di poche pagine, le stesse cose: a volte con le stesse parole, a volte invece cambiandole e aggiungendo dettagli, ma sempre come se fosse la prima volta che ne parla. È una strategia narrativa che aveva già impiegato in «Anatomia di un istante», mentre non compare nei romanzi di sola finzione. Come ci è arrivato?
Credo che in un certo senso tutti i miei libri – i romanzi come la non-fiction – funzionino così. Sono un po’ come quelle composizioni musicali in cui il tema, e persino le singole frasi, si ripetono più volte, cambiando via via fino a costruire una rete di significati che dovrebbe imprigionare il lettore e liberarlo allo stesso tempo. La musica che mi piace funziona così: Bach, Mozart, lavorano in questo modo; ma anche il rock and roll funziona così: sulla base di variazioni e ripetizioni. E naturalmente lo stesso vale per la poesia. Come ci sono arrivato? Non lo so: forse, appunto, attraverso la poesia o la musica. Anche alcuni romanzieri, tuttavia, procedono in questo modo, per esempio Conrad, e tra i contemporanei Kundera e Thomas Bernhard.
A me pare che questa strategia sia stilisticamente mimetica dell’intreccio tra verità e finzione che è alla base di tutti i suoi libri.
Il fatto è che la finzione pura non esiste: è una invenzione di quelli che non sanno cosa sia; d’altronde, se la finzione pure esistesse, non avrebbe alcun interesse: la finzione è interessante perché è intrecciata alla realtà e se ne alimenta. Detto questo, è ovvio che in qualsiasi scrittore minimamente valido la relazione che stabilisce tra realtà e finzione ha una sua specificità, e nel mio caso varia in ogni libro.
Lei ha perfettamente ragione quando scrive che il peggior nemico della sinistra è la sinistra stessa, e quando denuncia la caduta in un sentimentalismo ipocrita e ornamentale; ma non pensa che questo sia un fenomeno più ampio, che si accompagna, per esempio, all’addio alla verità che ha contrassegnato la stagione postmoderna? Non ci sono fatti, solo interpretazioni, la celebre sentenza di Nietzsche la cui conseguenza sarebbe che il mondo vero ha finito per convertirsi in favola, è quanto Marco porta a giustificazione delle proprie bugie. Fin dagli esordi di «Soldati di Salamina», invece, la sua narrativa sembra avere molto a cuore la realtà dei fatti. E tuttavia, lei torna più volte a scrivere che la finzione salva e la realtà uccide. Come si conciliano queste sue convinzioni?
Concordo totalmente con il fatto che il Kitsch non è un patrimonio esclusivo della sinistra: se questa attira, nel corso del romanzo, le mie critiche, è perché sono un uomo di sinistra. Il tema della finzione che salva di contro alla realtà che uccide si ripete lungo tutto il libro, variando di significato. Per un verso è vero che non possiamo vivere di sola realtà, e che abbiamo bisogno della finzione perché la realtà è non solo insufficiente ma brutale e non ci offre mai ciò di cui abbiamo bisogno. «Human kind cannot bear too much reality», dice T.S. Elliot, e ha ragione. Marco ne è un esempio perfetto: si salva inventandosi un sé eroico, come Alonso Quijano si salva inventandosi un Chisciotte tanto eroico quanto pazzo. Per un altro verso, però, si ricordi che alla fine del romanzo Cervantes fa sì che Chisciotte muoia savio, lo restituisce al suo vero sé, proprio come io ho cercato di riportare Marco alla realtà della sua persona, riconciliandolo con la verità della sua vita. Quel che Cervantes dice nel Chisciotte tento di dimostralo anch’io nell’Impostore: abbiamo bisogno della finzione tanto quanto della realtà. Per il resto, difendo comunque il postmoderno, o almeno alcuni suoi aspetti fondamentali, intendendo qualcosa che ha la sua origine più remota nel Chisciotte e la più vicina in Borges; però sono d’accordo con lei: Nietzsche non ha ragione, oltre alle interpretazioni dei fatti esistoni i fatti in sé. Quanto a me, non sono già più postmoderno, sono post-postmoderno.
Perché, stando a quanto ha scritto, un autore dovrebbe aspirare alla sconfitta?
Perché gli unici libri che vale davvero la pena scrivere sono quelli teoricamente, impossibili. Per questo Faulkner diceva che il massimo cui dobbiamo aspirare noi scrittori è una onorevole sconfitta.
A un certo punto Marco le chiede di lasciargli qualcosa a cui aggrappare il poco che gli resta della sua identità smascherata. A me sembra che questo sia anche il problema del narratore: da una parte, la sua empatia fa sì che lei si chieda: cosa posso lasciare a Marco perché non vada del tutto distrutta quella immagine di sé alla quale aveva aderito con tutto se stesso? Ma anche: cosa posso lasciare a questo personaggio affinché non sembri solo un fantoccio posseduto da una idea? Perché continui a sembrare vivo?
Questo è un momento chiave del libro. Sapevo fin dall’inizio che non avrei potuto scrivere un romanzo convenzionale, un romanzo di finzione, perché Marco è di per sé una finzione ambulante, una girovagante menzogna, e scrivere una finzione sulla finzione sarebbe stato ridondante, letterariamente irrilevante; ciò che avrei dovuto fare, piuttosto, era raccontare la verità di Marco e metterla in conflitto con le sue bugie. Cosi, fin dall’inizio dissi a Marco che non intendevo scrivere una sua agiografia, non volevo né vendicarlo né riabilitarlo, come lui avrebbe desiderato; gli spiegai che avrei semplicemente cercato di raccontare la verità sulla sua vita, tutta la verità. Ma poi, nel momento che lei ha ricordato, Marco mi ha fatto pena, mi è dispiaciuto doverlo spogliare dell’involucro di bugie in cui aveva avvolto la sua vita, nel tentativo di farsi amare dagli altri e ingannandoli tutti; ma ho anche sentito di non poter fare altrimenti, perché lo esigeva il libro, perché era il mio dovere. A volte noi scrittori ci mettiamo nei pasticci, è una attività nella quale sono uno specialista. D’altronde, chi non accetta di mettersi nei guai non dovrebbe fare lo scrittore.
Per la prima volta lei introduce in questo romanzo un capitolo che è intitolato a una sua teoria, già in altre occasioni enunciata: «il punto cieco». Può riassumere cosa intende con questa espressione?
L’anno prossimo uscirà in Italia un libro, tratto da una conferenza che ho tenuto la primavera scorsa a Oxford, in cui lo spiegherò come meglio posso. L’idea centrale può comunque essere riassunta in poche parole: al cuore di tutti i miei romanzi – e della maggior parte di quelli che ammiro e che fanno parte della grande tradizione narrativa, dal Don Chisciotte a Moby Dick al Processo – c’è sempre un punto cieco; vale a dire un punto attraverso il quale, in teoria, non si vede niente. Tuttavia, è precisamente attraverso questo punto cieco che, all’atto pratico, il romanzo vede; è attraverso quel silenzio che si rende eloquente, e attraverso quella oscurità che ci illumina. Romanzi di questo tipo possono venire letti come una anomala variante del thriller, o addirittura come degli anti-thriller. Intendo dire che nel loro incipit, o nel loro cuore batte una domanda centrale, e tutto il romanzo consiste della ricerca di una risposta. Alla fin fine la risposta qual è? È che non c’è altra risposta se non la propria ricerca di una risposta, la domanda in sé, il libro in sé; alla fine della ricerca l’esito non è chiaro, tassativo, univoco. La risposta è sempre ambigua, contraddittoria, equivoca, fondamentalmente ironica: una risposta che di fatto non è tale, e tuttavia è l’unico genere di risposta che può permettersi un romanzo, il cui obbligo non consiste nel far fronte alla domanda che esso stesso si è posto, bensì nel formularla nel modo più esauriente possibile. Naturalmente, è proprio la persona di Marco il grande punto cieco, il grande interrogativo dell’Impostore, come la balena lo è di Moby Dick. In conclusione: Marco è il mio Moby Dick.
La vittoria degli impostori nell'era del Grande fratello
Finti sopravvissuti alla Shoah e all'11 settembre, artisti imbroglioni, scrittori «inesistenti». Nella realtà e nella letteratura, è il momento delle false identità
- il Giornale Mer, 30/09/2015
Elogio di quello che i romanzi non dicono Javier Cercas parte dal “Don Chisciotte” per svelare come la narrazione si fondi sul “punto cieco”: tutte le domande lasciate senza rispostaJAVIER CERCAS Repubblica 27 2 2016
Il mio penultimo romanzo s’intitola “Le leggi della frontiera” e ruota intorno alle vicissitudini di una fittizia banda di delinquenti giovanili sorta alla fine degli anni Settanta in Spagna: la banda dello Zarco. Racconta la storia di un triangolo amoroso che si prolunga per trent’anni, un triangolo formato dallo stesso Zarco (il leader del gruppo), dal Gafitas (un adolescente
di classe media che si unisce alla banda) e infine da Tere (il personaggio che forse incarna tutti i dilemmi morali del libro e ne conserva tutti i segreti). Così, di solito, io descrivo il romanzo; però Carlos Marzal, forse il maggior poeta spagnolo della mia generazione, lo ha descritto come un thriller esistenziale, che non soltanto si pone una domanda quasi poliziesca e cerca di risolverla (chi ha denunciato la banda dello Zarco?), ma che, in quella formulazione e in quel tentativo di risoluzione, implica questioni di ordine esistenziale. La descrizione di Marzal mi sembra esatta, soprattutto se subito dopo si aggiunge che, oltre a essere un thriller esistenziale, Le leggi della frontiera è un antithriller. Perché, contrariamente a quanto di solito accade nei thriller, alla fine la risposta alla domanda che il libro formula è che non c’è risposta; alla fine non sappiamo chi ha denunciato la banda dello Zarco. Al centro stesso del romanzo c’è, perciò, una domanda senza risposta, un enigma irrisolto, un punto cieco, un minuscolo luogo attraverso il quale, in teoria, il lettore non vede nulla; ma la verità, in pratica, è che il significato profondo di tutto il romanzo si trova lì, e che è proprio grazie a quel punto cieco che il romanzo vede, è proprio grazie a quel silenzio che il romanzo è eloquente (o dovrebbe esserlo), è proprio grazie a quell’oscurità che il romanzo illumina (o dovrebbe illuminare).
È questo il paradosso che definisce i romanzi del punto cieco; e anche tutti o quasi tutti i miei romanzi. In qualche momento del loro sviluppo viene formulata una domanda, e il resto del romanzo consiste, in forma più o meno visibile o segreta, in un tentativo di risposta, ma alla fine la risposta è che non c’è risposta. Alla fine di
Anatomia di un istante non sappiamo con esattezza perché il 23 febbraio 1981 Adolfo Suárez, l’architetto della transizione dalla dittatura alla democrazia in Spagna durante gli anni Settanta, rimase immobile al suo posto da primo ministro nella Camera dei Deputati, mentre le pallottole dei golpisti gli fischiavano attorno e tutti o quasi tutti gli altri parlamentari cercavano rifugio sotto i loro scranni; e non lo sappiamo malgrado in un certo senso tutto il libro non sia che un tentativo di scoprirlo.
Allo stesso modo alla fine di Soldati di Salamina non sappiamo con esattezza perché, negli ultimi giorni della guerra civile spagnola, un soldato repubblicano salvò la vita di Rafael Sánchez Mazas mentre il poeta e ideologo fascista cercava di nascondersi in un bosco dopo essere miracolosamente sfuggito a una fucilazione collettiva; e non lo sappiamo benché nel corso di tutto il libro il giornalista che ne è protagonista non faccia altro che cercare di rispondere alla domanda. O, detto in altro modo: in nessuno di quei romanzi viene fornita una risposta chiara, tassativa e inequivocabile al loro interrogativo centrale, bensì soltanto una risposta ambigua, equivoca e contraddittoria, essenzialmente ironica; una risposta che in realtà non è una risposta e che tuttavia è l’unico tipo di risposta che possa permettersi il romanzo, perché il romanzo è il genere delle domande, non quello delle risposte: a rigore, l’obbligo di un romanzo non consiste nel rispondere alla domanda che esso stesso si pone, ma nel formularla con la maggior complessità possibile.
Mi riferisco ai buoni romanzi, è chiaro. O ai buoni romanzi moderni. O ai romanzi moderni che mi piacciono di più. Prendiamo, senza spingerci troppo lontano, il primo romanzo moderno, forse il migliore, in ogni caso quello che contiene in germe tutte le possibilità future del genere e che, proprio per il suo carattere fondativo, ne determina in gran parte l’avvenire. La domanda centrale che Cervantes formula nel Don Chisciotte è trasparente: Don Chisciotte è davvero pazzo?
Almeno di primo acchito, la risposta a questa domanda non è meno trasparente: Don Chisciotte è indubbiamente pazzo. Certo, si può non essere d’accordo sul tipo di follia di cui soffre il nostro cavaliere, e non sono mancati medici che hanno azzardato una diagnosi clinica della sua malattia. E allora? Don Chisciotte è pazzo o no? Non lo sappiamo; o, se si preferisce, Don Chisciotte è pazzo e non è pazzo allo stesso tempo: questa contraddizione, questa ironia, questa ambiguità essenziale, irriducibile, costituisce il punto cieco del Don Chisciotte. Ma è proprio grazie a questo punto cieco che il romanzo di Cervantes dice la cosa più importante che ha da dire.
Ciò che davvero dice Cervantes, grazie al punto cieco del suo capolavoro, è che la realtà — specie la realtà umana, che è quella che davvero gli interessa — è essenzialmente ambigua, ironica e contraddittoria: che Don Chisciotte è pazzo, ma è anche sano di mente; che Don Chisciotte è un personaggio comico e grottesco, ma anche un personaggio ammirevole, un eroe tragico; che tutti gli altri personaggi del libro condividono la duplicità del protagonista e che la condivide perfino il libro stesso: dopo tutto, quest’ultimo è naturalmente un’invettiva contro i libri di cavalleria, come lo stesso Cervantes afferma nel prologo alla prima parte, ma è anche un omaggio ai libri di cavalleria, e il migliore di tutti. Qui si svela la natura essenziale del Don Chisciotte, la sua evidenza più profonda e rivoluzionaria, la sua assoluta genialità, che consiste nell’aver creato un mondo radicalmente ironico.
Questo è il mondo caratteristico del romanzo: non solo quello del Don Chisciotte, ma anche quello del romanzo come genere. Questa tradizione eredita a fondo l’ironica visione del mondo dello scrittore spagnolo, l’antidogmatismo, lo scetticismo e la tolleranza che implica, e perciò risulta altrettanto essenziale o più essenziale dello sviluppo della scienza per il trionfo della modernità; questa tradizione eredita anche, almeno in alcuni casi fondamentali, lo strumento appropriato per collocare l’ironia al centro stesso del romanzo: il punto cieco.
«La follia saggia di Don Chisciotte è il seme del romanzo mondiale» Lo scrittore riflette sulla letteratura citando l’ambiguità di Cervantes E spara a 360˚ su Melville, il golpe spagnolo, Grillo e la strana Europa 29 mar 2016 Libero BARBARA TOMASINO RIPRODUZIONE RISERVATA
Negli occhi abbiamo due punti ciechi attraverso i quali non vediamo niente, questa è l'ipotesi formulata dal fisico francese Edme Mariotte nel XVII secolo. Perché non ce ne accorgiamo?
Perché quello che non vede il sinistro lo vede il destro, e viceversa. Ma anche perché quello che l'occhio non vede, viene ricostruito dal sistema visuale, dal cervello. Questa teoria è alla base dell'ultimo saggio letterario di Javier Cercas, Il punto cieco ( Guanda, pp. 159, euro 17), una riflessione sul romanzo e sul suo funzionamento a partire da un'ambiguità di fondo, da un grande punto oscuro che illumina il romanzo stesso. Cercas, classe ’62, professore universitario di spagnolo è bestsellerista europeo con L’impostore, Il nuovo inquilino, La verità di Agamennone.
Lei aveva anticipato questo tema ne L'impostore. In che modo definisce la natura di un romanzo? «C'è una tradizione di grandi romanzi che lavorano in questo modo: contengono una domanda centrale e il romanzo stesso è la ricerca di una risposta a questa domanda. Ma a differenza ad esempio di un giallo, in cui alla domanda alla fine viene data una risposta precisa, in questi casi non c'è una risposta chiara, tassativa, inequivocabile, ma piuttosto una soluzione ambigua, contraddittoria, poliedrica che dipende dal lettore, il vero protagonista del libro». Ci può fare degli esempi? «Per me tutto comincia con il primo grande romanzo moderno della storia, quello che crea le regole essenziali, il Don Chisciotte di Cervantes. La domanda alla base è molto semplice: Chisciotte è pazzo? Ovviamente è completamente pazzo, lo sappiamo bene, ma al contempo è l'uomo più saggio del mondo…questa ambiguità centrale è il grande punto cieco del romanzo di Cervantes. Ha costruito un personaggio che è ridicolo, comico, ma allo stesso tempo eroico, tragico».
Nel suo libro cita anche il Moby Dick di Melville… «La domanda è chiara: perché il capitano Achab è così tremendamente ossessionato dalla grande balena bianca? Cosa rappresenta per lui? È il bene o il male? È Dio o il diavolo? E' tutto, questa è l'ambiguità centrale del romanzo, e attraverso questa oscurità che Melville conduce la sua riflessione sul bene e sul male. Un altro esempio calzante è Kafka: nel Processo ci sono tante domande che restano senza risposta ed è attraverso questo "silenzio" che il libro parla».
Quindi i suoi lavori funzionano allo stesso modo? «Sì, anch'io costruisco i miei romanzi secondo un punto cieco centrale che tanto più è oscuro, tanto più illumina il racconto. In Anatomia di un istante, ad esempio, la domanda centrale è: perché durante il tentato golpe del 1981 il primo ministro Adolfo Suàrez è rimasto fermo, seduto sulla sua sedia, sfidando le pallottole dei militari? Stiamo parlando di un uomo che era stato organico al regime franchista e che ora rischiava la morte per difendere la giovane e debole democrazia spagnola. Non c'è una risposta univoca a questa domanda, solo ipotesi».
Tuttavia, nei suoi libri c'è spesso un'analisi politica della società vista attraverso la lente della storia. Parliamo di oggi: la Spagna è parte del Mediterraneo, ma non è una rotta per i migranti. Questo perché riesce a difendere con efficacia i propri confini? «Il problema dei flussi migratori non è una questione “locale”, è un problema europeo e la risposta deve essere europea. Il modello secondo me può essere ancora una volta il romanzo, una delle grandi creazioni del Vecchio Continente: un genere che prende tutto, fagocita ogni cosa, eppure resta sempre romanzo, e questo divorare tutto non lo indebolisce, anzi lo rafforza. La stessa cosa può accadere alla nostra cultura con il problema dei rifugiati, i nostri valori vanno difesi perché l'Europa è portatrice di grande civiltà, ma le culture diverse vanno assorbite e viste come un arricchimento, non un pericolo. La libertà, la democrazia, la laicità, sono i nostri punti di forza che ci devono consentire, prima di tutto moralmente, di accogliere chi scappa dalla guerra. L'idea della “purezza” dell'Europa coincide con la sua morte».
Ci sono in Spagna spinte nazionaliste come nel resto d'Europa? «Sì, infatti è un problema europeo, da quando è iniziata la crisi la domanda è sempre la stessa…crediamo in questa grande utopia che è l'Europa unita o ognuno se ne va per la sua strada? Populismo e nazionalismo finiscono per coincidere, è quello che sta succedendo in Germania, in Francia con Le Pen, ma anche in Italia con Grillo. Sono facce diverse, ma la questione non cambia: non crediamo all'Europa, crediamo solo in noi stessi. Il nazionalismo è il cancro del Vecchio Continente ed ha scatenato due guerre mondiali, non dimentichiamolo. Purtroppo ogni giorno si crede sempre meno nell'utopia comunitaria, basta considerare quello che succede in Inghilterra… eppure l'Europa senza la Gran Bretagna è semplicemente impensabile».
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