Charles Seife:
Le menzogne del web, Bollati Boringhieri
Risvolto
La tanto decantata «democrazia digitale» si situa appena un passo prima della dittatura degli stupidi e dei creduloni. Serve un antidoto, ed è con questo libro che Charles Seife ci viene in soccorso. Non è che prima di internet gli uomini non mentissero, anzi, però internet ha dato ai mentitori uno strumento fantastico e potente per esercitare liberamente la loro paziente opera distruttiva.
Sia chiaro: internet è uno strumento straordinario. Grazie al Web oggi siamo in grado di fare cose che fino a pochi anni fa sembravano semplicemente impensabili. Ma, nel bene e nel male, internet è anche una gigantesca cassa di risonanza, nuova di zecca e potenzialmente devastante, che può essere facilmente usata dai malintenzionati. E loro la usano, eccome!
Oggi è più che mai necessario capire come può essere usata l’informazione digitale: riconoscendo i segni delle manipolazioni della Rete si può capire come (e perché) la gente sfrutti le proprietà di questo strumento per cercare di alterare la nostra percezione della realtà. Benvenga allora questa guida per gli scettici, un manuale per chi desidera comprendere con chiarezza in che modo la sfera digitale stia influenzando tutti noi. Viviamo in un mondo dove il reale e il virtuale non possono più essere del tutto separati, tanto che a volte c’è ben poca differenza tra ciò che è reale e ciò che non lo è. Ma non è un gioco indolore: questa «irrealtà virtuale» ha conseguenze che possono essere alquanto spiacevoli.
Con una prosa incalzante, ricca dei più strani esempi della manipolazione che si incontra online, Seife riesce a farci ridere di gusto delle «bufale» più clamorose, anche se – in questo caso – ridere può rivelarsi il miglior antidoto a nostra disposizione per non essere abbindolati e per difendere internet dal lato sbagliato dell’informazione.
l'autore
Charles Seife, laureato in matematica alla Yale University, insegna Giornalismo alla New York University. È corrispondente della rivista «New Scientist» e collabora con il «New York Times», «Wired», «The Economist», «New Scientist», «Science» e «Scientific American». Presso Bollati Boringhieri sono apparsi Zero. La storia di un’idea pericolosa (2002, in edizione tascabile 2013), Alfa e Omega. La ricerca dell’inizio e la fine dell’universo (2005, in edizione tascabile 2015) e La scoperta dell’universo. I misteri del cosmo alla luce della teoria dell’informazione (2011).
Il potere illusorio della folla
Codici Aperti. «Le menzogne del web» di Charles Seife per Bollati Boringhieri . Diffusione di notizie false, furti di identità, insulti come pratica diffusa. La critica alla Rete con il rimpiano dell’autorità perduta del giornalismo
Benedetto Vecchi il Manifesto 12.9.2015
C’era un tempo in cui le informazioni, una volta assemblate e elaborate, erano spacciate come veritiere. I certificatori che garantivano la loro esattezza erano inseriti in un dispositivo che prevedeva una verifica della loro fondatezza e la conseguente possibilità di una revisione. I giornalisti le producevano in base a un decalogo di regole che avevano, nelle gerarchie esistenti nei media, un fattore di controllo. La catena gerarchica era composta da caporedattori, direttori e financo l’editore poteva intervenire per modificare quanto scritto o filmato. Nei manuali di storia del giornalismo sono stati spesi fiumi di inchiostro sugli strumenti di autogoverno dei media e sull’esistenza di leggi che garantivano il pubblico attraverso un sistema di norme e sanzioni – le querele per diffamazione, la richiesta di rettifica, l’indennizzo -: fattori, tutti, finalizzati alla correttezza e alla veridicità dell’informazione stampata, trasmessa in tv o per radio. Anche la tensione tra verità e veridicità svolgeva un ruolo non indifferente per garantire l’informazione da manipolazioni, esplicitando così il dubbio sull’oggettività e neutralità della informazione diffusa. L’autogoverno dei media garantiva inoltre l’esercizio del controllo sui poteri vigenti nelle società.
L’ospite inatteso
Questa fabula, per quanto contestata e criticata, ha legittimato i media quali strumenti indispensabili nella produzione dell’opinione pubblica. Con la Rete, tutto ciò è andato in frantumi. Ogni uomo e donna possessore di un computer connesso al web diventava potenzialmente un produttore di informazione. L’autorità dei giornalisti ne è risultata ridimensionata, tanto più se in Rete giornali, tv e radio potevano essere messi in discussione e contestati. Il web poteva diventare il medium che esercitava il controllo sui cinque poteri vigenti, compresa la critica ai media mainstream. Anche in questo caso, un’altra favola si è imposta nella discussione pubblica: il «potere della folla» garantiva forme di correzione e modifica in tempo reale dell’informazione prodotta on-line.
Il potere autoregolativo della folla si è però rivelato fallace. Molti i casi di informazioni inventate e false diffuse; tantissimi gli episodi di imprese e governi nazionali che hanno assoldato «mercenari» per compilare voci parziali per Wikipedia, l’esempio più noto del potere della folla in Rete. Impossibile tenere il conto dei furti e delle false identità che caratterizzano il flusso informativo on-line. Ricorrenti sono gli insulti e le notizie false su questo o quel personaggio pubblico e talvolta famoso. Rispetto al «lato oscuro» del cyberspazio va ripristinata una forma di autorità che certifichi la correttezza delle informazioni. Ne è convinto Charles Seife, autore del volume Le menzogne del web pubblicato da Bollati Boringhieri (pp. 239, euro 22).
Seife ha una formazione scientifica – è laureato in matematica -, ma ha scelto come professione il giornalismo, arrivando a insegnare giornalismo alla New York University. Nel suo lavoro di redattore e divulgatore scientifico si è misurato con la tendenza a spettacolarizzare l’informazione scientifica, intervenendo spesso contro l’enfasi data ad alcune notizie riguardanti ricerche scientifiche che di rivoluzionario poco avevano, anche se erano spacciate come risolutive per la cura di questa o quella patologia; o come un sovvertimento radicale delle conoscenze finora acquisite in biologia, fisica, chimica.
Il punto di forza delle sue argomentazioni è sempre stato la necessità di riaffermazione delle capacità autoregolative della professione giornalistica come condizione per le necessarie verifiche delle notizie diffuse. Dunque controllo sulle fonti, esercizio del dubbio, messa a confronto di punti di vista e interpretazioni divergenti. È dunque espressione di quella «cultura» giornalistica che nel mondo anglosassone vede nei media gli strumenti di una informazione oggettiva della realtà. Comprensibile, dunque, la sua diffidenza nei confronti del flusso disordinato e caotico di informazioni e contenuti della Rete.
In questo libro affronta alcuni temi «forti» della network culture statunitense. Il potere della folla, in primo luogo. Seife non disconosce le possibilità di una «democratizzazione» dei media derivante dal passaggio del pubblico da essere consumatore passivo a produttore attivo di informazione. Anzi, ritiene questa chance come un segnale di vitalità del mondo dei media. Ciò che propone tuttavia è il ripristino dell’intermediazione – il giornalista — tra la realtà e la sua rappresentazione mediatica. I casi che cita di menzogne e falsità veicolati della Rete sono noti. Così come note sono le operazioni compiute dalle imprese per ricostruire un’immagine immacolata dei loro prodotti, politiche aziendali o per veicolare informazioni dannose su un concorrente. Non mancano nei suoi cahiers de doléances le false recensioni pubblicate su Amazon scritte dagli stessi autori di libri. L’analisi di Seife diventa prudente quando si tratta di analizzare i tentativi di controllo e di disinformazione compiuti da questo e quel governo. E poco dice dell’uso della rete, in una commistione tra giornalismo d’inchiesta e mediattivismo, da parte di Wikileaks o di Edward Snowden per denunciare l’intreccio tra corporation globali e governi locali per affari illeciti, sui tentativi di depistaggio compiuti dall’esercito Usa per coprire l’uccisione di civili da parte di soldati statunitensi in zone di guerra; o sulle corrispondenze tra ambasciate e dipartimento degli esteri .
Un sistema integrato
Il problema non è la sottolineatura delle menzogne veicolate dalla Rete, elemento d’altronde presente anche nei «vecchi media», ma di come Internet abbia riconfigurato l’insieme del sistema informativo. Più che un elemento distinto da televisione, carta stampata e radio, Internet è divenuta un media complementare ad essi. L’esempio più calzante è Twitter, dove un numero sterminato di cinguettii sono dedicati al commento, alla segnalazione di quanto trasmette il tubo catodico, l’etere o quanto viene pubblicato dai quotidiani. Più che un «metamedia», come talvolta è stato sostenuto, Twitter è interfaccia, canale di comunicazione, piattaforma digitale che mette in stretta relazione il caos informativo della Rete e i media mainstream. Non è cosa ignota il fatto che i giornalisti scrivano, discutano tra di loro, mentre gli utenti del web intervengono, commentano, criticano. È questa complementarietà tra Rete e «vecchi media» che riconfigura i termini della discussione sulle verità o le menzogne diffuse attraverso Internet. Ciò che rimane sullo sfondo del volume di Charles Seife è «il modo di produzione» dell’opinione pubblica. Dunque della democrazia nelle società contemporanee. Un problema troppo grande da poter essere liquidato ripristinando l’autorità perduta dei giornalisti.
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Byung-Chul Han:
La razionalità digitale. La fine dell'agire comunicativo, GoWare
Risvolto
Se volete capire i fondamenti teorici del Movimento 5 Stelle, del Partito Pirata e delle espressioni politiche della Rete, dovete leggere questo testo, breve ma fulminante, di Byung-Chul Han, il filosofo tedesco di origine coreana che continua – e innova – la tradizione del pensiero critico della scuola di Francoforte da cui provengono i contributi più interessanti per capire la società contemporanea.
Dalla cultura dell’estremo oriente Byung-Chul Han deriva il termine hikikomori, che designa i giovani giapponesi che si isolano fisicamente e si relazionano solo su Internet, per spiegare lo stato di cose che si è venuto a creare con la Rete e che determina la scomparsa della sfera pubblica, uno spazio individuato da Habermas come luogo dell’agire comunicativo e della politica. A differenza di altri critici apocalittici della Rete, Byung-Chul Han volge in positivo il fenomeno a-sociale degli hikikomori e lo vede come un vero e proprio cambio di paradigma dello stare insieme. In che senso? Tornando a Rousseau e all’alba della politica moderna.
Per soddisfare il vostro stupore, non vi resta che leggere questo ebook: meno di un’ora vi sarà sufficiente per guardare ai fenomeni del nostro tempo come non avreste mai pensato di fare.Byung-Chul Han nasce nel 1959 a Seul, in Corea del Sud. Prima di trasferirsi in Germania negli anni Ottanta, studia metallurgia nel suo paese natale. Una volta giunto in Europa, si dedica però alla filosofia, alla letteratura tedesca e alla teologia cattolica tra le Università di Friburgo e di Monaco.
Proprio a Friburgo, nel 1994, consegue il dottorato con una tesi su Martin Heidegger e, nel 2000, consegue l’abilitazione all’insegnamento. Le sue pubblicazioni si concentrano su diversi temi. Oltre che su Heidegger, ha scritto di cultura orientale e ultimamente le sue analisi si sono concentrate sulla cultura e la società contemporanee. Tra gli altri temi, ha lavorato molto sul concetto di trasparenza e sulla fine dell’“agire comunicativo” come inteso dal filosofo Jürgen Habermas. I suoi libri sono stati tradotti in nove lingue e dal 2012 insegna all’Università d’Arte di Berlino.
Un medium pronto a tutto
Codici Aperti. « La razionalità digitale» del filosofo Byung Chul Han e un’inchiesta sull’uso di Internet come strumento politico aiutano a demistificare l’idea che il web sia il protopito di una forma inedita di democrazia diretta
Francesco Antonelli manifesto 12.9.2015, 0:52
Il rapporto tra Rete e democrazia è uno dei fenomeni più studiati dalle scienze sociali contemporanee. Questo accade perché, sin dal loro apparire, questi mezzi di comunicazione si caratterizzano per l’interattività e la possibilità data agli utenti di comunicare senza i tradizionali filtri alla circolazione di opinioni e contenuti del passato (mass media, partiti e intellettuali). Se nell’Ottocento il fantasma che «s’aggira per l’Europa» era stato il comunismo, il Novecento ha nutrito le proprie classi dirigenti del culto della delega e del rifiuto della partecipazione diretta al governo della cosa pubblica, sino ad arrivare ad un punto, alla fine del XX secolo, nel quale il nuovo fantasma che «s’aggira» è rappresentato dalle ondate di destabilizzazione e di riassestamento delle post-democrazie contemporanee favorite dall’ascesa delle tecnologie digitali.
Di destabilizzazione e riassestamento si deve parlare perché l’orizzonte della democrazia diretta, partecipativa e deliberativa, come pratica di sostituzione delle tradizionali forme di democrazia rappresentativa, si è presto rivelata come uno dei possibili esiti legati allo sviluppo della Rete, ma senz’altro né l’unico né tanto meno il più probabile: se ad un primo periodo pioneristico di ascesa di Internet corrispondeva un forte legame tra le culture tecno-libertarie e hacker dei primi utenti\sviluppatori della Rete (tra i quali forti erano ancora gli echi della cultura del Sessantotto statunitense) e interpretazioni quasi palingenetiche delle potenzialità democratiche della Rete, si è passati ad una «fase lunga» nella quale la moltiplicazione delle pratiche politiche in Rete ha diffuso un sostanziale pessimismo circa la possibilità di realizzare una democrazia diretta digitale. Più sono cresciuti in tutto il mondo gli utenti della Rete più è entrata in crisi la tradizionale distinzione tra vita on-line e vita off-line: il mondo ha fatto irruzione nella Rete e viceversa, polverizzando l’avanguardia culturale dei primi tempi e mostrando tre lati oscuri.
L’ora quotidiana d’odio
Il primo è l’utilizzo propagandistico che di essa si può fare, dando l’illusione agli utenti\cittadini di partecipare realmente alla candidatura e alla vita politica di un leader o di un soggetto politico organizzato, quando in realtà i singoli sono coinvolti in una nuova forma di manipolazione; una risorsa che può essere utilizzata con grande successo anche da soggetti anti-democratici. Il secondo lato oscuro è rappresentato dalla spinta al rafforzamento del potere carismatico del leader, al conformismo, al populismo, alla superficialità del commento e del contenuto, condiviso tra cerchie ristrette e autoreferenziali di simili. L’esito è la moltiplicazione dell’«ora dell’odio» immaginata da Orwell in 1984 contro il proprio nemico (la casta, l’immigrato, l’omosessuale e così via).
C’è infine l’ascesa mascherata di una dimensione pop e commerciale dello stesso agire politico: nel momento in cui un utente si esprime su un social network ha l’impressione di riaffacciarsi in una nuova piazza digitale, mentre invece si muove all’interno di uno spazio di proprietà di una corporation privata; un luogo dove si può essere espulsi, controllati e monitorati secondo le regole del diritto privato e non di quello pubblico. Così, critici autorevoli come Jürgen Habermas sostengono che lungi dall’essere il nuovo vettore della democrazia diretta, il web 2.0 sarebbe in realtà l’esatto opposto di quella sfera pubblica che proprio il filosofo e sociologo tedesco vede alla base di qualunque processo democratico.
Due libri recentemente pubblicati aiutano però ad elaborare una visione meno unilaterale del rapporto tra democrazia e Rete, mostrando come la realtà sia più complessa e sfumata: è vero che le «rivoluzioni arabe» partite dalla Tunisia o i vari movimenti degli indignati in Occidente non hanno prodotto un cambiamento in senso radicalmente democratico degli Stati. Tuttavia, esse hanno dispiegato attraverso la Rete un potenziale critico in grado di mettere in crisi la politica tradizionale e di gettare le basi per la nascita di alcuni nuovi soggetti politici (come «Podemos» in Spagna).
Il primo volume è stato scritto da un giovane filosofo tedesco di origine coreana, Byung Chul Han: Razionalità digitale. La fine dell’agire comunicativo (GoWare, Euro 3,74). Il presupposto fondamentale del libro è quello tipico dei mediologi postmodernisti: i «barbari», vale a dire gli individui anti-sociali e narcisisti che abitano le Reti, non devono essere respinti dalla politica ma inclusi al suo interno attraverso un cambio di paradigma nelle pratiche democratiche. Per il filosofo è possibile pensare e praticare la democrazia senza far ricorso ad uno scambio comunicativo e argomentativo come prevede la teoria di Habermas: rielaborando il concetto di volontà generale proposto da Rousseau, si può immaginare la formazione di una decisione attraverso il voto espresso su un tema da singoli individui isolati.
L’onda dei nativi digitali
Questa volontà generale è pre-argomentativa e si forma per somma. Se la proposta di Han si fermasse qui essa non sarebbe molto originale. Il filosofo si spinge però più in là: i soggetti legittimati a decidere non sarebbero tutti i cittadini ma gli insiemi sociali formati dagli esperti e dalle persone interessate ad una determinata questione.
Nella visione di Han riemerge così un’interpretazione elitaria della volontà generale e sostanzialista della democrazia. Nel rilanciare su nuove basi le potenzialità partecipative della Rete, Han trascura inoltre sia i pericoli legati ad una auto-selezione poco istituzionalizzata dei vari gruppi deliberativi, sia il possibile cedimento di questi insiemi alla propria emotività, non mediata da alcuna struttura. Il potenziale critico della Rete espresso attraverso commenti e prese di posizione di individui isolati è certamente una risorsa nella riformulazione di una nuova funzione politica ed intellettuale ma questo non si trasforma automaticamente in una pratica neanche astrattamente pensabile come più efficiente e giusta delle attuali forme di democrazia rappresentativa. Proprio il tema del potenziale critico della Rete e del suo radicamento in dinamiche sociali più ampie, emerge dalla lettura di un secondo libro: Giovani nella rete della politica (Franco Angeli, Euro 25) di Cecilia Crisofori, Jacopo Bernardini, Sara Massarini. Attraverso un lunga e accurata indagine sui commenti scritti in Facebook da persone comprese tra i 18 e i 36 anni nei giorni delle elezioni del 2013, le tre sociologhe mostrano, tra l’altro, come la politica vissuta in Rete da questi giovani italiani si eserciti attraverso una critica argomentata e ricca di citazioni, delle classi politiche. Sotteso a questo orientamento è il conflitto generazionale: nella maggior parte dei casi, questa razionalità critica si dispiega da una presa di distanza nei confronti di quell’Italia e di quell’italiano medio appartenente alle generazioni più anziane, giudicato come prevaricatore, escludente, incolto e responsabile dell’inarrestabile declino del paese. Al contrario di quello che sostiene Han ma anche lo stesso Habermas, per le tre sociologhe la politica in Rete di questi nativi digitali riattiva non tanto forme già pronte per l’uso di democrazia diretta, quanto una nuova sfera pubblica nella quale argomentazione ed emozioni pubbliche (come l’indignazione) si intrecciano strettamente.
In conclusione, il rapporto tra politica e rete non è determinato e non può essere letto né da un punto di vista esclusivamente ottimista né pessimista. Al contrario, essendo coscienti che la più tipica forma di espressione di questa politicità è forse oggi il riarticolarsi di una funzione critica diffusa, occorre ricercare volta per volta le radici sociali e non solo tecnologiche di quei soggetti che, non trovando spesso piena cittadinanza nella politica istituzionalizzata e nelle rappresentazioni massmediatiche, utilizzano le potenzialità del web 2.0, muovendosi tra mille contraddizioni (non ultima, il già ricordato carattere privatistico dei social network).
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