Ma oggi c’è una novità. Mentre nel resto del pianeta il sistema parlamentare-elettivo è sottoposto agli andirivieni ciclici, nel «centro» (Ue, Usa) si è venuta affermando, e consolidando, dopo l’ultima convulsione ottonovecentesca (liberalismo, fascismo, democrazie postbelliche) la soluzione «elastica». I poteri effettivamente decisivi non sono più elettivi, né esposti all’arbitrio delle fluttuazioni elettorali, sono — bene al riparo (e con l’approvazione abdicante dei poteri eletti!) — organismi burocratico-finanziari. Le elezioni sopravvivono, ma sono la periodica festosa, accanita, ginnastica per le «masse» (quelle ancora disposte a crederci). Caricatura grottesca delle grandi battaglie elettorali della risorta democrazia del dopoguerra. Con questa soluzione — che è anche l’effetto del subentrare, al comando, dell’inquinatissimo capitale finanziario in luogo del capitale «produttivo» — sembra essersi posto un «Alt» al riproporsi del «ciclo». Quanto a lungo possa reggere questa geniale escogitazione non è dato prevedere. Forse però il meccanismo già mostra crepe: guerre costruite ed esportate, nuove schiavitù, crisi economica endemica, conseguenti migrazioni di popoli fanno pensare che il «ciclo» può rimettersi in moto, ed in forme terrificanti. «Quasi nessuna repubblica può essere di tanta vita che possa passare molte volte per queste mutazioni e rimanere in piede» (Machiavelli).
Se la politica perde consenso sorteggiamo le cariche“Perché votare non è più democratico”: la provocatoria tesi di David Van Reybrouck, intellettuale progressista sul solco di RousseauMassimiliano Panarari Stampa 29 9 2015
Si può scrivere un libro proclamandosi contrari alle elezioni? Evidentemente sì, se ci si chiama David Van Reybrouck, uno degli intellettuali più originali oggi in Europa, il quarantenne studioso (insegna all’Università di Lovanio), scrittore (presidente del Pen Club) e giornalista belga che, con le oltre 700 pagine del suo potente libro-reportage Congo (Feltrinelli), si è imposto all’attenzione del pubblico internazionale (vincendo, da ultimo, anche il premio Terzani 2015).
Ora torna a gettare un sasso nello stagno cimentandosi con uno dei temi più delicati e scivolosi e pubblicando un volume che verosimilmente farà discutere, provocatoriamente intitolato Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico (Feltrinelli, pp. 158, € 14). Dalla sua, in ogni caso, ha delle credenziali di fede democratica a prova di bomba - nel 2011 ha varato in Belgio la piattaforma di innovazione democratica e partecipazione civica G1000 - e le sue analisi sulla crisi della democrazia, in un’epoca di populismi dilaganti, sono rivolte innanzitutto ai progressisti.
Da tempo è in corso nella scienza politica un intenso dibattito sulla qualità e i problemi delle democrazie rappresentative (si pensi, tra gli italiani, a studiosi come Leonardo Morlino, Sergio Fabbrini, Roberto D’Alimonte e, su un piano che incrocia la sociologia della comunicazione, Michele Sorice), e adesso Van Reybrouck aggiunge un altro tassello. Muovendo da una suggestione celebre (quella di Jean-Jacques Rousseau, il quale considerava il sorteggio il metodo migliore per l’assegnazione delle cariche pubbliche in un sistema che attribuisce la sovranità al popolo), si avventura in una sorta di inchiesta sul malandato stato di salute delle nostre democrazie liberali diventate «democrazie del pubblico» (secondo la formula di Bernard Manin, tra i numi tutelari dell’autore, nonché il politologo che ha riportato alla luce la frattura esistente in seno al pensiero repubblicano, ancora lungo tutto il ’700, tra i fautori dell’elezione e quelli dell’estrazione a sorte dei rappresentanti).
Le istituzioni democratiche sono pazienti assai sofferenti, condizione che è sotto gli occhi di tutti, e che statistiche e istituti di ricerca (a partire da Eurobarometro) continuano drammaticamente a certificare, dal 33% appena di fiducia nei confronti dell’Unione europea dell’anno 2012 (contro il 50% del 2004) sino al 28% di quella nei parlamenti e al 27% di quella nei governi nazionali.
In buona sostanza, la democrazia vive oggi più che mai un paradosso: suscita, in linea teorica, entusiasmo - attualmente nel mondo ci sono 117 democrazie elettive su 195 nazioni -, ma è affetta contestualmente da diffidenza e sfiducia (corredate dalla crescente domanda di leader forti). Se la politica perde di senso (e consenso), anche la democrazia ne risente parecchio, subendo gli effetti di una crisi di legittimità che si esprime sotto forma di astensionismo, calo inarrestabile della militanza nei partiti e volatilità elettorale. Come pure quelli di una crisi di efficienza, tra consultazioni lunghissime per formare gli esecutivi e tempi sempre più dilatati per l’approvazione di una legge o la realizzazione di una qualche opera pubblica, e le forze politiche che stanno al governo - al contrario di quanto avveniva in passato - vedono i loro consensi erodersi sempre più velocemente.
Il risultato coincide con una sorta di «sindrome di stanchezza democratica», al cui riguardo, nella nostra società eccitata (definizione del filosofo tedesco Christoph Türcke), vengono illustrate quattro diagnosi. Quella populista che dà la colpa ai politici; quella tecnocratica che attribuisce la responsabilità alla medesima democrazia (per la lunghezza e complessità dei processi decisionali al suo interno) e quella della democrazia diretta che ritiene colpevole la democrazia di tipo rappresentativo (tesi che va da Occupy Wall Street agli Indignados). Infine, c’è un «giudizio clinico» innovativo, quello sposato dall’autore: la disaffezione sarebbe provocata non dalla democrazia rappresentativa in quanto tale, bensì dalla sua variante elettiva.
Contro il «fondamentalismo elettorale» (caratteristico, in particolare, della diplomazia internazionale, che attribuisce al voto una «funzione salvifica»), vengono passati in rassegna una serie di esperienze (dal Canada all’Islanda, dall’Olanda all’Irlanda) e di progetti di innovazione democratica che vanno dalla democrazia deliberativa (e «informata») ai modelli elaborati da vari teorici e scienziati politici (come Yves Sintomer, Terrill Bouricius, Hubertus Buchstein) di «democrazia del sorteggio», spesso con l’idea di Camere suppletive da aggiungere a quelle esistenti. Perché bisogna sempre aver presente, dice Van Reybrouck sulla scorta di Rousseau, che «la democrazia non è un regime dominato dai migliori elementi della nostra società» e, dunque, la sua finalità fondamentale dovrebbe essere quella di assicurare il pluralismo e un uguale diritto di decidere delle questioni politiche a tutti i suoi membri. E scusate se è poco…
Van Reybrouck “Meglio il sorteggio che queste elezioni”
GIULIO AZZOLINI repubblica 4 10 2015
Tutti la reclamano, ma nessuno ci crede più. Ecco il paradosso della democrazia contemporanea. I populisti danno la colpa ai politici disonesti, i tecnocrati al popolo insipiente, gli entusiasti della Rete al regime rappresentativo. E da qualche anno la scienza politica (Larry Diamond, Larbi Sadiki) parla di «elezioni senza democrazia»: tali sarebbero le consultazioni alterate dai conflitti di interesse, avvelenate dai voti di scambio, truccate dai regimi autoritari, svuotate dagli appelli al popolo… Ma ci voleva David Van Reybrouck per rovesciare la medaglia e prospettare una «democrazia senza elezioni».
Negli ultimi anni l’avevano suggerita, più o meno timidamente, vari politologi (dal britannico Oliver Dowlen al tedesco Hubertus Buchstein al francese Yves Sintomer), ma nessuno con la sagacia dell’intellettuale belga, già autore del reportage bestseller Congo (Feltrinelli).
Signor Van Reybrouck, nel suo “Contro le elezioni” (appena pubblicato da Feltrinelli) sostiene che il voto non è uno strumento democratico.
Perché?
«Oggi è in crisi una particolare forma di democrazia, quella elettiva. Le elezioni sono diventate un ostacolo, non un canale di partecipazione, un fine in sé stesso, non un mezzo per prendere decisioni collettive. Da quando furono adottate, alla fine del Settecento dalle élite borghesi, la politica è completamente cambiata: sono arrivati i partiti, il suffragio universale, i media commerciali, i social network, i sondaggi e ormai viviamo in una sorta di campagna elettorale permanente, combattuta senza esclusione di colpi per accaparrarsi i voti, peraltro sempre più scarsi, di cittadini stanchi e disillusi. Ma, a dire il vero, le elezioni non sono mai state un metodo democratico».
Eppure da oltre due secoli sono uno dei pilastri della democrazia rappresentativa… «Io preferisco parlare di “aristocrazia liberamente scelta”. Le elezioni furono lo strumento con cui, durante le Rivoluzioni francese e americana, una nuova aristocrazia scalzò l’antica aristocrazia ereditaria. Ma sia Montesquieu sia Rousseau, memori della lezione di Aristotele, avevano insegnato che la procedura davvero democratica è un’altra, il sorteggio».
Oggi, però, governare è sempre più difficile e richiede competenze elevate. Ritiene che il sorteggio sia ancora il miglior metodo per selezionare la classe politica?
«Le ragioni pratiche per respingerlo non sono più insormontabili, a differenza dell’Ottocento, quando gran parte della popolazione era analfabeta, i registri delle nascite erano approssimativi e vaste regioni erano incontrollate. Inoltre sono tantissimi gli esperimenti partecipativi di successo, non solo per decidere dove piantare pannocchie e dove invece installare pale eoliche. L’Islanda, per esempio, ha trasformato la propria carta costituzionale attraverso la collaborazione di migliaia di cittadini che modificavano il testo un articolo alla volta ».
Ma tutte le maggiori democrazie odierne, dagli Stati Uniti alla Germania, sono guidate da leadership forti… «È vero. Perciò non penso che le elezioni debbano essere del tutto abolite. Credo piuttosto che, anche nelle democrazie più ricche e avanzate, possano e debbano essere accompagnate dai sorteggi».
Il Parlamento italiano, previsto dalla riforma costituzionale in corso, sarà invece composto da membri nominati dai partiti e da altri eletti dal popolo… «Io credo che i tre quarti dei senatori andrebbero designati per sorteggio e dovrebbero incidere su tutto l’iter legislativo, specie su materie cruciali, come l’immigrazione, l’ambiente, il welfare. Perché la democrazia deliberativa che immagino non ha nulla da spartire con i referendum, che servono solo a confermare provvedimenti già varati da una ristretta cerchia di politici».
Quantomeno a breve termine, però, il “sistema bi-rappresentativo” sembra un’utopia… «Se la politica non spalancherà le porte del palazzo, queste cadranno sotto i colpi dei cittadini. E attenzione: la rapida diffusione dei movimenti di protesta è il sintomo, non la causa, della crisi in cui siamo immersi. Ripristinare il sorteggio è forse l’unico modo affinché la gente torni a credere nella democrazia. E non vedo quale soggetto politico, meglio dell’Unione Europea, possa promuovere questa rinascita».
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