domenica 27 settembre 2015

La mostra dei Brueghel a Bologna e quella alla Venaria


Una dinastia fiamminga che ha cambiato l’arte
Gaddi: “Con Pieter e i figli la natura e la vita quotidiana del ’500 diventano protagoniste. Lo chiede la nuova classe mercantile” 

Elena Del Drago Stampa 25 9 2016
Una delle mostre più importanti di questo autunno, «Brueghel, Capolavori dell’arte Fiamminga», consente, nel perfetto ambiente della Reggia di Venaria, di seguire l’incredibile storia pittorica della famiglia Brueghel. E insieme lo sviluppo della pittura delle Fiandre, antitetica eppure complementare a quella italiana. Abbiamo incontrato il curatore di questa esposizione Sergio Gaddi.
Attraverso il lavoro dei Brueghel quale periodo della storia dell’arte si riesce a seguire?
«In mostra abbiamo tutta la dinastia che inizia con Pieter il Vecchio, e continua con Jan il Vecchio e Pieter il giovane. E la notorietà del capostipite si deve proprio ai figli. La dinastia, di generazione in generazione, dalla metà del Cinquecento arriva alle soglie del Settecento con Abraham Brueghel, detto non a caso il Fracassoso, la cui pittura è barocca, assai meno dettagliata rispetto a quella del padre e dei nonni». 
Possiamo definire quella dei Brueghel una sorta difactorydell’epoca?
«Sì, una bottega con un marchio di fabbrica molto riconoscibile e apprezzato, lo stile Brueghel era sinonimo di qualità e bellezza pittorica che si tramandava negli anni. Pieter Il vecchio muove i primi passi con Pieter Coecke van Aelst, esponente del Manierismo di Anversa, un raffinato uomo di cultura, di cui sposa la figlia entrando così in bottega in modo deciso! Alla metà del ’500 Anversa aveva più di centomila abitanti, era la capitale del mondo, c’era una grande dinamica in termini di relazione tra artisti, con l’attivissima Gilda di San Luca a fare da tramite. Era un ambiente stimolante, ma allo stesso tempo c’erano le tensioni religiose del re di Spagna, Filippo II, contro i protestanti»
Come si apre la mostra?.
«La prima sezione analizza proprio il clima all’interno del quale Pieter Brueghel ha mosso i primi passi. Abbiamo, tra l’altro, quell’opera straordinaria che è I sette peccati capitali di Bosch, il primo surrealista della storia per le sue visione fantastiche e apotropaiche. Pieter Brueghel prende molto da Bosch, anche se i due non si sono mai incontrati».
Per quale motivo la pittura dei Brueghel si può considerare innovativa nella storia dell’arte?
«La parte che abbiamo chiamato “Natura Regina” ci dà la misura dell’innovazione fiamminga: la natura diviene soggetto autonomo e protagonista, non più sfondo, ma vero elemento centrale. E lo si può vedere in un’opera come Riposo durante la Fuga in Egitto di Pieter il Vecchio, nel quale la famiglia è davvero piccola rispetto all’esplosione naturalistica, qualcosa che il Rinascimento italiano non avrebbe neppure immaginato. Nelle Fiandre la natura regna incontrastata, non a caso la rappresentazione delle persone è spesso di spalle o obliqua, senza individualità, come una grande moltitudine. Anche nella parte chiamata “Soldati e cacciatori nella luce dell’Inverno”, ci troviamo di fronte ad un elemento ricorrente che racconta la supremazia naturale: il paesaggio invernale. In particolare La trappola per uccelli di Pieter il Giovane, è emblematico dell’estetica bruegheliana. Altra opera molto interessante è la Strage degli Innocenti dipinta nel 1570 da Marten Van Cleve, un emulo del capostipite Brueghel, che ci spiega l’importanza della quotidianità nella pittura fiamminga. In una scena così drammatica, uno dei soldati, vestito nella foggia contemporanea, fa pipì in primo piano. In Italia non lo avrebbero mai fatto!
Che cosa rappresenta per i fiamminghi la vita quotidiana?
«È un valore, non qualcosa da nascondere, persino con le sue necessità fisiche e fisiologiche. Anche nell’ultima sezione della mostra dedicata al mondo contadino, ci sono virilità fisiche esibite e la loro danza è chiassosa e carnale, non aulica e poetica: la vita si esprime nella sua massima concretezza».
Ma in qualche modo questa pittura è una celebrazione della classe mercantile in ascesa?
«Sì, questo è il tema della quarta sezione, “Storie di viaggiatori e di Mercanti”. Allora Anversa era il centro commerciale in cui le rotte dei viaggi, le navi e i mondi esotici si traducevano in committenza. In questo ambito c’è un lavoro paradigmatico di David Teniers il giovane che sposa Anna, figlia di Jan Brueghel il Vecchio, I contadini nella Taverna: sono una rappresentazione perfetta della teoria calvinista intesa come premio eterno al successo nella vita. È una scena chiara: i contadini aspettano la ricompensa del loro lavoro che è rappresentata da una figura femminile che offre del pane, mentre i contadini sfaccendati non hanno diritto ad alcun compenso. Siamo davvero molto lontani dalla concezione classica».
In mostra ci sono molte Allegorie. Che cosa rappresentano?
«Sì, ce ne sono molte davvero straordinarie: l’allegoria dell’Amore per esempio, che rappresenta una coppia di innamorati in cui la donna, nonostante l’afflato dell’uomo, preferisce guardarsi nello specchio, il primo selfie della storia dell’arte, una rappresentazione perfetta della Vanitas».
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Brueghel Quando la pittura fiamminga diventò un affare di famigliaLA MOSTRA ALLA VENARIA REALEGIUSEPPE DIERNA Repubblica 2 10 2016
Dopo aver visitato in quasi cinque anni – con continui assestamenti e modifiche – Tel Aviv, Roma e Parigi (per citare solo alcune sedi), approda ora a Torino, alla Reggia di Venaria e fino al 19 febbraio, la mostra – a cura di Sergio Gaddi e Andrea Wandschneider – dedicata alla prolifica dinastia dei Brueghel e alla pittura fiamminga del Cinque-Seicento ( Brueghel. Capolavori dell’arte fiamminga, catalogo Skira, pagg. 240, euro 35). Una dinastia che prende avvio con l’immaginifico Pieter Brueghel il Vecchio e – dopo la morte del capostipite, nel 1569 – prosegue coi figli Pieter il Giovane e Jan il Vecchio, e quindi coi loro figli e nipoti (il solo Jan il Giovane, figlio di quest’ultimo, ne avrà undici, di cui cinque pittori), per non parlare poi degli importanti rigagnoli generati dai matrimoni del ramo femminile della stirpe.
I Brueghel andranno così a costituire per oltre un secolo un essenziale punto di riferimento per collezionisti e agiata borghesia, un “marchio” sicuro, potendo contare anche su uno spettro tematico estremamente variegato: dai minuziosi paesaggi irreali, mappature dell’anima, alle gustose scene di vita contadina e alle vanitas floreali, fino alle incisioni ricavate dai disegni di Pieter il Vecchio, gioielli di inventività che gli avevano fin dall’inizio assicurato una rilevante circolazione e una fama di “secondo Bosch”, ardua poi da superare.
Le troviamo esposte qui a Torino queste moralità miniaturizzate, come l’incisione in cui la Speranza si mostra con un alveare sul capo a mo’ di cappello, una vanga e una falce in mano, in precario equilibrio su un’ancora, mentre tutt’attorno barche e vascelli scompaiono tra i flutti col loro carico umano. O la Battaglia per il denaro, trasposta col bulino da Joan Galle, baraonda di lance e di spade sguainate, sorta di Paolo Uccello senza eroismi che vede miseramente fronteggiarsi tondi salvadanai scheggiati, con gambe e braccia, e non meno antropomorfizzati scrigni e bauli sfondati, traboccanti monete. Disegni in cui appare quello stesso afflato morale che Pieter il Vecchio aveva respirato nelle composizioni di Hieronymus Bosch, come l’allegoria dei Sette peccati capitali (qui in mostra) che vede il mondo come una sfera dalla buccia scrostata, dominata in alto dal Golgota con la croce e adagiata sui cupi spazi inferi.
La mostra suggerisce tutta una trama di collaborazioni e rimandi fra le opere, frutto del lavoro delle botteghe delle scuole del Nord, dove anche le copie avevano valore di originali e l’originalità era il risultato di una stretta collaborazione fra artisti, per cui alla mano di Pieter il Vecchio – ipotizzata nel Paesaggio con la parabola del seminatore (1557) – si alterna quella di Jacob Grimmer, e lo stesso in diverse composizioni di Jan il Giovane. E il visitatore curioso sarà anche spinto a rintracciare nella propria memoria il filo che lega La torre di Babele (ca. 1580) di M.van Valckenborch e Hendrick van Cleve, tutta pullulante maestranze, al blocco acefalo che si staglia sull’omonima tavola di Pieter il Vecchio del 1563, o a raffrontare il Paesaggio invernale con la strage degli innocenti (ca. 1570) di Marten van Cleve, dove gli armigeri a cavallo si allontanano a lavoro concluso, allo stesso tema sviluppato ancora da Pieter il Vecchio nel decennio precedente, dove il massacro era ancora in atto, fra macchie rosse nella neve.
Affascinano, a vederle tutte assieme, le innumerevoli variazioni sul tema del paesaggio, un paesaggio che ingloba nella propria autorappresentazione il soggetto stesso del quadro, foss’anche la Fuga in Egitto o san Girolamo. Mentre nelle Fiandre ancora domina un’arte religiosa, ben testimoniata qui all’inizio della mostra dalle pallide madonne con bambino e da due bei trittici sulla vita del Cristo, esplode infatti una nuova rappresentazione della natura che ne vuole evidenziare quasi l’aspetto metafisico, utilizzando una spiazzante visione a volo d’uccello e una prospettiva ottenuta per successione di fasce cromatiche diverse, come nei fascinosi
Paesaggi fluviali di Jan il Vecchio, o nell’estatica Trappola per uccelli che Pieter il Giovane riprende dal Paesaggio invernale con trappola per uccelli del padre, o nella Parabola del buon pastore di M. van Cleve, tra le aggiunte torinesi della mostra. E analoga polemica, diretta ora contro l’idealizzazione della realtà nel Rinascimento italiano, è la riscoperta del mondo contadino, vero cavallo di battaglia della dinastia Brueghel, qui rinverdito dalla Danza nuziale all’aperto di Pieter il Giovane, che trasforma in una scena contadina anche la rappresentazione allegorica delle Sette opere di misericordia, proiettando su un’unica piazza molto fiamminga devoti cittadini intenti a dar da mangiare agli affamati, da bere agli assetati…, e dalle sei gustose pitture su rame delle Nozze contadine ancora di M. van Cleve.
E infine due sezioni raccontano il gusto seicentesco per l’affastellamento: dalle nature morte floreali, dove il senso barocco della morte non è delegato a teschi e clessidre ma all’incanto dei fragili petali, all’analogo gusto per le accumulazioni caotiche che genera alcune eleganti composizioni allegoriche di Jan il Giovane, tra cui l’Allegoria dell’udito, sequela di corni, cornetti acustici, ticchettanti orologi, liuti e violoncelli, e dove persino una scimmietta, accovacciata sotto una panca, soffia in una sorta di allungata tromba da torneo rinascimentale.
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