domenica 27 settembre 2015
I racconti di guerra di De Roberto
Risvolto
Negli anni immediatamente successivi alla
Grande guerra, il conflitto appena concluso viene raccontato da tutti i
maggiori scrittori italiani del tempo, chi in poesia e chi in prosa. Si
tratta in gran parte di reduci e testimoni; per quanto possa sembrare
strano, però, nessuno ha saputo narrare l'esperienza della trincea
altrettanto bene di Federico De Roberto, che, ormai anziano, conobbe il
fronte solo in maniera indiretta, in particolare nel celebre "La paura"
(1921). La montagna arida e brulla, un cecchino che abbatte a uno a uno
gli uomini mandati a raggiungere uno strategico posto di guardia, il
panico che si diffonde nella truppa, il senso di colpa del tenente a
capo dei soldati: di rado la violenza della guerra è stata messa in
scena con tanta esattezza. Completano il volume un saggio critico di
Gabriele Pedullà, gli altri otto racconti di De Roberto sul Primo
conflitto mondiale e - per la prima volta - tre racconti di argomento
militare dati alle stampe tra il 1909 e il 1915.
Paura della Grande Guerra
Nel 1915 aveva 54 anni e non andò mai in trincea. Ma la sua narrazione supera in efficacia anche quella di scrittori che vissero quell’esperienza in prima persona
Gabriele Pedullà Domenicale 27 9 2015
Nel nostro tempo poche figure godono di fiducia altrettanto illimitata come il testimone: colui che ha visto le cose con i propri occhi ed è sopravvissuto per raccontarcele. La passione contemporanea per il genere del memoir e per la forma reportage non ne sono che una soltanto delle molte declinazioni. Come anni fa ebbe a scrivere un giovane scrittore italiano di un altro giovane scrittore italiano: «Il suo libro è bello perché prima di raccontare la maratona, l’ha fatta per davvero».
E la guerra? Di tutte le esperienze la guerra dovrebbe essere quella il cui racconto meno si può delegare agli assenti: per ragioni morali viene da pensare, oltre che per ragioni estetiche. La vita del fronte è troppo distante da quella di tutti i giorni perché la si possa immaginare a distanza; senza un contatto diretto non c’è spazio per un racconto credibile.
Fin qui l’ideologia letteraria del primo spicchio del XXI secolo. La letteratura sulla Grande guerra, che quest’anno è tornata a riempire gli scaffali delle librerie complice il centenario dell’entrata dell’Italia nel conflitto e che può vantare un catalogo impressionante di autori (per citare solo i più noti: Bontempelli, D’Annunzio Gadda, Malaparte, Marinetti, Montale, Palazzeschi, Rebora, Saba, Savinio, Tozzi, Ungaretti…), ci offre invece un’altra lezione. Nessuno degli scrittori-soldati, infatti, ha saputo raccontare l’esperienza bellica altrettanto bene di Federico De Roberto, che all’entrata in guerra aveva cinquantaquattro anni e in trincea non avrebbe potuto essere accolto nemmeno in veste di giornalista.
Per quanto possa suonare contro-intuitivo e persino paradossale, l’essenza profonda del primo conflitto mondiale sembra non essersi mai rivelata come in queste pagine, scritte – senza mai abbandonare la Sicilia – da un narratore che a quell’altezza in molti ormai consideravano un nobile relitto del secolo passato. Possibile che il romanziere che non ha mai assistito a una singola battaglia sia riuscito a cogliere la natura della guerra meglio dei tanti poeti e narratori che tra il 1915 e il 1918 avevano passato le loro giornate in trincea, facendo esperienza diretta, sulla propria pelle, della violenza senza precedenti delle nuove tecnologie di morte? Si stenta a crederlo, eppure è così: come per Omero e i poeti epici del mito, anche nel caso di De Roberto la perdita della visione sembra essere stata compensata con una speciale visionarietà che gli ha consentito di trascendere il mero dato di cronaca e di calarsi alla radice stessa dell’evento bellico.
De Roberto ci ha lasciato ben nove racconti sulla Grande guerra, di cui alcuni davvero straordinari (come La retata, composto quasi per intero in un virtuosistico dialetto romanesco, o La posta, che anticipa uno spunto narrativo, quello della menzogna epistolare a fin di bene, che avrà grande fortuna nel Novecento, da La salute degli infermi di Julio Cortázar al film Goodbye Lenin! di Wolfgang Becker). Nessuno tuttavia è paragonabile a La paura, del 1921: senza alcun dubbio, non solo il più bel testo in prosa sul primo conflitto mondiale, ma uno dei racconti irrinunciabili di tutto il XX secolo, degno di figurare nella più severa antologia della letteratura italiana classica e moderna.
Di rado la violenza della guerra è stata messa in scena con tanta esattezza. Anche per questo La paura è stato da subito un testo maledetto. Un testo, cioè, ammirato dai primissimi lettori, ma anche rifiutato dal direttore del supplemento letterario del «Corriere della Sera» perché giudicato troppo duro per il suo pubblico; periodicamente riscoperto e incensato dai narratori più perspicaci (in primis Vitaliano Brancati); poi incluso stabilmente in tutte le antologie derobertiane, ma capace lo stesso di provocare scalpore quando alla metà degli anni Novanta Goffredo Fofi ebbe l’intelligenza di riproporlo da solo per e/o.
Nel suo percorso di avvicinamento al fronte, De Roberto lavora in sottrazione, sacrificando qualsiasi dettaglio accessorio e puntando piuttosto a una impossibile “tragedia da camera” ambientata tra le vette delle Alpi. Al nocciolo si arriva infatti solo per eliminazione di tutto quello che non è strettamente irrinunciabile: giudizi morali, psicologie, descrizioni (secondo una strategia narrativa che De Roberto aveva già portato alle estreme conseguenze nei suoi racconti degli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento). Bastano dunque pochi tratti disposti con assoluta sapienza. La montagna arida e brulla; un cecchino che abbatte a uno a uno gli uomini spediti a raggiungere uno strategico posto di guardia collegato alla trincea italiana da un camminamento esposto al fuoco nemico; il panico che si diffonde nella truppa; il senso di colpa del tenente caritatevole posto a capo dei soldati: sono questi, a voler essere sintetici, gli elementi attorno ai quali prende vita il dramma. Il resto dipende dalla forza della ripetizione (anche qui secondo un procedimento sperimentato con successo nei migliori racconti del giovane De Roberto: La disdetta, Il rosario, Il convegno). Come comportarsi di fronte alla morte ravvicinata e consecutiva di così tanti uomini? Il tenente Alfani è progressivamente paralizzato e incapace di mantenere il distacco che la sua posizione richiederebbe. Finché Morana, uno dei soldati, anzi il più valoroso (un veterano della Libia), rifiuta inaspettatamente di andare, portando di colpo il racconto su binari imprevisti. Per chi si rifiuta di eseguire un ordine c’è infatti solo il plotone di esecuzione: «Ma come?... Preferisci sei pallottole nella schiena ad una che può anche lasciarti vivo?», prova infatti a convincerlo il tenente.
Come noi, De Roberto apparteneva a una generazione che non aveva mai sperimentato l’orrore del fronte; però aveva compulsato con passione i racconti sulla guerra-franco prussiana di Guy de Maupassant e da lui aveva appreso molto. E, dato che Maupassant aveva scritto ben due novelle dal titolo La peur, entrambe incentrate sul sentimento di terrore che si impadronisce di un intrepido (esattamente come qui), la novella di De Roberto può essere interpretata anche come una sfida letteraria a uno dei suoi dichiarati maestri di gioventù. Con una particolarità di non poco conto: che per Maupassant questo disfacimento del soggetto può derivare solo dal soprannaturale e viene immancabilmente raccontato dall’interno, secondo il metodo dell’«analisi psicologica» (come si diceva allora), mentre De Roberto ottiene virtuosisticamente lo stesso risultato da fuori, mostrandoci la crisi di Morana attraverso gli occhi del tenente, e senza alcun bisogno di introdurre alcun elemento fantastico. Di più, e con meno mezzi.
Per ovvio rispetto dei lettori, la conclusione va taciuta. Basterà dire che essa implica non uno ma ben due colpi di scena rispetto all’alternativa apparentemente senza uscita tra andare-e-morire e non andare-e-venire-fucilati. Un indizio supplementare può essere offerto però agli appassionati di Thomas Mann: il duello finale de La montagna magica, che sarebbe apparsa tre anni dopo il racconto di De Roberto, sarà costruito esattamente sullo stesso meccanismo strutturale (Mann conosceva forse La paura? Ecco un bel quesito per i germanisti). Di sicuro l’angoscia di quelle ultime pagine è quanto di più vicino a ciò che noi europei del tardo XX secolo, figli di un tempo senza conflitti in casa, possiamo immaginarci sia la guerra vera. Il grande romanziere dei Viceré non avrebbe potuto lasciarci un congedo migliore.
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