domenica 27 settembre 2015
Lo strano caso del dissidente perseguitato che inaugura la sua mostra a Londra e entra e esce quando vuole pur parlando male del governo sui giornali stranieri
Ai Weiwei all’assemblaggio
La Royal Academy ospita il grande artista cinese con opere di denuncia assieme a spettacolari installazioni
E alla fine Ai Weiwei è arrivato a Londra: l’artista simbolo della lotta contro la censura del governo cinese, che dopo l’arresto nell’aprile 2011 era stato detenuto per 81 giorni e privato del passaporto, ha potuto inaugurare personalmente la mostra che credeva avrebbe visto solo via skype.
La retrospettiva presenta in undici sale della Royal Academy una selezione dei suoi lavori dal 1993 a oggi (il 1993 è l’anno in cui l’artista, che dal 1982 viveva negli Stati Uniti, è rientrato in Cina). Nell’Annenberg Courtyard, il cortile d’ingresso, c’è un bosco di otto alberi-frankenstein alti sette metri, ricomposti da frammenti di piante morte sulle montagne del sud della Cina. Un’opera di raccolta e riconfigurazione che fa da metafora al resto della mostra (e il più costoso progetto d’arte mai finanziato su Kickstarter, con oltre 120mila sterline). All’interno, alcuni pezzi sono stati prodotti espressamente per questa occasione, altri sono conosciutissimi.
Ci sono Bed del 2004, una struttura in legno di sei metri per due che è in realtà una mappa srotolata della Cina, e Straight del 2008-2012, la pila di 150 tonnellate di barre d’acciaio che Ai ha recuperato dal terremoto del Sichuan e fatto raddrizzare, un memento contro chi costruì al risparmio le scuole che crollarono uccidendo cinquemila studenti - i cui nomi, rintracciati uno a uno dall’artista, sono stampati sulle pareti della sala. Ci sono le sue ceramiche e le sue fotografie, i metri cubi fatti di tè o di cristallo, un gigantesco lampadario di biciclette. Nell’insieme, questa alternanza di installazioni ambientali, di mobili e di sculture è una mostra pulitissima, nitida come una top ten di successi di un artista noto però più per la sua vicenda di dissidente che per il suo corpus di lavori.
Ai Weiwei è infatti uno di quei casi in cui l’arte prende senso dalla figura del suo autore: dal punto di vista estetico l’unica coerenza interna al lavoro di Ai appartiene alla cosiddetta Furniture Series, gli assemblaggi di mobili Dinastia Qing (1644-1911) che l’artista acquista e riaccorpa in forme impossibili, inutilizzabili, eppure in qualche modo ancora visivamente e tattilmente familiari. Gli altri pezzi suoi più memorabili, invece, assumono significato e pregnanza quando si conosce la storia che li anima. Souvenir from Shanghai, del 2012, è un blocco di cemento e mattoni incorniciati nel legno, ciò che rimane dello studio che la città di Shanghai commissionò all’artista e poi rase al suolo. He Xie, un brulichio di 3000 granchi in porcellana, ricorda il banchetto offerto a 800 persone la sera prima che l’edificio venisse distrutto (ma il nome suona anche, in cinese, come un’allusione alla libertà). La “sala del passeggino” contiene un prato, un passeggino e telecamere di sorveglianza fatte di marmo, ispirati dal giorno in cui, al parco con suo figlio, Ai scoprì di essere seguito e fotografato da settimane.
Visivamente, questi ultimi non sono pezzi folgoranti, sul piano emotivo lasciano freddi, come alcune delle sue rielaborazioni sul ready-made, da Dust to Dust, vasi che contengono polvere ottenuta frantumando reperti neolitici, a Sex Toy, una serie di dildo in giada esposti in piccole teche. Anche S.A.C.R.E.D., la sequenza di diorami che riproducono momenti della sua detenzione, e che abbiamo già visto nella chiesa di Sant’Antonin a Venezia con ben altro impatto emotivo, qui risulta più difficilmente navigabile, ed è visivamente disturbata da un wallpaper dorato in cui l’uso deliberato del kitsch non funziona come dovrebbe.
Ma è vero che lo stesso Ai non concepisce la sua arte come un sistema organico di oggetti univocamente interpretabili, bensì piuttosto come un’attitudine, una reazione al contesto, inseparabile dalla sua esistenza e dall’agire quotidiano. Per entrare nel mondo di Ai Weiwei, una Cina che ha tentato di renderlo invisibile politicamente e artisticamente cancellandolo persino dai libri, bisogna andare oltre le opere. Da questo punto di vista, la mostra della Royal Academy si è dotata di un apparato informativo tra i migliori mai visti: l’audioguida è per una volta quasi irrinunciabile, e chi decide di pagare anche le 26 sterline del catalogo si trova in mano uno strumento magnifico, a partire dalla lunga intervista chiarificatrice con Tim Marlow, brillante direttore della Royal Academy e co-curatore della mostra insieme a Adrian Locke. Qui si scopre che nei 12 anni a New York Ai ha lavorato solo sei mesi come artista, spendendo il resto del tempo “girovagando” (ecco perché la mostra parte dal 1993). Che in realtà non sarebbe mai rientrato in Cina, se non fosse stato per la malattia del padre. Che i suoi famosi interventi pop - o distruttivi - su vasi della dinastia Han sono stati per lui “silly acts”, momenti di gioco. Dunque alcuni di quelli che consideriamo oggetti politici o sovversivi lo sono nel risultato, ma non nell’intenzione: nella sua percezione, vita, arte e politica sono un modo unico di “sentire il mondo”.
Nei primi giorni londinesi, Ai ha sfruttato al massimo il suo appeal mediatico, incontrando Julian Assange, postando selfie con il dito medio alzato, marciando con Anish Kapoor a favore dei rifugiati del mondo. E sollevando qualche critica. Perché un dissidente sorridente e “commerciale” non è interessante come un dissidente sanguinante.
Rompere il vaso per amore del vaso: Ai Weiwei a Londra
A Londra, Royal Academy, una personale dell'osannato artista cinese. L’iconoclastia di Ai Weiwei non intende distruggere la storia cinese ma ri-significarla: al caos dispotico dell’oggi oppone un impegno dello stile, insieme pop e colto, e del fare artigiano
Stefano Jossa LONDRA Manifesto 11.10.2015, 0:10
In principio era la Cina: si tratta in verità di un ritorno, perché Ai Weiwei dalla Cina scappò a 24 anni nel 1981 e vi è tornato solo nel 1993 a 36 anni. Da allora, già ventidue anni di vita sua e di storia umana, il suo obiettivo è stato ritrovare le origini, naturali e monumentali, di una cultura che si è persa nella paura della censura e nell’omaggio al regime. Le sue opere dal ritorno a oggi sono ora esposte alla Royal Academy of Arts di Londra, in una mostra che si propone di valorizzare l’artista al di là dell’attività politica che l’ha reso famoso in tutto il mondo (Ai Weiwei, fino al 13 dicembre; catalogo con contributi di Tim Marlow, John Tancock, Daniel Rosbottom e Adrian Locke, Royal Academy of Arts, pp. 240, £ 48,00): chi non ricorda la geniale trasformazione della canzone più cafona del secolo, Gangnam style, in un geometrico e collettivo grido di protesta contro ogni repressione della libertà di parola? Oppure il suo dito medio alzato sullo sfondo a distanza di una spettrale piazza Tienanmen a Pechino?
Il doppio piano – pop e colto, ma anche antico e moderno, nonché naturale e tecnologico – è infatti una costante nell’opera di Ai Weiwei, che sa sempre stare dentro e accanto alla sua opera, insieme totalmente immerso e sapientemente distante: qui ci sono io, le mie radici, la mia storia, con tutta la mia fisicità, il mio corpo, ma qui c’è anche una storia collettiva, di identità e perdita, che l’urgenza di dirsi porta con sé e non può tuttavia schiacciare. La storia cinese non sarà più un peso, immobile e soffocante, ma la materia di cui è fatta la vita quotidiana: la Cina è il letto su cui tutti giacciono, legnoferro piallato e compattato per riprodurre su un piano a rilievo orografie e confini (Bed, 2004). Qui i falegnami hanno lavorato con le loro mani prima di diventare operai tutti uguali grazie alla rivoluzione culturale del 1966: restituire agli antichi mestieri la loro dignità preindustriale significa certo rivendicare la priorità del corpo sulla macchina, in protesta contro la civiltà della tecnica, ma anche riflettere sull’artigianato dell’opera d’arte, che è manufatto contenente l’idea anziché prodotto dell’idea.
Umanizzando Duchamp, antiplatonico per vocazione, Ai Weiwei impiega carpentieri, fabbri e falegnami nel suo laboratorio, ma chiede loro di confrontarsi con il prodotto da fare anziché con la soluzione al problema compositivo: proibiti chiodi, viti e colla, il materiale si incastra a tenone e mortasa, come ai vecchi tempi. Nessun rigurgito di ideologicissimo operaismo, però, antimoderno e protocapitalistico: pezzi di templi abbandonati, dismessi o abbattuti della dinastia Qing riaffiorano continuamente nelle sue opere, a marcare la transizione tra l’estetica cinese classica, irrimediabilmente compromessa con il potere e la propaganda, eppure armoniosamente essenziale, e l’estetica postmoderna, che ammassa e riusa le rovine come materiali da riporto piuttosto che reliquie. Segnato dall’esperienza avanguardistica del gruppo pechinese Stars e dal passaggio newyorkese tra 1981 e 1993, Ai Weiwei non può essere, né politicamente né esteticamente, un nostalgico della Cina che fu: il culto della forma, che dà senso all’insieme, glorifica una poetica della trasformazione e dell’inutile, alla cui base stanno geometrie primarie, astrazioni concettuali e impraticabilità oggettive. Il tavolo con due gambe sul muro (1997) e le sedie riunite a grappolo a formare un cerchio (Grapes, 2010) esaltano il nonsense e sfidano la gravità, facendo dell’opera d’arte una provocazione assoluta alla società consumistica e alla conoscenza rassicurante. Se non servono, gli oggetti significheranno: al contrario della pop art, che dà dignità all’oggetto, l’esperienza di Ai Weiwei lo svincola dalla sua oggettualità e lo traspone sul piano di un’interrogazione metafisica. Dall’essere prigioniero (gli ammassi di oggetti costretti a forma) si sprigiona un’eccezionale energia creativa, che sfida la storia e la percezione con un gesto che chiede di essere decostruito: al dolore non c’è consolazione, ma le barre d’acciaio raddrizzate e composte orograficamente in un memorial per i 5196 caduti (tutti studenti) del terremoto nella provincia di Sichuan nel 2008 (Straight, 2008–2012) ricordano la terribile complicità umana nelle conseguenze delle catastrofi naturali. Erano tutte scuole, infatti, gli edifici che crollarono, circa cinquanta, costruite malamente per motivi speculativi, le cosiddette «tofu-dregs constructions», edilizia a rimasugli di tofu: da lì, dalle macerie, provengono le barre, che i lavoratori di Ai hanno riportato alla forma originale. Il caos ridotto a ordine non ricompone, ma destabilizza e denuncia: un impegno dello stile, che non è didascalica retorica, ma effetto, shock senza catarsi.
Armonioso (He Xie), parola-chiave della propaganda governativa cinese, è sinonimo di «granchi di fiume», presso i quali Ai Weiwei invitò amici e seguaci a radunarsi per celebrare il completamento e la demolizione dello studio a Malu Town che il governo di Shanghai gli aveva richiesto, ma il governo federale aveva proibito e ordinato di distruggere: smontare la contraddizione ha prodotto un’urna funeraria di 2 metri x 5 con i resti dei mattoni dopo la demolizione (He Xie, 2011). Vittima della censura di regime, incarcerato per 81 giorni e privato di passaporto dall’aprile 2011 fino al luglio 2015, Ai Weiwei porta su di sé lo stigma della ribellione, perché suo padre, il grande poeta Ai Qing, fu arrestato e perseguitato per aver difeso l’amico e scrittore Ding Ling dall’accusa di essere un uomo di destra, contrario alla collettivizzazione e fautore del capitalismo, durante la grande repressione del 1957-’59 (Weiwei era appena nato): di qui un vitalismo estremo, che lo ha portato a sperimentare materiali straordinariamente vari (legno, ceramica, marmo su tutti) e linguaggi ormai codificati (dalla performance pubblica all’istallazione museale) ma spinti al confine, in modo da esplorare i margini di un’umanità che non conosce riscatto perché vive l’obbedienza come paura anziché come scelta. Distruggere un vaso della dinastia Han, pitturargli sopra la scritta Coca-Cola e rifarlo in ceramica ricoperta di acrilico sono lo stesso gesto iconoclasta, demistificante e decostruttivo, di chi l’autorità è disposto ad assorbirla per metterla in questione, ma mai a subirla, introiettandola senza farsene schiavo.
La carica politica è innegabile, ma appunto non passa solo attraverso i gesti scandalosi, l’attivismo militante e la divulgazione ideologica: è piuttosto un atto formale, di chi sa guardare all’estetica oltre che all’etica del messaggio. Dare forma significa far implodere dall’interno le contraddizioni che quella forma, in condizioni abituali, cercherebbe di ricomporre o di nascondere: nessuna nuova Cina esisterà se la vecchia Cina è ridotta in macerie, senza memoria e senza coraggio. Fino a subirne la nemesi, perché tre anni fa, parodia della distruzione da lui operata, il collezionista svizzero Uli Sigg distrusse la famosa Coca-Cola Urn di Ai, fotografato da Manuel Salvisberg per Fragments of History, e l’anno scorso durante una mostra a Miami un vaso Han ridipinto da Ai fu distrutto da un vandalo, con successiva condanna a diciotto mesi di carcere: fino a che punto l’artista è legittimato a distruggere perché il suo gesto è significante, mentre l’uomo comune deve solo osservare e contemplare? Il discrimine è nella percezione, che immette il primo gesto nella tradizione e costringe il secondo all’attualità; ma forse non basta.
Gigantesco nelle dimensioni e scandalistico nelle provocazioni, Ai Weiwei è e resta assolutamente cinese, e in questo essere cinese è mondiale: stare a casa, nella terra e nella cultura in cui si è nati, significa attraversarne i frammenti del passato e ricomporli per l’oggi. I confini si oltrepassano accettandoli e le diversità convivono solo se coesistono: l’ingresso di oggetti domestici (una poltrona in marmo nero in una foresta di alberi oppure un passeggino in un marmoreo prato d’erba alta) ricorda come gli imperatori costruivano l’immagine del potere mostrando oggetti di uso comune in materiali preziosi. Sdoppiarsi per guardare dall’altro punto di vista, sempre: un lampadario la cui montatura è costituita da telai di biciclette chiude la mostra, a unire memoria storica e cultura di massa in un abbraccio che illumina, bello e razionale.
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