venerdì 25 settembre 2015

Oriente e Occidente secondo Moravia































In realtà non c'è traccia di Huntington, nelle considerazioni di Moravia. E' il giornalista che ciurla nel manico [SGA].



Moravia in Oriente L’intuizione del conflitto di civiltà

A venticinque anni dalla morte, i reportage dello scrittore romano conservano la loro attualità “La distanza tra noi e gli arabi diventa un pericolo” 

Paolo Di Paolo La Stampa 25 9 2015

Seduti su grandi massi, Elsa Morante e Alberto Moravia guardano in direzioni opposte. Lui si è tolto la cravatta, gli occhi verso il basso, pensosi. Lei, di spalle, indica un punto lontano. È una delle tracce fotografiche più suggestive di un remoto viaggio in Iran, riemerse fra le carte conservate a Roma nel Fondo Moravia. Lo scrittore – scomparso il 26 settembre di venticinque anni fa – aveva attraversato in compagnia della moglie città come Ramsar, Teheran, Isfahan oltre ai resti dell’antica Persepoli, animato da una fame d’Oriente, «insaziabile», che resterà viva nel tempo. 
Siamo tra la fine del 1958 e l’inizio del ’59: il cielo «accecante di luce», il mar Caspio che «in forma di rene se ne sta chiuso dentro il continente come, appunto, il rene dentro il corpo umano». Si è detto più volte della forza della scrittura di viaggio di Moravia: ciò che la rende smagliante è, accanto alla trasparenza della prosa, il movimento dialettico che la anima. Moravia parte senza pregiudizi: piuttosto, muove dalle idee per tornare alle idee (un’idea dell’India è un suo titolo famoso), e le mette alla prova; cerca indizi, segni che confermino o smontino un assunto. Venuto da dove? Un’intuizione, una lettura. «L’aspetto stesso dell’oasi confermava l’idea del miraggio» annota dalle parti di Isfahan. Contempla la città dall’alto ed è colpito dal limite fra città e deserto: la natura circostante, «desolata e feroce, sembra negare ogni diritto di esistenza» al villaggio. Ecco perciò che l’idea del miraggio è confermata dalla realtà: «quel delicato, pallido, velato colore dei giardini; quel tremolare labile dei filari dei pioppi allineati lungo i canali di irrigazione; quell’incerto delinearsi delle abitazioni in tasselli, rettangoli, strisce color sabbia, tra l’arruffio quasi azzurro della vegetazione».
L’idea del miraggio è ulteriormente confermata, agli occhi di Moravia, dalla conservazione perfetta dei monumenti, risalenti perlopiù al diciassettesimo secolo – «il colpo di bacchetta magica di un incantatore». Moravia accosta la Piazza Reale di Isfahan a Piazza San Marco: questa, come quella, è «un immenso rettangolo di proporzioni misteriosamente armoniose». Anche questo apparentare il noto all’ignoto, il familiare all’esotico, è tipico del ragionamento di Moravia, non solo in viaggio: lo sforzo appassionato, da razionalista, di ridurre il caos del mondo e della vita a una sua nuda trama, a una matrice ultima e replicabile, come la doppia elica del Dna. 
Di questo viaggio di Moravia in Oriente resta un’altra traccia dispersa: un discorso tenuto nell’estate del 1960 in Brasile, a un convegno internazionale del Pen Club, di cui lo scrittore romano era allora presidente. A Rio de Janeiro è raffreddatissimo – luglio è il mese più freddo –, tuttavia apre i lavori con slancio e parlando in francese. Ciò che dice, con la consueta semplicità quasi apodittica, è sorprendente: i rapporti fra l’Oriente e l’Occidente sono non soltanto materia di guerra o di pace del domani, ma sono anche alla base delle culture che prospereranno in futuro. 
Delle recenti tappe in Iran gli resta la sensazione di avere viaggiato nel tempo: il viaggiatore che parta dal cuore dell’Occidente e atterri in Siria o nelle zone dell’antica Persia, sostiene Moravia, lascia la propria epoca e torna indietro di secoli, può vedere dal vivo ciò che hanno visto i suoi antenati. Da questa prospettiva, la convivenza di paesi che già vivono nel futuro con paesi chiusi nella preistoria, gli pare inevitabilmente foriera di conflitti. La stabilità dell’Oriente – con i suoi regimi, imperi, che durano a lungo, per secoli – sarà incrinata dal suo affacciarsi sul nuovo, e dal contatto con la mobilità dell’Occidente. 
Siamo a un punto di inter-penetrazione, annunciava Moravia oltre mezzo secolo fa: l’Oriente e l’Occidente si toccano, si uniscono, la confusione e la disgregazione che ne deriva produrranno dolore ma anche una promessa per il futuro. L’Occidente precipita «in un vortice vuoto», l’Oriente muta, si muove. Perde qualcosa, altro guadagna. «Abbiamo bisogno dell’Oriente» conclude Moravia, con una frase sibillina: «Ha sempre gettato luce sul nostro buio». 
Molti anni dopo, verso la fine della sua vita, torna in Oriente. In cerca, ancora una volta, di indizi di cambiamento. Gli arabi sono vicini, scrive nel novembre 1985, ma sono anche lontani: «perché né noi né loro abbiamo sinora abbreviato le distanze enormi delle nostre due culture. Ora, tutti i pericoli che minacciano il piccolo pianeta Terra sono in gran parte dovuti a queste distanze». Non è questione di profezie: il quasi ottantenne Moravia, parlamentare europeo ossessionato dalle minacce di un inverno nucleare, non si ferma. Non accetta di vedersi archiviato come un classico. Si occupa dell’Iran di Khomeini e delle guerre sante che, in un mondo «razionale e ultratecnologico», non hanno niente di religioso ma si rivelano conflitti fra nazioni, fra stati sovrani. Riflette sull’Europa patchwork senza identità e sulla siccità del suo spirito. Come «un elefante vivo che finge di essere un monumento», Moravia si muove, viaggia, interroga il mondo. Soprattutto, si affaccia sul futuro. E lo vede.

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