Nel 2000 Norman Finkelstein, storico e scrittore ebreo americano e figlio di sopravvissuti allo sterminio, scrisse «L’Industria dell’Olocausto», un libro provocatorio, apprezzato da Noam Chomsky ma di alterna fortuna e scontro, dichiaratamente scritto «contro ogni forma di speculazione, economica e politica, sulla memoria della Shoah». Egli rispondeva così alle domande sul perché della sua provocazione e indignazione: «La risposta più ovvia è che è stato usato per giustificare la politica criminale dello Stato di Israele e il sostegno americano a tale politica».
Le dichiarazioni di Benyamin Netanyahu sulle responsabilità del Gran Muftì di Gerusalemme come principale responsabile della «Soluzione finale» ne sembrano ora una diretta testimonianza. La fondatezza storica delle affermazioni di Netanyahu è stata per fortuna già confutata dagli storici, israeliani e non. Ma qual è la ragione di questa affermazione, in questo particolare contesto? Netanyahu non è stupido, ma è arrogante, dice e fa quello che ritiene utile per i suoi fini infischiandosi delle reazioni che può provocare.
A mio parere lo scopo del suo discorso è duplice. Intanto siamo di fronte al paradosso che il premier israeliano rischia di confermare proprio le tesi provocatorie di Finkelstein.
Imputando al Gran Muftì di Gerusalemme la responsabilità nello sterminio gli ebrei, Netanyahu cerca di giustificare storicamente quello che la propaganda governativa israeliana sostiene da sempre: gli «arabi» ci odiano e ci vogliono distruggere perché antisemiti. Israele, dopo la Shoah, è legittimata a difendersi a qualunque prezzo. La pulizia etnica, il furto delle terre, lo strangolamento dell’economia, il razzismo e le politiche di apartheid non sono la causa della disperata rivolta dei palestinesi di questi giorni. Le aggressioni all’arma bianca colpiscono gli ebrei in quanto tali, poco importa che siano soldati di un esercito di occupazione o coloni che rubano la terra ed attaccano i villaggi palestinesi.
Dare la colpa al Gran Muftì ha un secondo fine: scagionare l’Occidente delle proprie colpe storiche. Significa porsi dalla parte della civiltà europea contro la «barbarie» orientale, rappresentata dall’Isis. Non a caso Israele ed i suoi sostenitori insistono sul parallelo tra i gruppi della resistenza armata di ispirazione islamica e gli attacchi palestinesi di questi giorni, con lo Stato Islamico. Destoricizzare e decontestualizzare quanto avvenuto nel XX secolo e quanto avviene in Palestina, assolutizzare il ruolo degli ebrei, incarnati nello Stato di Israele, nel ruolo di vittime distoglie l’attenzione sulle cause profonde del conflitto. Così è inutile indagare sulle caratteristiche del carnefice del popolo ebraico: tutti gli altri popoli lo sono stati o lo possono diventare in qualunque momento. Ora quello che conta è dimostrare che chi sta praticando l’antisemitismo sono i musulmani, i palestinesi.
È evidente quanto ci sia di immorale, di «pornografico» nel discorso di Netanyahu. A chiunque abbia vissuto, anche indirettamente, la tragedia delle persecuzioni razziali e dello sterminio, a chiunque abbia a cuore la memoria delle vittime (di tutte le vittime), queste dichiarazioni non possono che ripugnare. Come durante «Margine protettivo», non mancheranno sicuramente le prese di posizione nette da parte di sopravvissuti e discendenti di sopravvissuti all’Olocausto contro questa volgare mistificazione. Ma ci vuole una forte mobilitazione internazionale, sopratutto della società civile, per porre fine ad un regime che tenta, speculando persino sulla memoria dei morti, di legittimare un sistema di dominazione nei confronti del popolo palestinese.
Gli Usa: ora basta frasi incendiarie Il leader israeliano vede Kerry e Merkel e smorza i toni Malumori nel governo, partita la corsa alla successionedi Maurizio Molinari La Stampa 23.10.15
Reduce da una settimana di errori e difficoltà, il premier israeliano Benjamin Netanyahu sceglie il basso profilo nell’incontro a Berlino con John Kerry, che al termine si dice «cautamente ottimista» sulla possibilità di mediare con i palestinesi di Abu Mazen «un accordo per porre fine alle violenze»
L’indebolimento politico di Netanyahu nasce da quanto è avvenuto in Israele negli ultimi giorni: l’ala destra della coalizione di governo ha obbligato il premier alla marcia indietro sul posizionamento di una barriera per separare alcuni quartieri arabi ed ebraici di Gerusalemme, e poi è stato il premier a commettere l’errore di attribuire al Gran Mufti Al-Husseini la decisione dello sterminio degli ebrei da parte di Hitler, ritrovandosi isolato come mai avvenuto nella sua lunga carriera. Perfino il vicepremier Silvan Shalom, parlando alla radio Kol Israel da Parigi, ha mostrato esitazioni nel sostenerlo sulla rilettura della genesi della Shoah.
In lizza Benny Gantz
«In una nazione politicamente vivace come Israele - osserva Ori Katzir, ex portavoce del premier Ehud Barak - ciò significa accendere i riflettori sui possibili successori di Netanyahu come Gilad Erdan e Nir Barkat a destra oppure gli ex generali Benny Gantz e Gabi Ashkenazi a sinistra». Per la Casa Bianca di Barack Obama l’indebolimento interno di Netanyahu è una carta politica da giocare. Per questo il portavoce della Casa Bianca Eric Schultz mette l’accento sullo scivolone del premier sulla Shoah rimproverandogli una «retorica delle provocazioni che non giova al contenimento delle violenze».
Nei briefing del mattino a Berlino con i suoi collaboratori l’atmosfera attorno a Netanyahu era pesante e ciò spiega perché il premier nel bilaterale con il Segretario di Stato John Kerry abbia scelto un basso profilo. Anche nelle dichiarazioni alla stampa, ha rimproverato al presidente palestinese Abu Mazen di «dire bugie che innescano le violenze» ma senza ripetere gli aspri attacchi precedenti. In tale cornice, Kerry si dice «cautamente ottimista» sulla possibilità di «smorzare le tensioni e individuare una via d’uscita» dall’«Intifada dei coltelli».
Il nodo dei luoghi santi
Il portavoce del Dipartimento di Stato, John Kirby, definisce «approfondito e costruttivo» l’incontro fra Kerry e Netanyahu perché sono stati esaminati nel concreto possibili passi avanti per «rafforzare e migliorare» lo status quo del luogo santo di Gerusalemme che i musulmani chiamano «Haram el-Sharif» - conosciuto come Spianata delle moschee - e gli ebrei Monte del Tempio. «Kerry e Netanyahu hanno discusso misure che Israele potrebbe adottare per mantenere lo status quo che gli consente di gestire la sicurezza ma include la proibizione delle preghiere di non musulmani» afferma una nota. Di queste «misure» parlerà Kerry domani ad Amman con il re giordano Abdallah ed Abu Mazen - anch’egli indebolito dall’errore di aver accusato Israele di aver ucciso un bambino palestinese ancora vivo - per arrivare a una «posizione comune sullo status quo» al fine di innescare una nuova dinamica regionale.
di Gian Enrico Rusconi La Stampa 23.10.15
La storia si manipola quando si strumentalizzano intenzionalmente momenti, aspetti, passaggi problematici della vicenda storica - a fini politici.
In questo caso, il premier israeliano ha attribuito al Gran Muftì di Gerusalemme Amin al Husseini la responsabilità d’aver convinto Hitler a sterminare gli ebrei anziché procedere al loro trasferimento fuori dalla Germania.
Netanyahu fa questa affermazione in un momento di estrema conflittualità tra ebrei e palestinesi, mettendo insieme tre elementi: l’esistenza negli ambienti nazisti di una alternativa allo sterminio; la presunta indecisione di Hitler su come intendere e attuare la «soluzione finale» e il filonazismo e l’antisemitismo radicale del Muftì.
E’ opportuno fare chiarezza su questi punti per ristabilire la verità nella sua complessità, anche a beneficio di una politica che deve agire oggi con memoria vigile in un contesto molto diverso.
Un punto però è fuori discussione. Lo ha espresso con chiarezza il portavoce della cancelliera Angela Merkel: «Noi tedeschi conosciamo molto bene la storia della pazzia razzista criminale dei nazionasocialisti che ha condotto alla catastrofe di civiltà della Shoah. Non vedo alcuna ragione per cambiare in qualche modo il quadro storico. Conosciamo la responsabilità originaria tedesca per questo crimine contro l’umanità».
Anche Netanyahu la pensa così, ma nel suo discorso dà rilievo ad un dettaglio che implicitamente modifica il quadro storico: l’esistenza di un progetto diverso per colpire gli ebrei. Un progetto che sarebbe stato scartato per intervento del Muftì di Gerusalemme.
Qui Netanyahu fa confusione. Esisteva in effetti un’ipotesi alternativa allo sterminio con il trasferimento degli ebrei in Madagascar. Al ministero degli Esteri e anche in alcuni uffici d’emigrazione delle Ss si parlava di trasportare milioni di ebrei in quell’isola. Ma non c’era alcun progetto di fattibilità. Non si può escludere che fosse un’opera di disinformazione. Ma ottenne successo, dal momento che molti tedeschi ne erano convinti – anche quando vedevano intere famiglie ebree caricate sui vagoni ferroviari.
Ma è altrettanto certo che il colloquio tra il Muftì e Hitler cui si riferisce Netanyahu ha avuto luogo – 28 novembre 1941 – quando l’operazione che aveva di mira lo sterminio era già iniziata. Abbiamo testimonianze dirette di gerarchi e ufficiali in contatto con Hitler. Il 31 luglio 1941 Goering diede esplicitamente ordine al capo del Servizio di Sicurezza Reinhard Heydrich di «procedere alla soluzione finale del problema ebraico».
L’espressione «soluzione finale» è diventata per noi un termine-chiave inequivoco, ma non possiamo ignorare la sua ambiguità letterale. Qui si apre il capitolo del linguaggio dissimulatore e ingannatore che è parte essenziale della comunicazione nazista. Sono innumerevoli le parole apparentemente tecniche o neutre (emigrazione, pulizia, trattamento speciale, cambiamento di residenza) che nascondevano brutali realtà criminali.
Tornando all’incontro tra Hitler e il Muftì, questi (secondo Netanyahu ) avrebbe detto «Se cacciate via gli ebrei, verranno tutti in Palestina». «Allora che cosa devo fare di loro?» – avrebbe chiesto Hitler. «Bruciateli» – fu la risposta. Secondo il premier israeliano, il Muftì avrebbe anche accusato gli ebrei di voler distruggere la moschea sul Monte del Tempio.
Inutile dire come quest’ultima osservazione da parte del premier israeliano accentui ancora più esplicitamente il nesso che vuole proporre come autoevidente tra quegli eventi passati e il presente. Innescando un corto-circuito inaccettabile e pericoloso. La drammatica situazione di oggi in Israele richiede una intelligenza storica e politica ben più matura.
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