martedì 20 ottobre 2015

Ancora sul libro di Prospero, il renzismo, la fine della democrazia moderna in Italia

PROSPERO Nuovismo PIATTO
Rimane la domanda di fondo: dov'erano Prospero e i Prospero quando... ecc. ecc.? Io ricordo che scrivevano sull'Unità, o sul Manifesto, o lì vicino [SGA].

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Il Pd e il governo
Il partito che Renzi non ha
della Loggia Corriere  21 ottobre 201

L’avventurismo del senso comuneIl nuovo libro di Michele Prospero. Il «populismo mite» del potere è la cifra ideologica del capo. Che non è solo un produttore di annunci, ma un fattore di stabilitàdi Carlo Galli il manifesto 20.10.15
Più di vent’anni di politica italiana sono ricondotti, nell’ultimo libro di Michele Prospero (Il nuovismo realizzato. L’antipolitica dalla Bolognina alla Leopolda, Roma, Bordeaux, 2015, pp. 418, euro 26) al filo conduttore dell’antipartitismo, e in generale dell’antipolitica che nei partiti ha avuto la propria testa di turco.Un’antipolitica solo parzialmente spontanea — generata da una rivolta etica contro il sistema politico degenerato — e in gran parte indotta dall’alto, da agenzie di senso e da poteri mediatici (a loro volta riconducibili a forze economiche) interessati al risultato dell’antipolitica: non solo distruggere i partiti esistenti (un disegno di lungo periodo della storia d’Italia, prevalentemente connotato a destra, da Minghetti a Maranini a Miglio), realizzando una discontinuità radicale (un’idea a cui non si sottrassero però né il Pd di Occhetto né i Girotondi, e che fu il cavallo di battaglia del primo Berlusconi), ma screditare la forma partito in quanto tale (s’intende, il partito pesante, organizzato, che è spazio di confronto e di partecipazione dialettica, ovvero di mediazione). E aprire così la strada al Nuovo, che è un miscuglio di ideologia (la società liquida, l’individualismo postpolitico, l’immediatezza) e di solida realtà, tanto istituzionale (il partito leggero, la democrazia d’investitura, lo spostamento del potere verso l’esecutivo, il leaderismo pseudo-carismatico) quanto economica (la fine della politicità del lavoro, la sua precarizzazione e la sua subalternità) quanto infine sociale (l’aumento delle disuguaglianze, il declino — programmato — del ceto medio).
Prospero, per questa via, incontra (convocando un grande materiale analitico in chiave prevalentemente politologica) una contraddizione strutturale dell’intero processo storico-politico preso in esame, ossia le due crisi di sistema del 1993–94 e del 2013–14, tutta la seconda repubblica e l’inizio della terza: da una parte vi è in questa storia un dato di occasionalità, di contingenza, e quindi vi è preponderante l’agire di una persona (ovviamente, Renzi) e anche il suo dire, il suo narrare, il suo raffigurare per il popolo un altro mondo, ricco di speranza e di ottimismo e quindi ben diverso da quello di cui la maggior parte dei cittadini fa esperienza. Questo livello è spiegato con frequenti riferimenti a Machiavelli, non tanto perché l’autore sostenga che Renzi incarna il “Principe nuovo” — anzi, spesso attraverso Machiavelli si mettono in rilievo debolezze e fallacie del suo agire, la sua propensione alla fuga nell’irrealtà, al «romanticismo politico», a un decisionismo fatto di annunci — quanto piuttosto per il peso inusuale («rinascimentale») che la figura del singolo ha nella vicenda politica contemporanea.
D’altra parte, nondimeno, questa figura di Principe immaginario e dopo tutto incapace di dare una forma alla repubblica, impegnato com’è a gestire continue emergenze in continue affabulazioni, è contraddetta dalla robustissima realtà delle profonde trasformazioni che il suo agire produce: veramente il partito è sul punto di estinguersi e di divenire un corteo di obbedienti seguaci, in perenne lotta tra loro (soprattutto attraverso lo strumento delle primarie, che doveva essere di apertura alla società civile e che invece è una leva per i conflitti interni), mentre nei territori le cordate di potere prendono il posto della partecipazione; veramente le istituzioni (e il parlamento in primo luogo) sono indebolite dalla personalizzazione della politica, e trovano energia politica solo in quelle che erano state pensate come posizioni di garanzia (Quirinale e Consulta); veramente la politica è ormai competizione fra leader populisti extraparlamentari per la conquista di un elettorato sempre più passivo (anche se in parte estremizzato); veramente questi processi si sono sviluppati coinvolgendo tanto la destra quanto la sinistra fino all’attuale formarsi, non casuale, di un partito di Centro la cui forza di gravità spappola ogni altra formazione politica; veramente sono stati varati il jobs Act e la legge elettorale per la camera ed è in corso di approvazione la riforma della Costituzione; veramente il sindacato è stretto nell’angolo e gli viene sottratta la contrattazione nazionale; veramente la sinistra fatica (ed è un eufemismo) a trovare una base sociale, una chiave di lettura del presente, una missione politica; veramente l’astensione e il populismo assorbono e neutralizzano le energie che potrebbero essere di protesta; veramente l’analisi strutturale della realtà passa in secondo piano rispetto alla traduzione emotiva dei problemi e alla questione della legalità.
L’occasionalismo produce un ordine, quindi; l’avventura personale costruisce forma politica, la chiacchiera è largamente performativa; l’immediatezza è anche mediazione. Un ordine, certo, non inclusivo ma escludente — che espelle da sé le contraddizioni, perché non le teme (e in ciò il Pd è ben diverso dalla Democrazia Cristiana, pur riprendendone il ruolo centrale di pivot e di diga) — e che cerca una base di consenso nel livello più semplice del senso comune (molto bene interpretato), eludendo o smorzando ogni tema controverso ed escludendo il pensiero critico (i «gufi», i «professoroni»); una forma contraddittoria, segnata dalla conflittualità fra quel che resta del vecchio partito e il nuovo leader, fra antichi professionismi e il nuovo «populismo mite» che è la cifra ideologica del Capo (tutt’altro che dilettante, in verità). Eppure, con queste contraddizioni, Renzi è non solo un problema, ma anche una soluzione; non solo un coacervo di azzardi e di provvisorietà ma anche un fattore di stabilità; non solo un produttore d’annunci e d’irrealtà ma anche un fabbricante di realtà e di processi.
È una realtà condizionata dal populismo (Berlusconi è il populismo nichilistico-aziendalistico, Grillo è il populismo aggressivo dal basso, Renzi è il populismo mite del potere), funzionale, in quanto implica una società disgregata che non deve essere letta politicamente, alla presenza onnipervasiva di logiche e valori liberisti, rispetto ai quali la sinistra (il Pd) è, non certo da oggi, del tutto interna. Ma è realtà, o almeno fascio di potere efficace. È vano pensare che il tempo breve, l’attimo, dell’occasione e della decisione non abbiano la forza di reggere l’assetto della politica; anzi, ne sono capaci, si dilatano in un’eccezione permanente che è il tempo lungo in cui si presentano oggi il potere e la libertà che esso concede.
La risposta a ciò della sinistra, secondo Prospero, è il partito organizzato, capace di esprimere ripoliticizzazione della società, partecipazione popolare e leadership autorevole (non populista). Più facile a dirsi che a farsi, naturalmente. Certo è che la sinistra avrà un futuro solo se saprà pensarsi a questa altezza, e se a partire dalle contraddizioni del presente, ben identificate, saprà proporre un modello di società che combini in sé, con la stessa forza, un’analoga e opposta capacità di tenere insieme l’immaginario e il reale.


Quel confuso progetto di ricostituire il Centro
L’utopia del Centro frenata dal renzismo e dal nuovo Italicum Così il Pd approfitta dell’effetto-calamitadi Federico Geremicca La Stampa 21.10.15
Ci sono due modi per tentare di analizzare e descrivere l’impasto di rancori, confusione e progetti politici che agita l’indistinto «universo centrista» ed un suo possibile rapporto con il Partito democratico.
Il primo consiste nel prender sul serio quei progetti e attribuire loro un profilo di sensatezza e serietà; il secondo prevede una lettura più disincantata, e guarda a quei movimenti come all’agitarsi disperato di partitini – talvolta perfino di singoli parlamentari – in lotta per la sopravvivenza. Giusto per dire le cose con una certa chiarezza.
È dalla scomparsa della vecchia Dc, infatti, che il sistema politico – privato del suo cardine di centro – ha provato a ricostruirne un altro, senza mai riuscirci. Inizialmente, la causa dei ripetuti fallimenti fu attribuita alla presenza in campo di un Silvio Berlusconi troppo forte. «È Forza Italia – si diceva – l’ostacolo alla rinascita di qualcosa che somigli alla Dc». Ora che Forza Italia è in rotta, però, quel progetto – paradossalmente – appare ancor più astratto e complicato: nonostante – o forse proprio in ragione – del moltiplicarsi di sigle, partitini e gruppi che si richiamano, appunto, al centro. Perché?
I motivi sono fondamentalmente due. Il primo è che a Berlusconi si è ormai sostituito Renzi, con uguale forza attrattiva e ambizione a rappresentare interessi moderati e di centro; il secondo è che a pochi mesi dalla nascita di una legge elettorale – l’Italicum – fortemente maggioritaria e bipolare (anzi, quasi bipartitica) l’idea di ricostruire una forza-cerniera di centro somiglia molto, in quanto a concretezza, alla famosa idea di aprire una gelateria al Polo Nord...
Sono questi elementi a render poco credibili i fumosi progetti in campo e a farli somigliare all’agitarsi disperato di personaggi (e partiti) in cerca d’autore: in questa circostanza, cioè, in cerca di una casa e probabilmente di una ricandidatura. Ed è proprio la debolezza dell’idea di una ricostruzione del centro (della quale gli stessi protagonisti sono probabilmente consapevoli) a far guadagnare posizioni alla seconda opzione politica: che, a dirla tutta però, non appare più concreta della prima...
Potremmo definire quell’opzione «effetto calamita»: cioè, tutti dentro il Pd. Essa evoca di colpo un’altra leggenda metropolitana che aleggia da tempo sul sistema politico italiano: il Partito della Nazione. Un partito mai nato, che probabilmente mai nascerà, ma il cui fantasma è utile a descrivere – non benevolmente – l’evoluzione del Pd e i progetti (più o meno segreti) di Matteo Renzi. Visto da sinistra (dalla stessa sinistra Pd) il Partito della Nazione rappresenta il ricettacolo di ogni trasformismo e di ogni ambiguità. Visto da destra, invece, è la possibilità di un riscatto e di un ritorno in gioco.
Il tempo dirà che ne sarà di quel fantasma. Oggi ci si può limitare ad osservare quanto il Partito della Nazione somigli – in termini di possibilità di propaganda antirenziana – al mai dimenticato Patto del Nazareno: fu descritto come l’«asse di ferro» Renzi-Berlusconi, il luogo di accordi segreti per favorire l’ex Cavaliere, il terreno dello snaturamento del Pd. Si è visto com’è finita: Berlusconi in un angolo e dieci punti percentuali in meno al suo partito. A Napoli si direbbe facile facile: «cornuto e mazziato»...
L’«effetto calamita» però c’è, esiste e produce novità. Denis Verdini (che votava in Parlamento col Pd fin dai tempi del governo Letta) è diventato il simbolo di tutta la «melma politica» che sarebbe in movimento verso il Partito democratico, per snaturarlo e trasformarlo in una forza conservatrice. E Verdini è solo la faccia meno presentabile tra le tante già in movimento verso il partito che fu di Prodi e Veltroni: la coda, si dice, sarebbe lunga.
Che questo faccia aumentare di intensità le tensioni interne al Pd è dunque comprensibile: e se il tutto non sfocia in una vera e propria scissione – ma solo in abbandoni solitari – è in parte per una legge elettorale che ucciderebbe in culla qualunque nuovo progetto politico, ed in parte – e comprensibilmente – perché i «fondatori» non intendono cedere la proprietà della «ditta» al segretario-usurpatore. Che la scissione resti lontanissima all’orizzonte non significa, però, che la pentola Pd non sia in ebollizione...
A far notizia, nelle ultime ore, sono i disagi che comincerebbero a serpeggiare anche nel giro dei renziani della primissima ora. Si citano i distinguo di Graziano Delrio intorno ai rapporti con Verdini e si elencano altri «mal di pancia». Possibile che sia così; difficile, però, che questo induca Renzi a cambiar strada. Del resto, nel processo di crescita e di conquista del Pd, non è che il «rottamatore» non abbia già abbandonato per strada compagni della primissima ora: da Roberto Reggi a Giorgio Gori, da Matteo Richetti a Simona Bonafè l’elenco comincia a farsi lungo. Lungo ma non serio, evidentemente: visto che il premier-segretario continua a tirar dritto per la sua strada... 

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