giovedì 29 ottobre 2015
Circonvenzione: Dorfles e Pomodoro portati in giro all'Expo, il Novecento messo al servizio del renzismo
Due maestri del Novecento E il loro sguardo sul futuro
Gillo Dorfles e Arnaldo Pomodoro, una giornata particolare all’Expo
29 ott 2015 Corriere della Sera di Gianluigi Colin
Due ragazzi di un altro secolo si aggirano col naso all’insù tra i padiglioni dell’Expo. Appena varcata l’entrata del Padiglione Zero, di fronte a un’immensa installazione che richiama le biblioteche dei monasteri, uno dei due, quello con più esperienza, dice secco: «Mi sembra un po’ classicheggiante, ma dov’è il futuro?»
Chi conosce Gillo Dorfles, anni 105 compiuti ad aprile, non si stupisce. Come sempre, il grande critico d’arte, docente di estetica e fine osservatore di «mode e modi» della società, guarda il mondo con gli occhi attenti, ma disincantati, di chi ha visto e letto molto. A Dorfles non interessa il passato. Lo conosce. Lo interessa di più il presente ed è curioso di capire (sempre) quello che accadrà domani. Così, il primo impatto con la potente scenografia barocca della prima sala del Padiglione Zero, metafora della memoria e contenitore delle idee dell’intera Expo, lo sconcerta e lo conduce a interrogarsi a voce alta: «Ma dov’è il futuro?». E lo ripete rivolgendosi all’amico Arnaldo Pomodoro (che di anni ne ha 89), grande scultore e compagno di questo viaggio davvero unico nel cuore dell’Esposizione universale per riflettere del futuro. E non solo di quello, a pochi giorni dalla chiusura, del dopo Expo.
Questa è la storia di una giornata particolare, anzi della giornata davvero speciale di due grandi maestri (insieme fanno 194 anni) chiamati a riflettere sul futuro. Aldo Colonetti, filosofo di architettura e di design, lontano amico sia di Pomodoro che di Dorfles (con lui si è anche laureato), rassicura subito il vecchio professore: «Aspetta Gillo, vedrai, vedrai, questa è solo l’entrata che parla della memoria. Tutto il resto ti stupirà...». È stato lui a sollecitare i due amici a fare questa esperienza. E lo stupore, in effetti, arriva subito: davanti agli occhi si manifesta una grande installazione sul tema della terra, con centinaia di strumenti originali del lavoro dell’uomo provenienti dai musei etnografici. Alle pareti, come fosse un’opera di Damien Hirst, milioni di sementi di ogni colore: una vera catalogazione estetica dell’origine della natura che lascia sorpresi Dorfles e Pomodoro. «Bello, chi ha fatto tutto questo? È un lavoro immenso...», chiede Dorfles. Aldo Colonetti spiega che lo spazio è stato progettato da Michele De Lucchi ed è stato curato nei contenuti da Davide Rampello. Qui tradizione progettuale e tecnologia si fondono in un allestimento spettacolare dove il rapporto tra uomo e natura viene rappresentato in una narrazione tra simboli, mitologie e realtà. E i due, che di Expo ne hanno viste molte: «Veramente notevole, non ci aspettavamo un allestimento così potente...». Ma eccoli (incredibilmente a passi svelti) approdare davanti a un enorme muro multimediale: qui le pubblicità dei prodotti alimentari e, in diretta, i valori della Borsa su consumo, quantità, produzione e andamento dei prezzi. Le infinite cifre e le immagini che scorrono sui video ci fanno capire che non mangiamo più quello che vogliamo, ma solo quello che, in un modo o nell’altro, ci viene imposto di mangiare. Un messaggio non da poco.
Si esce dal Padiglione Zero e, grazie alle piccole golf car messe a disposizione dall’organizzazione, si ha una visione d’insieme, delle ardite architetture innanzitutto, ma anche della complessità strutturale di una cittadella di un milione di metri quadrati che unisce 140 Paesi del mondo con 54 padiglioni di singoli Stati.
Si raggiunge il Decumano. «Vedete — spiega Matteo Gatto, uno degli architetti che ha coordinato il progetto Expo e che ha fatto da guida — è lunga quanto corso Buenos Aires, da Porta Venezia a piazzale Loreto». «Bellissima questa Expo, ideale per una città come Milano che di per sé è già una specie di Expo, tutto l’anno», replica Dorfles. «Era necessario visitarla, sarebbe stato un errore non venire, avendo in questi anni visitato altre esposizioni. Ma questa ha un impianto urbanistico che non mi aspettavo: solido, preciso e razionale. Forse è anche una specie d’invito alla città vera per riprendere in mano questa disciplina, senza la quale l’architettura molte volte diventa un esercizio solo di stile».
Dorfles e Pomodoro sono impressionati dal fiume di persone che scorrono senza sosta lungo il Decumano. Alcuni si fermano incuriositi e chiedono timidamente allo staff: «Sono importanti quei signori?». Dorfles continua senza farci caso: «Più che le architetture mi ha impressionato la gente, un vero “popolo” di visitatori: bambini, vecchi, giovani, famiglie. Qui vive una città intesa come insieme di differenze. Anche questo è lo spirito di Milano».
Arnaldo Pomodoro aggiunge: «Apprezzo questa Expo come insieme di architetture, allestimenti, linguaggi estetici e simbolici da tutto il mondo. La narrazione del Padiglione Zero è una specie di racconto intorno al recupero di ciò che noi siamo stati, siamo e saremo attraverso il lavoro e la trasformazione della natura. Expo è una citta nella città, si tratta ora di farla dialogare con la città storica, mettendo al centro gli abitanti, le persone vere, come sono veri i suoi visitatori. Dobbiamo gettare uno sguardo al di fuori dei nostri recinti: il Decumano da questo punto di vista è una sorta di Champs-Élysées, una strada che accoglie le voci e l’energia del mondo».
Un’energia simboleggiata anche dal Seme d’arancia, la scultura di Emilio Isgrò, realizzata in marmo di Carrara (con la collaborazione di Paolo Carli, presidente di Henraux), che svetta davanti al Padiglione Zero e che andrà poi stabilmente al Parco Sempione, vicino all’Arena. «Domina bene lo spazio», commenta Dorfles. È arrivato il momento di una pausa per un caffè in mezzo al bosco: il padiglione austriaco è forse uno dei più apprezzati per la semplicità e la potenza del messaggio: è stato ricreato un bosco come simbolo della natura da difendere. La natura è vita e senza natura non si va da nessuna parte. Dall’Austria si arriva a Casa Corriere, in cui ogni giorno ci sono incontri, dibattiti, performance d’artisti. Pomodoro e Dorfles, è il caso di dirlo, si sentono a casa. Fotografie di rito, la registrazione per un video (per il sito del «Corriere»), qualche autografo.
Ma c’è ancora un importante appuntamento: con Giuseppe Sala. Nello studio essenziale del commissario unico, l’unica nota di colore sono tre Chester rosse di Poltrona Frau e, sul tavolino,un libro con la copertina dello stesso colore: The Wealth of Russia, omaggio personale di Putin. Si va subito al nocciolo della questione: «Il tema centrale è il dopo», sottolinea Sala. E precisa: «Quest’area ha un grande vantaggio ed è la logistica, l’accessibilità e la facile aggregazione delle persone: è molto vicina al centro e semplice da raggiungere. C’è una cosa sbagliata nell’Esposizione universale: quando una città presenta la sua candidatura dovrebbe già fornire anche un progetto per il dopo. Questo ora non accade».
«Vedrei quest’area come un nuovo borgo della città», replica Dorfles. «È molto importante che sia viva tutto il giorno, mescolando funzioni diverse; non solo luogo di studi e di ricerca, ma anche e soprattutto un nuovo tipo di abitare, intrecciato con il tempo libero, i divertimenti, la cultura, ma intesa come esperienza quotidiana».
«Francamente penso che l’Expo non sia la cosa più bella del mondo», replica Sala con lo sguardo di un uomo colto e sofisticato, ma soprattutto di concreto manager: «L’Expo è un classico esempio di cultura Pop, ed è anche forse la sua forza, la sua qualità. In un’epoca in cui tutto sembra virtuale avere un luogo fisico in cui questa cultura si esprime conta moltissimo. La rete è diventata un surrogato delle esperienze. Ha ragione Giuseppe De Rita quando sostiene che c’era un “primo popolo” che dava indicazioni alla base, su cosa fare, su cosa era buono o sbagliato, su come comportarsi. Ora tutto è cambiato. E difficile capire se è il “primo popolo” che non ce la fa più o se è la base che non lo ascolta. E allora, la gente quando trova un posto come questo se ne impadronisce, lo fa Pagina accanto, da sinistra: Dorfles e Pomodoro dentro e fuori il Padiglione Zero (con loro il filosofo Aldo Colonetti). Sotto: con Giuseppe Sala. Qui in alto: lungo il Decumano con l’architetto Matteo Gatto. Sopra: i due protagonisti davanti al
di Isgrò. Il video della visita su suo. È il tema dei luoghi. Il campus universitario può avere un senso, ma non basta...».
«L’università, la cultura, il rapporto con la trasmissione del sapere, è la prima idea da seguire», sottolinea Pomodoro. Gillo Dorfles ascolta in silenzio. Aldo Colonetti lo punzecchia. «Allora Gillo, questa Expo, merita di essere approvata?». «Direi senz’altro! No? È fondamentale per una città come Milano avere un’area così vasta e internazionale. Internazionalità e cultura sono fondamentali. È stato importante, ad esempio, far integrare la Triennale all’Expo».
«Ha ragione — replica Sala —. Quello che la città ha bisogno è internazionalizzazione e cultura. Un po’ cinicamente questa crisi di Roma fa in modo che Milano possa assurgere a vera capitale della cultura in Italia. Lo è di fatto, ma noi ci vergogniamo a dirlo». E proprio ieri non si è vergognato il presidente anticorruzione Cantone sottolineando che «Milano è tornata capitale morale mentre Roma non ha gli anticorpi».
«Chi è sulla linea giusta sono Prada e Bertelli con la loro Fondazione», ricorda Pomodoro. «L’esperienza di Prada è un vero atto di generosità nei confronti della città», ribatte Sala. Gillo Dorfles interviene: «Credo si debba strutturare un sistema in cui l’esperienza della Triennale, quella di Prada e il Comune di Milano, riescano a diventare un vero polo culturale dialogante e proiettato a una visione internazionale». E allora, nasce spontanea una battuta: «Stia attento Sala, Dorfles si sta candidando a sindaco!». E Dorfles, elegantemente, sorride.
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