venerdì 2 ottobre 2015

Dio, Patria e almeno due o tre famiglie: oltre 100 anni dopo la morte di Dio, postmodernismo e differenzialismo provocano come reazione un richiamo all'ordine e un revival dei valori arcaici più improbabili

Rispondiamo con una doverosa pernacchia e con una difesa della ragione e del senso del ridicolo.
La destra negli anni Trenta era molto più avanti di quanto sai ora. Come noi del resto [SGA].

Pubblichiamo ampi stralci dell’articolo «Cultura, verità, potere: qual è il fine dell’università» del filosofo britannico Roger Scruton, tratto dal numero 4/2015 di Vita e Pensiero, bimestrale culturale dell’Università Cattolica, nelle librerie da ieri.
Il suicidio dell’Occidente inizia nelle università 
Scruton attacca gli atenei anglosassoni, dom inati dalla censura e dal politicam ente corretto: «Invece di trasm ettere cultura, la decostruiscono nel nom e di un’im possibile eguaglianza» 
2 ott 2015  Libero Di ROGER SCRUTON
Le università esistono per dare agli studenti la conoscenza, le competenze e la cultura che li preparerà per la vita, accrescendo al tempo stesso il capitale intellettuale su cui tutti facciamo affi damento. Sono obiettivi chiaramente distinti: uno concerne la crescita dell’individuo, l’altro il nostro bisogno condiviso di conoscenza. Ma sono anche connessi, tanto che danneggiare l’uno significa danneggiare l’altro. È ciò cui stiamo assistendo: le nostre università si voltano sempre di più contro la cultura che le ha create, sottraendola ai giovani. (...). 

Molto è cambiato dai tempi di Newman. La sua università ideale era modellata su quelle di Oxford, Cambridge e sul Trinity College di Dublino, che all’epoca accettavano solo uomini, non permettevano agli studiosi residenti di sposarsi ed erano mantenute all’interno della Chiesa anglicana. Le matricole erano reclutate in gran parte nelle scuole private, con un curricolo solidamente basato sul latino, il greco, la teologia e la matematica. La vita domestica ruotava attorno al college, dove professori e studenti avevano i loro alloggi e dove ogni sera cenavano insieme nel refettorio, indossando le toghe accademiche. 
L’università di oggi è differente da quella del cardinal Newman sotto quasi tutti gli aspetti. Recluta studenti di ogni classe sociale, è aperta sia agli uomini sia alle donne, è molto spesso finanziata e sostenuta dallo Stato. Il curricolo non è centrato su materie sublimi e inutili come il greco antico, nel quale aleggia la visione accattivante di una vita oltre il commercio, ma sulle scienze, su discipline applicate e sugli ormai onnipresenti business studies, attraverso cui gli studenti presumibilmente imparano come va il mondo. 
Inoltre le università si sono espanse per offrire i loro servizi a una porzione crescente della popolazione e per assorbire una parte proporzionale del bilancio nazionale. Nello stato del Massachusetts, l’educazione universitaria ha ricavi maggiori di ogni industria. L’università non è più nel settore della creazione delle élite, ma in quello opposto di assicurarsi che le élite appartengano al passato. 
Dietro alla finzione di fornire uno «scopo oltre gli scopi», potrebbero dire i critici di Newman, la sua università era pensata per proteggere i privilegi delle classi superiori esistenti e per mettere ostacoli all’avanzata dei concorrenti. Insegnava competenze futili, stimate proprio per la loro futilità, dato che Un corso di «W om en's and Gender Studies» all’università canadese di W indsor. A sinistra, la copertina dell’ultim o num ero del bim estrale «Vita e Pensiero» questo ne faceva un segno di appartenenza che solo pochi potevano permettersi. In breve, era uno strumento per perpetuare una classe signorile. La cultura che trasmetteva non era proprietà dell’intera comunità, ma uno strumento meramente ideologico, attraverso cui i poteri e i privilegi dell’ordine esistente erano dotati di un’aura di legittimità. 
Al contrario, oggi abbiamo università dedicate alla crescita della conoscenza, che non sono semplicemente non-elitiste ma anti-elitiste nella loro struttura sociale. Non fanno alcuna discriminazione sulla base di religione, sesso, razza o classe: sono luoghi di ricerca e di dubbio metodico, senza obblighi dogmatici, il cui scopo è far avanzare la conoscenza mediante uno spirito di indagine libera. In breve, le università si sono evolute da club socialmente esclusivi, dedicati allo studio di futilità preziose, in centri di addestramento socialmente inclusivi, che diffondono competenze necessarie. La cultura che trasmettono non è quella di una élite privilegiata, ma una “cultura inclusiva” che chiunque può acquisire e apprezzare. 
Detto questo, però, un visitatore di un’università americana sarà probabilmente colpito più dalle varianti indigene di censura che da un’atmosfera di indagine libera. È vero che gli americani vivono in una società tollerante; ma generano anche guardiani vigili, pronti a individuare ed estirpare i primi segni di “pregiudizio” tra i giovani. Questi guardiani hanno una tendenza innata a gravitare nelle università, dove proprio la libertà del curricolo e la sua apertura all’innovazione danno loro l’opportunità di esercitare le loro passioni censorie. I libri sono inseriti o eliminati dai programmi sulla base del politicamente corretto; codici di comportamento verbale e servizi di counseling sorvegliano il linguaggio e il pensiero di docenti e studenti; i corsi sono pensati in modo da inculcare la conformità all’ideologia. Nelle aree sensibili, come razza, sesso e quella cosa misteriosa chiamata gender, la censura è apertamente rivolta non solo contro gli studenti ma anche contro qualsiasi docente, non importa quanto imparziale o scrupoloso, che proponga conclusioni sbagliate. 
Certo, la cultura occidentale rimane l’oggetto di studio primario nei dipartimenti umanistici. Tuttavia lo scopo non è trasmettere quella cultura, ma ripudiarla: esaminarla riguardo a tutti gli aspetti in cui pecca contro la visione egualitaria. La teoria marxista dell’ideologia – oppure qualche suo discendente femminista, post-strutturalista o foucaultiano – sono evocate come prova dell’opinione che i preziosi risultati della nostra cultura devono il loro status al potere che parla per loro tramite, e che pertanto non hanno alcun valore intrinseco. Il vecchio curricolo esisteva – ci viene detto – per mantenere le gerarchie e le distinzioni, le forme di esclusione e di dominio da parte di una élite al potere. Gli studi umanistici oggi devono mostrare il modo in cui, attraverso immagini, storie e credenze, attraverso opere d’arte, musica e linguaggio, la cultura occidentale non ha altro significato che il potere che serviva a perpetuare. In questo modo la concezione della nostra tradizione culturale come sfera autonoma di conoscenza morale – che richiede studio e capacità d’astrazione – è gettata al vento. L’università, invece che trasmettere cultura, la decostruisce per lasciare lo studente, dopo quattro anni di dissipatezza intellettuale, con l’idea che qualsiasi cosa va bene e niente importa. Sorge così l’impressione che, al di fuori delle scienze “dure”, non venga trasmessa conoscenza, che non ci sia niente da imparare se non atteggiamenti dottrinari. 
Il relativismo morale prepara il terreno per un nuovo tipo di assolutismo. Il curricolo emergente negli studi umanistici è di fatto assai più censorio, sulle questioni che contano, di quello che vuole rimpiazzare. Non è più permesso credere che ci siano realmente distinzioni intrinseche tra le persone: tutte le distinzioni sono “costruite culturalmente” e pertanto possono essere cambiate. Gli studenti devono credere che sulle questioni cruciali, in particolare quelle relative a razza, sesso, classe, ruolo e perfezionamento culturale, la civiltà occidentale è solo un dispositivo ideologico arbitrario, di certo non un deposito di vera conoscenza morale.  
Mettere in dubbio queste dottrine significa commettere l’eresia più grave, diventare una minaccia per la comunità di cui ha bisogno l’università moderna, dato che essa cerca di raccogliere studenti a prescindere da religione, sesso, razza o background culturale, a prescindere anche dall’abilità. L’università moderna dipende dalla fede nell’uguaglianza allo stesso modo in cui l’università del cardinal Newman dipendeva dalla fede in Dio. Dato che la nostra tradizione culturale è un sistema di distinzioni, che si oppongono all’uguaglianza in ogni campo in cui valgono il gusto, la facoltà di giudizio e la capacità di discriminare, l’università moderna non ha altra scelta che opporsi con tutte le forze alla cultura occidentale.

Gender La fabbrica del pregiudizio
Le unioni civili? “Un attentato alla famiglia” L’educazione sessuale in classe? “Fa diventare gay i bambini”. Tutte le bufale della destra ultracattolica che si oppone ai tentativi di superare il sessismo e l’omofobiadi Maria Novella De Luca Repubblica 1.10.15
Dire ai piccoli che i cuori di maschi e femmine sono uguali diventa “insegnare a toccarsi” Un fenomeno carsico fino all’inizio del 2015 e poi esploso con l’ultimo Family Day

I LIBRI all’indice a Venezia e la campagna contro le unioni civili. Le “scuole di Dio” di Staggia Senese e i manifesti che minacciano la “compravendita dei bambini” nelle strade di Roma. La famiglia naturale contro “l’omosessualismo”, i comuni della Lega che in Lombardia si proclamano de-genderizzati e gli appelli su WhatsApp delle mamme di Brindisi per difendersi dal “genter” pronunciato con la T al posto della D... Le delegazioni di genitori che chiedono ai dirigenti scolastici di proteggere i loro figli dalla “contaminazione” gay, i filmati dei gruppi pro-life che annunciano un’apocalisse dei costumi, l’assessore veneto alle Pari opportunità Elena Donazzan che si scaglia contro i libretti delle giustificazioni perché, ormai da anni, non c’è più la parola mamma o papà.
C’è un vento che soffia al contrario in Italia, in questo autunno, a poche settimane dall’approvazione, forse, del testo sulle unioni civili al Senato, mentre si fa sempre più urgente la legge contro l’omofobia, e nelle scuole, seppure timidamente, si inizia a parlare di parità tra i sessi e di “prevenzione della violenza di genere”. Genere appunto, e non Gender, parola, anzi bandiera, dietro alla quale in una nuova crociata, sempre più capillare e pervasiva, si affratellano ogni giorno più forti i gruppi della destra cattolica e della destra estrema. Una vera e propria “fabbrica del pregiudizio”. Nella quale si aggrega quella galassia rinvigorita dal successo del Family Day del giugno scorso, oggi decisa ad affossare ogni apertura verso le unioni omosessuali, ma anche verso quei nuovi linguaggi, suggeriti dall’Europa e dall’Oms, che dovrebbero insegnare ai bambini il rispetto tra maschi e femmine, radice della prevenzione di omofobia e femminicidi. «Ma le unioni civili andranno in aula il 15 ottobre - assicura la relatrice Monica Cirinnà - e approveremo il testo subito dopo la legge di Bilancio. La campagna anti-Gender non ci tocca».
C’è forse una data di nascita della “fabbrica del pregiudizio”, che si può far risalire all’inizio del 2014, quando lo sparuto ma agguerritissimo gruppo cattolico Giuristi per la vita, fondato dall’avvocato Gianfranco Amato, inizia una battente campagna di boiocottaggio degli opuscoli anti-omofobia commissionati dall’Ufficio antidiscriminazioni del ministero per le Pari opportunità, all’Istituto Beck di Roma. Libretti destinati agli insegnanti, in cui per la prima volta si parla di nuove famiglie, di differenza tra genere (nascere maschi o femmine) e identità di genere (sentirsi maschi o femmine al di là della propria anatomia).
In realtà si tratta di testi accurati e scientifici, privi di ogni propaganda, ma sulla Rete inizia un vero tam-tam dove per la prima volta appare la parola Gender, attorno alla quale si coalizzano le sigle ultrà. Il messaggio è: attenti, dietro questa parola si nasconde la spinta a far diventare i vostri figli gay, cadranno le differenze tra maschi e femmine, a scuola verrà insegnata la masturbazione ai bambini.
Evidente la mistificazione, eppure la campagna appoggiata anche dal cardinal Bagnasco convince il ministro Giannini (che offre spiegazioni confuse) a ritirare i libretti. Il termine Gender inizia a circolare nel ramificato mondo dei siti pro-life: dalla Croce di Adinolfi a Tempi, dal Sussidiario a La Nuova Bussola Quotidiana, Manif pour tous, Pro-Vita. Negli stessi mesi, molte associazioni e gruppi che nelle scuole portano avanti il progetto Educare alle differenze destinato a insegnati e presidi denunciano attacchi violenti e boicottaggi. A cominciare dall’associazione Scosse, fondata da Monica Pasquino, che par- la di una vera e propria campagna diffamatoria. Il movimento anti-gender in poche settimana raccoglie più di centomila firme, e le invia al Miur chiedendo di fermare “chi insegna la teoria Gender”… Ricorda Federica M, maestra di scuola primaria della capitale: «Per mesi avevamo avuto incontri tranquilli e proficui con insegnanti e genitori, poi un pomeriggio ci siamo trovati davanti alla scuola un gruppo di pazzi che ci gridavano: “ Siete froci e abortisti, viva la famiglia naturale”. Abbiamo concluso il corso, ma con paura e disagio».
Gender: la parola diventa popolare. Un ombrello sotto il quale si sommano le più diverse parole d’ordine, dalle campagne anti-aborto all’esaltazione della eterosessualità. Ma è contro l’approvazione alla Camera del disegno di legge Scalfarotto sull’omofobia che la “fabbrica del pregiudizio” si riaggrega. Ammette con amarezza Giuseppina La Delfa, presidente delle Famiglie Arcobaleno che riunisce le famiglie omogenitoriali: «Per noi e per i nostri figli la vita è diventata difficile. Soprattutto nelle regioni del Nord. Questi gruppi fanno terrorismo psicologico, e ormai presidi e insegnanti hanno paura anche di raccontare una fiaba diversa... Il ministero dell’Istruzione deve reagire: non è giusto che i nostri bambini vengano discriminati». Se il fenomeno all’inizio del 2015 è ancora carsico in tutta Italia, è nel marzo che la questione riesplode. Il caso arriva da Trieste, dove i gruppi di genitori, subito sostenuti dal “movimento” anti Gender, contestano l’arrivo nelle scuole d’infanzia di un programma sull’educazione di genere, dal titolo “Il gioco del rispetto”. Un vero e proprio kit per i più piccoli messo a punto da un gruppo di psicologi, dove si sollecitano i bambini a fare i giochi che preferiscono, senza pensare se siano da maschi o da femmina. Il gioco prevede anche che alla fine di una corsa i bambini e le bambine mettano la mano uno sul cuoricino dell’altro e dell’altra, per sentire che nonostante si sia di sesso diverso, i cuori battono tutti allo stesso modo. L’accusa lanciata dai Pro-Life è pesantissima quanto mistificatoria: «Negli asili di Trieste si insegna ai bambini a toccarsi...».
Ma è il 20 giugno 2015 che la “fabbrica del pregiudizio” trova la sua apoteosi, con il Family Day, organizzato dal Comitato Difendiamo i nostri figli e da tutta l’ultradestra cattolica. Al grido “Il Gender sterco del demonio”, tra gli applausi dei neocatecumenali, il fantasma del Gender diventa un nemico in carne e ossa da abbattere in ogni modo, per salvare l’innocenza delle nuove generazioni. Ormai è una valanga, spesso grottesca. A luglio l’incauto sindaco di Venezia decide di ritirare da tutte le biblioteche scolastiche i famosi libri gender, delicate storie che raccontano oltre l’omogenitorialità anche adozioni e disabilità, guadagnandosi l’ironia dei giornali di mezzo mondo.
Però non basta. Il 14 settembre a Staggia Senese e a Schio è suonata la campanella delle prime “scuole di Dio”. Ossia classi parentali, create da gruppi di genitori, ospitate nei locali delle parrocchie, per fuggire da scuole contaminate dal Gender. Come Dio comanda. Il comitato del Family Day gira l’Italia con conferenze a tappeto per raccogliere firme contro la legge sulle unioni civili. L’epicentro è tra Lombardia e Nordest: a Milano la Regione ospiterà dibattiti sulla “famiglia naturale” e sull’esaltazione dell’eterosessualità. 

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