sabato 17 ottobre 2015
I dilemmi degli Stati Uniti di fronte alla Cina
Perché l’America sta sbagliando con la Cina
di Timotjy Garton Ash Repubblica 17.10.15
QUAL è la sfida più grande con la quale dovrà cimentarsi il prossimo
presidente degli Stati Uniti? Capire come comportarsi con la Cina. Il
più importante problema geopolitico dei nostri tempi è il rapporto tra
la superpotenza emergente e la superpotenza che resiste. Se Washington e
Pechino non faranno la scelta giusta, a un certo punto entro il
prossimo decennio probabilmente da qualche parte scoppierà una guerra in
Asia. Al confronto, la Russia neoimperialista di Putin e la ferocia
dello Stato Islamico sono sfide regionali di media entità. Il
cambiamento del clima e l’economia mondiale non potranno essere
affrontati e gestiti senza una stretta collaborazione sino-americana.
Tutto ciò impone quindi una grandiosa strategia bipartisan americana per
i prossimi vent’anni.
Nel Mar Cinese meridionale, con imponenti operazioni, Pechino ha
trasformato alcuni scogliere sommerse dai nomi ispirati ai romanzi di
Joseph Conrad — Mischief Reef, Fiery Cross Reef — in isole artificiali, e
su Fiery Cross sta ultimando una pista di decollo di tre chilometri. Di
recente il presidente cinese Xi Jinping ha presieduto una grandiosa
parata militare in stile Cremlino. E accanto a lui, ospite d’onore,
sedeva Vladimir Putin.
A sostegno delle sue rivendicazioni su una vasta area del Mar Cinese
meridionale all’interno della sua “nine-dash-line“ (“linea dei nove
punti”, reliquia del nazionalismo cinese del primo Novecento,
ndt ), la Cina ha speronato alcuni pescherecci filippini e ha sorvolato
su un aereo spia statunitense. Gli Usa adesso stanno facendo sapere ai
loro alleati in Asia che faranno navigare le loro ronde di pattuglia per
la “libertà di navigazione” al di là delle isole contese. È
interessante notare che il mese scorso, quando alcune navi militari
cinesi hanno attraversato le acque territoriali statunitensi intorno
alle Isole Aleutine, le forze armate americane hanno reagito con
distacco, dicendo che erano passate “come prevedono le leggi
internazionali”. Il termine tecnico per indicare questo tipo di
navigazione è “passaggio innocente”. Vedremo adesso quale sarà, quindi,
la reazione di Pechino al “passaggio innocente” delle navi militari
statunitensi nelle acque di Fiery Cross o di Mischief Reef. Navi da
guerra che passano con atteggiamento di sfida intorno a isole contese:
ma di quale secolo stiamo parlando?
Tutto ciò ribolle mentre il presidente Xi è molto saldo in Cina, senza
nessuna crisi interna immediata. Il Partito Comunista cinese, tuttavia,
deve far fronte a una crisi di legittimazione sul lungo periodo. Per
decenni l’ha attinta da un’impressionante crescita economica, che però
adesso sta rallentando. Da un paio d’anni ormai sostengo che Xi stia
tentando un pesante gioco d’azzardo leninista, che il riaffermato potere
monopartitico sia in grado di gestire gli sviluppi di un’economia
complessa e in via di maturazione, e di soddisfare così le sempre più
grandi aspettative di una società più colta, civile e informata. Il
grossolano tentativo delle autorità cinesi di imporre il rialzo dei
mercati azionari cinesi all’inizio di quest’anno non è promettente.
Quasi sicuramente riusciranno a tenere tutto sotto controllo per
parecchi anni ancora ma, come sempre accade quando si rimanda una
riforma essenziale, alla fine la crisi esploderà. A quel punto, per la
leadership del Partito Comunista la tentazione di giocare la carta del
nazionalismo — alla quale si accompagnerà forse una vera e propria
operazione militare — sarà molto forte. Probabilmente, non si tratterà
di uno scontro diretto con un alleato ufficiale degli Stati Uniti, e
nondimeno i rischi di un errore di calcolo o di un’escalation saranno
elevati. Con un’opinione pubblica arrabbiata e nazionalista in entrambi i
paesi, né il leader cinese né quello americano potranno dare
l’impressione di essere in procinto di perdere, ed entrambi i paesi
posseggono armi nucleari. Il mio non è sterile allarmismo: è qualcosa su
cui le forze armate, l’intelligence e i think tank degli Stati Uniti
riflettono di continuo per scongiurarlo.
Proprio perché il comportamento futuro della Cina dipenderà
prevalentemente dalle forze al suo interno — fuori dal controllo di
Washington — gli Stati Uniti hanno bisogno di dispiegare tutti gli
strumenti a loro disposizione in modo saggio, coerente, strategico. Ho
in mente qualcosa che dovrebbe assomigliare almeno in parte alla
cosiddetta strategia del “doppio binario” adottata dall’Occidente negli
ultimi vent’anni della Guerra Fredda (senza aspettarsi, ovviamente, che
le cose vadano a finire nello stesso modo). Da una parte, nella testa
dei cinesi, non dovrebbe sussistere margine di dubbio al riguardo di
quello che gli Usa sarebbero disposti ad accettare dal punto di vista
militare. La politica degli Stati Uniti dovrebbe essere l’esatto
contrario di ciò che Barack Obama ha fatto nel caso della Siria,
dichiarando l’esistenza di una “linea rossa” e poi lasciando che Bashar
al Assad la varcasse impunemente. In questo caso, gli Stati Uniti non
dovrebbero dichiarare nulla del genere a livello ufficiale, ma
comunicare in via riservata che una “linea rossa” in verità esiste.
Dovrebbero farlo capire con i fatti, che dicono molto più delle parole,
ed essere quanto mai chiari al riguardo.
Al tempo stesso, d’altra parte, Washington dovrebbe moltiplicare i suoi
sforzi nei confronti di un ingaggio costruttivo. Ci dovrebbero essere
vigorosi tentativi di trovare un terreno comune di intesa al riguardo
del cambiamento del clima, dei problemi legati all’economia mondiale e
alla geopolitica, dalla Corea del Nord alla Siria. Gli intensi rapporti
d’affari che già esistono dovrebbero dare slancio particolare a questo
tipo di relazione. Esiste già un rapporto straordinario tra popolo e
popolo, che coinvolge svariati milioni di cinesi benestanti che hanno
studiato, lavorato e vissuto in Occidente. Questa strategia dovrebbe
essere coordinata con i più importanti alleati statunitensi che hanno a
loro volta vitali rapporti con la Cina, per esempio Australia, Germania e
Gran Bretagna — che nelle prossime ore accoglierà il presidente Xi in
visita di stato. Orville Schell, esperto sinologo, suggerisce al
prossimo presidente degli Stati Uniti di nominare un inviato speciale di
alto grado in Cina. Egli sostiene, in maniera sottilmente ironica, che
la presidente Hillary Clinton avrebbe in Bill Clinton il candidato
perfetto, dotato del prestigio legato al fatto di essere un ex
presidente, di avere l’esperienza necessaria e concrete capacità di
negoziare. Se invece diventasse presidente il repubblicano Marco Rubio
potrebbe offrire questo incarico a Jeb Bush, il padre del quale è stato
inviato degli Stati Uniti a Pechino nel 1974-75 mentre il fratello,
George W., ha intrattenuto buoni rapporti con la Cina.
Al momento, questi sono soltanto castelli in aria. I candidati
repubblicani alla presidenza fanno qualche peregrino accenno alla Cina,
solo di rado. Il candidato Ben Carson ha twittato la foto di una
portaerei americana scrivendo “Così si compete con la Cina”. Con un
misto insuperabile di ignoranza e spacconeria, Donal Trump lascia invece
intendere che il problema è dovuto al fatto che le autorità cinesi non
rispettano il presidente Obama, e insinua che se soltanto Xi si sedesse
per un paio di birrette in sua compagnia, tutto andrebbe per il meglio. E
che dire di Hillary Clinton, unica candidata alla presidenza ad avere
una seria esperienza politica della Cina? Questa settimana, la candidata
ha spudoratamente cambiato posizione riguardo al Partenariato
Transpacifico, l’accordo commerciale con l’Asia più importante che lei
stessa ha patrocinato per molti anni, e che quando era Segretario di
Stato aveva definito «un esempio per gli accordi commerciali ». Il suo
dietrofront è dovuto a palesi motivi di opportunismo, finalizzato a
raccogliere i consensi e i voti dei sindacati dei lavoratori democratici
e protezionisti che al momento vanno a Bernie Sanders, il quale
promette di cassare lo «svantaggioso accordo commerciale ». Ecco la
tragedia di una politica dalla quale dipendono così tante cose per tutti
noi. Gli Stati Uniti hanno una raffinata comunità politica, capace di
dar vita a una grandiosa strategia bipartisan e multilaterale nei
confronti della Cina, come sarebbe necessario. Purtroppo, però, gli Usa
hanno sviluppato un modo di fare politica che rende impossibile
sostenere tale strategia. Volendo adattare a questa situazione una ben
nota osservazione fatta dal possibile inviato speciale in Cina, Bill
Clinton, potremmo dire che è la politica a essere stupida.
Traduzione di Anna Bissanti
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