Sinistra. La ’cosa rossa’ e le alleanze. L’ex Pd: «A Milano lista unitaria, laica e anti-dem». Anche il Prc per la rottura con i democrat in tutte le città. Confronto interno in Sel: fra chi vuole accelerare il soggetto unitario e chi lo considera ’una chimera’. «Ma il vero problema è la cultura politica»di Daniela Preziosi il manifesto 17.10.15
L’ora della verità per la ’cosa rossa’ arriva presto, anzi prestissimo. Lunedì prossimo una nuova riunione fra le diverse anime della sinistra-sinistra di casa nostra dovrebbe sciogliere il nodo che sta strozzando in culla il nuovo soggetto venturo. Il nodo cruciale è quello delle alleanze delle amministrative di primavera, lontanissime ma già in grado di far litigare i promessi sposi della sinistra. Ieri sul manifesto Nichi Vendola ha schierato Sel a favore di «coalizioni di progresso che possano mettere in campo una sfida programmatica su elementi dirimenti», senza però escludere a priori la possibilità di accordo con il Pd, innanzitutto a Milano dove «puntiamo sulla continuità del laboratorio straordinario dell’amministrazione Pisapia»; ma anche a Roma dove il dialogo con il Pd post-Marino, per ora congelato, potrebbe riallacciarsi. Questa è la posizione su cui discuterà la prossima assemblea nazionale di Sel, il prossimo 24 ottobre. Discussione delicata, quella sull’autonomia dal Pd: non è un mistero che su questo il gruppo dirigente di Sel non è più compatto. Da una parte chi tira per l’accelerazione della cosa rossa, dall’altra quella di chi frena, e la definisce «chimera rossa», come ieri sull’Huffington Post hanno fatto i senatori Dario Stefano e Luciano Uras, che hanno invitato il proprio partito ritrovare «la prospettiva dell’unità del centrosinistra», che «non è morto, semmai è un terreno ancora da arare e coltivare». A partire «dalle amministrative».
In ogni caso quella di Vendola sulla prossima tornata elettorale non è la posizione di altri compagni di strada. Per Paolo Ferrero, leader di Rifondazione comunista (partito che pure a Milano è tuttora nella maggioranza di Giuliano Pisapia), «la proposta oggi è quella di aprire un processo costituente di un soggetto unitario della sinistra, antiliberista e quindi alternativo al Pd e alla Merkel». E via scendendo nelle città, dove visto che le amministrative «interesseranno oltre 10 milioni di persone, proponiamo di costruire liste unitarie di sinistra alternative al Pd in tutta Italia. Anche a Milano».
Che poi è la stessa idea di Pippo Civati, che propone liste «unitarie, laiche, di sinistra e autonome dal Pd in tutte le città»: anche qui, Milano in testa. Sul nodo delle alleanze la sua associazione Possibile prepara per metà novembre una due-giorni «aperta a tutti», in cui la questione sarà discussa e votata dagli iscritti. Il luogo della convention potrebbe essere Napoli. E il week end potrebbe coincidere con quello della nuova Leopolda renziana. Scelta arditissima dal punto di vista del confronto mediatico. Ma l’ex pd non se ne preoccupa: «Tanto siamo abituati al fatto che i giornali non parlino di noi. Ma saremo in 5mila veri, tutta gente che vuole fare politica a sinistra». Escludendo, sia chiaro, qualsiasi alleanza con il Pd, a qualsiasi latitudine. Intanto Civati è pronto a ricominciare la raccolta delle firme contro l’Italicum: ieri infatti il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale ha presentato alla Corte di Cassazione due quesiti per altrettanti referendum abrogativi della legge elettorale. Il parlamentare si rimette in moto «senza rancore verso chi non ha voluto firmare i nostri. A chi ci ha dato gli schiaffi porgeremo l’altro quesito».
La strada unitaria passa dunque per le iniziative comuni. Non per un nuovo soggetto comune, almeno per ora, né per nuovi gruppi parlamentari unitari: «In parlamento lavoriamo già insieme su tutte le questioni. Ma è inutile imboccare la strada del partito unico finché non abbiamo chiarito la questione delle alleanze: inutile unirci per ridividerci subito». Problema difficilmente aggirabile. «Il punto è che deve essere chiaro la missione di questo progetto costituente», spiega Massimo Torelli, dell’Altra Europa con Tsipras: «O si lancia un progetto, alternativo, autonomo, che si contrapponga al Pd e alle politiche renziane con grande obiettivo le prossime politiche, oppure sarà un generico forum. Sotto questo grande obiettivo sono importanti i passaggi del 2016: le amministrative, che assumono un carattere di elezioni di medio termine, e referendum. Ma sulle amministrative serve una indicazione generale. Altrimenti tutto diventa incomprensibile».
Vendola: «Sinistra, ecco l’unità possibile»
Il Pd perde (altri) pezzi Va via D’Attorre, in quattro dati in uscita
Direzione: nuovo gruppo di sinistra. Minoranza interna ormai in crisi nera di identità
Il voto nelle città è il giro di boa anche per il renzismo di Daniela Preziosi il manifesto 18.10.15
Non è un annuncio inatteso anzi la notizia da giorni circolava alla camera. Anche mesi. Alla fine il deputato dem Alfredo D’Attorre, bersanianissimo anzi pupillo dell’ex segretario ai tempi della coalizione Italia bene comune, lascia il Pd. Lo ha annunciato ieri in un’intervista al Corriere della sera. Dopo molti no e qualche sofferto sì il deputato nato a Melfi, normalista, ricercatore in filosofia e responsabile delle riforme nel Pd avanti Renzi, alla sua prima legislatura, stavolta non ha intenzione di votare la legge di stabilità: «Impianto insostenibile», spiega, «al centro c’è l’abolizione della tassa sulla prima casa, compresi i proprietari di castelli. Neppure Berlusconi si era spinto fin lì».
A Montecitorio altri due-tre potrebbero seguirlo in direzione — forse dopo un breve passaggio nel misto — di un nuovo gruppo di sinistra (o, forse, di «centrosinistra» old style, per favorire l’arrivo di qualche ’prodiano’) che nascerà alla camera entro fine novembre. Forse non sarà esattamente il gruppo parlamentare della ’cosa rossa’ però: D’Attorre, pacato allievo dell’ex segretario, su questo ha le idee chiare. «Non credo a una riedizione della cosa rossa o esperimenti della sinistra radicale. Se lo snaturamento del Pd arriva a compimento, si apre lo spazio per un soggetto largo e plurale di centrosinistra, ulivista».
Mentre Renzi annuncia la sua nuova Leopolda, la sesta edizione dal 2010, la seconda dell’era del governo (si svolgerà come sempre alla stazione Leopolda di Firenze l’11, 12 e 13 dicembre), il lato sinistro fuori dal recinto del Pd si affolla ancora di più. Ma di protagonisti non sempre d’accordo fra loro sul che fare. Domani nel primo pomeriggio una nuova riunione fra le diverse anime della sinistra dovrebbe provare a trovare la quadra sul percorso in direzione del ’soggetto unico’ ma soprattutto sulle alleanze delle prossime amministrative. A partire dal caso di Milano dove Sel è decisa a partecipare alle primarie del centrosinistra, almeno per ora. Nel partito di Vendola non sono tutti d’accordo. Nell’assemblea di sabato prossimo si confronteranno quelli che accelerano sulla ’cosa rossa’, come il coordinatore Nicola Fratoianni, quelli più cauti non disposti a ’rompere con il Pd’ in tutte le città, e quelli che ancora pensano a un centrosinistra nazionale nonostante «l’autoritario» Renzi e nonostante l’Italicum (come i senatori Uras e Stefàno, considerati i più vicini al Pd). A novembre invece la convention di Pippo Civati schiererà l’associazione Possibile sulla linea dei primi. Che poi è la stessa del Prc di Paolo Ferrero. La nuova cosa rossa, o quel che sarà, nascerà di sicuro: ma la via crucis per arrivarci ha ancora parecchie fermate.
D’altro canto proprio la mancanza di un soggetto a sinistra del Pd, ma un soggetto che sia «arioso, largo e plurale, la casa di tutti quelli che stanno male nel Pd» — come lo immagina D’Attorre– è uno dei fattori che hanno fatto impantanare la minoranza dem. Che oggi si trova alle prese con una profonda crisi di identità, dopo l’ennesimo accordo al ribasso sulla riforma costituzionale. E in vista del voto su una finanziaria già duramente criticata da Bersani. Al quale ieri il segretario ha replicato con durezza a proposito dell’ormai rituale accusa di decisionismo solitario: «Alla faccia di chi dice che c’è un uomo solo al comando, dico che la sfida la vinciamo insieme. Io so quali sono le mie responsabilità. Vado avanti come un treno, non ho paura: posso perdere le elezioni — ma non preoccupatevi, le vinciamo — ma non la faccia. Vado avanti senza arretrare di un centimetro».
Ieri i compagni di nidiata di D’Attorre hanno salutato l’ex sodale senza fare un plissé. L’addio è un segno di «malessere» ma «si sta nel Pd, per me non c’è nessuna alternativa», ha spiegato Roberto Speranza, giurando che lui non se ne andrà «neanche con le cannonate». Barbara Pollastrini, dalemian-cuperliana, ha chiesto al segretario di «riflettere su come ristrutturare la casa, renderla aperta a un’idea di sinistra decisiva per cambiare dalla parte giusta».
Cruciali, anche nel partito di Renzi, le amministrative nelle grandi città governate dal centrosinistra: Milano, Roma, Torino, Bologna: se il Pd deciderà di rilanciare la coalizione o se Renzi vorrà sperimentare il ’partito della nazione’ pigliatutto e autosufficiente. Magari per prendere l’onda di una campagna elettorale lunga tutto il 2016: dalle amministrative di primavera fino al referendum costituzionale dell’autunno. Che, se tutto va bene (per lui) potrebbe portare persino alle politiche del 2017.
Bersani sbaglia. Meglio separarsi prima di essere indifendibili di Franco Monaco il manifesto 18.10.15
Ci sono buone, buonissime ragioni, e non necessariamente “di sinistra”, ma semplicemente di equità e di legalità, per dissentire da misure della legge di stabilità quali la cancellazione tout court della tassa su tutte le prime case e l’innalzamento a 3mila nell’uso dei contanti. Come va facendo giustamente la minoranza Pd. Dissensi che vanno ad aggiungersi a molti altri: sulla Costituzione, sull’Italicum, sul jobs act, sulla scuola, sulle liberalizzazioni (revocate), sulla responsabilità civile dei magistrati, su contrattazione e rapporto con i sindacati e, di qui a poco, sulla Rai. Dove già si è provveduto a nomine mediocri e lottizzate profittando della legge Gasparri e ora ci si accinge a fare una riforma che riforma non è (nulla sulla mission del servizio pubblico, sui tetti pubblicitari, sulla complessiva visione del sistema informativo, scomparsa ogni traccia del modello BBC che pure figurava nella storiche proposte del centrosinistra da Veltroni a Gentiloni). La solita lottizzazione del cda e semmai un di più di presa sulla Rai da parte del governo che si nomina il vero dominus dell’azienda nella persona del suo ad. L’opposto del mantra bugiardo del cosiddetto passo indietro della politica.
Una minoranza che dissente su tutte le questioni che contano, che, a parole, denuncia — Bersani dixit — che «si sta portando il Pd da un altra parte», che leva alte grida contro il soccorso di Verdini ma poi non ne trae le conseguenze. Semmai reitera comportamenti alla lunga indifendibili, distinguendosi in parlamento, contro un vincolo politico prima che disciplinare, per chi sta in un partito degno di questo nome. Dove ci si conforma ai deliberati della maggioranza. Eppure Bersani si ostina a ripetere «separazione? Tre volte mai». Francamente non lo capisco.
Per parte mia sarei meno polemico ma più risoluto, più conseguente: si prenda atto di differenze ideali, politiche e programmatiche non componibili in un medesimo partito e ci si separi, senza reciproci anatemi. È sempre più evidente che il Pd di Renzi è cosa diversa dal Pd concepito nel solco dell’Ulivo, quale partito di centrosinistra nitidamente alternativo al centrodestra. Lo si chiami partito della nazione, pigliatutti, partito unico di governo, grande centro. Come si può negare una tale evidenza? Solo se si presta credito a slogan funambolici ed esorcistici di cui è prodigo il premier, del tipo: il jobs act è la legge più di sinistra di questo governo; così pure di sinistra sarebbe la legge di stabilità che tanto piace a imprenditori e commercianti; l’Italicum è la più democratica delle leggi elettorali (tutte formule renziane).
Da tempo, inascoltato, sostengo che non è né saggio né utile esasperare il conflitto interno e logorare gli stessi rapporti personali. Anche perché, separandosi da buoni amici, ci si potrà eventualmente alleare domani, se matureranno le condizioni, tra un centro renziano e una sinistra di governo, uniti e distinti dal celebre trattino, al modo del centrosinistra storico basato sull’’asse Dc-Psi. Su un programma negoziato. Fare un grande centro non è una bestemmia. Ma certo è cosa diversa dal Pd versione prodiana. Perché la minoranza bersaniana è così indisciplinata ma, insieme, ostinata nel rifiutarsi anche solo di considerare l’ipotesi di una serena separazione? Mi do tre risposte: 1) perché vittima del mito unitarista del partito di marca comunista, l’opposto di una concezione laica di esso quale strumento servente una politica in cui ci si riconosce (il fine è la politica, non il partito, un mezzo, che si può cambiare senza drammi); 2) perché, sottostimando sia lo statuto Pd che disegna un partito fondato sulla democrazia di investitura del leader sia la stessa soggettiva vocazione di Renzi a un leaderismo spinto, ci si illude di potere strappare una gestione consociativa del partito, magari una gestione a due (del resto il tanto celebrato — dalla minoranza Pd — “metodo Mattarella” fu una decisione presa in due, Renzi e Bersani, il più verticistico dei metodi, considerato che i grandi elettori Pd non furono mai consultati ma solo informati a un’ora dal voto per il Quirinale) 3) forse anche un certo sistema di interessi diffusi che ha il suo baricentro in Emilia e che — il caso dei ministri modulo Poletti insegna — malvolentieri abbandonano il certo di un rapporto organico con il partito al governo per avventurarsi verso l’incerto di un nuovo soggetto di sinistra. La quale sinistra può attendere.
*deputato Pd
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