venerdì 9 ottobre 2015

Il martirio dei palestinesi mentre mezzo mondo è indifferente e l'altra metà spera che spariscano prima possibile



Nuova Intifada, un “no” alla normalizzazione dell’occupazioneIsraele/Territori occupati. Il premier israeliano Netanyahu conferma la linea dura mentre si moltiplicano gli attacchi contro i coloni israeliani che percorrono le strade della Cisgiordania e anche le rappresaglie e le aggressioni dei coloni contro i villaggi palestinesi, troppo spesso ignorate o sottovalutate. Abu Mazen isolatodi Michele Giorgio il manifesto 8.10.15
GERUSALEMME «Abbiano vissuto periodi più difficili di questi. Supereremo questa ondata di terrorismo grazie alla nostra determinazione, alla responsabilità e alla coesione nazionale». Benyamin Netanyahu non ha dubbi sulla linea portata avanti sino ad oggi. Resterà quella del pugno di ferro. Il premier israeliano non ha compreso che più si farà pesante e sanguinosa la repressione e più gli sfuggirà di mano la situazione. Non ha capito che i palestinesi non accettano la normalizzazione dell’occupazione israeliana di Gerusalemme Est e della Cisgiordania. Rifiutano che i coloni israeliani possano svolgere nei territori che occupano illegalmente quell’esistenza normale che a loro viene negata sotto il regime militare. Gli omicidi di quattro israeliani compiuti da palestinesi nell’ultima settimana sono davanti agli occhi di tutti, sono stati raccontati e ampiamente condannati. Invece meno spazio trovano gli omicidi e le uccisioni di palestinesi. Chi ricorda la morte orribile del piccolo Ali Dawabsha, bruciato vivo poco più di due mesi fa, e che i suoi assassini sono sempre liberi? I palestinesi autori delle uccisioni dei quattro cittadini israeliani al contrario sono stati catturati o uccisi. In queste ore in cui i governi occidentali si stringono intorno al primo ministro Netanyahu esprimendo solidarietà a Israele e alle famiglie delle vittime degli ultimi attentati, dovrebbero anche domandarsi quale strada politica, oltre l’inutile “negoziare per negoziare” che va avanti da 22 anni, è stata lasciata ai palestinesi per raggiungere la libertà e l’indipendenza.
Anche per queste ragioni il presidente dell’Anp Abu Mazen appare più isolato dopo l’appello alla fine delle proteste che ha lanciato due giorni fa e che ha ribadito ieri in una intervista al quotidiano Haaretz. Quasi tutte le organizzazioni palestinesi, a partire dalla sinistra guidata dal Fronte Popolare, hanno ignorato le sue parole e continuano a mobilitare la popolazione contro coloni e soldati israeliani.

Si moltiplicano gli attacchi contro i coloni israeliani che percorrono le strade della Cisgiordania e anche le rappresaglie e le aggressioni dei coloni contro i villaggi palestinesi, troppo spesso ignorate o sottovalutate. E le azioni individuali di palestinesi armati di coltello si allargano al territorio israeliano. Un 17enne di Yatta, Amjad Jundi, ha attaccato a Kiryat Gat (a est di Ashqelon) un militare provando a prendergli l’arma ma è stato ucciso. Poco dopo un altro giovane di Hebron ha colpito alcuni israeliani a Petach Tikva ed è stato ferito dal fuoco di agenti presenti in zona. Una dinamica simile all’attacco avvenuto ieri mattina alla Porta dei Leoni, uno degli ingressi della città vecchia di Gerusalemme, dove una ragazza di 18 anni, Shuroq Dwayat, è stata ferita da un colono che aveva tentato di colpire con un coltello. Poco dopo ingenti forze di polizia hanno lanciato un raid nel sobborgo di Sur Baher per perquisire l’abitazione della giovane innescando violente proteste e incidenti. Una colona, Rivi Ohayon, dell’insediamento di Tekoa (a sud di Betlemme) ha denunciato alla polizia di aver subito un tentativo di linciaggio di parte di gruppi di giovani palestinesi che, nei pressi di Beit Sahour, avevano bloccato e danneggiato a colpi di pietra la sua automobile (la donna è rimasta ferita). Il fuoco dei soldati israeliani ha ferito due palestinesi.

Per tutto il giorno sono girate voci dell’uccisione da parte dei soldati israeliani, vicino Ramallah, di uno studente palestinese ma in serata il giovane era ancora vivo anche se gravemente ferito. In rete è circolato un filmato girato da una tv locale proprio durante gli scontri che hanno coinvolto lo studente ferito e che mostra militari israeliani che si fingono palestinesi per infiltrarsi fra di loro. All’inizio della sequenza si nota un gruppo di palestinesi col volto coperto che lanciano sassi contro un’unità dell’esercito e scandire slogan. A un certo punto questi “palestinesi” si rivelando degli infiltrati e si scagliano contro quelli che sembravano essere loro compagni e li trascinano a forza verso i soldati. Subito dopo i militari infieriscono su un dimostrante — a terra, isolato — e lo prendono a calci ripetutamente. 


Israele, l’intifada dei coltelli
Netanyahu non vuole sentir parlare di intifada e la definisce «ondata di terrorismo». Ma solo ieri sono stati tre gli israeliani pugnalati da giovani palestinesi.
di Davide Frattini Corriere 8.10.15

GERUSALEMME Quella che Benjamin Netanyahu e i suoi generali chiamano «ondata di terrorismo» ieri è andata avanti dal mattino fino alla notte.
Un israeliano viene accoltellato per le vie della Città Vecchia a Gerusalemme da una donna palestinese e le spara con la pistola che porta con sé, sono tutti e due in ospedale. A Kyriat Gat nel sud del Paese un arabo colpisce con la lama un soldato, gli ruba l’arma di ordinanza e si chiude in un palazzo, viene ucciso dalle forze speciali. A Petah Tikva, città-sobborgo di Tel Aviv, un altro palestinese scende dall’autobus e pugnala il primo che incontra, gli altri passanti lo fermano. Verso Maale Adumim, grande insediamento vicino a Gerusalemme, il conducente di un furgone cerca di investire i poliziotti a un posto di blocco che lo fermano a fucilate (in questo in caso gli investigatori non sono sicuri che l’assalitore avesse motivazioni politiche/nazionalistiche).

Il primo ministro israeliano non vuole sentir parlare di intifada ma è alle due rivolte precedenti che pensa quando dice «vogliono instillare la paura dentro di noi, il modo di sconfiggerli è dimostrare calma e determinazione come abbiamo già fatto in passato». Decide di cancellare il viaggio in Germania per dimostrare che non lascia Israele durante l’emergenza e per rispondere agli attacchi degli alleati di governo che lo accusano di essere troppo morbido nella reazione.

Naftali Bennett, il ministro dell’Educazione e capo del partito che rappresenta i coloni, sostiene che «l’esercito ha le mani legate». Per smentirlo interviene addirittura il capo di Stato Maggiore Gadi Eisenkot: «Abbiamo ottenuto le forze che abbiamo richiesto e il via libera alle operazioni». Di certo Netanyahu e Moshe Yaalon, il ministro della Difesa che da generale ha comandato Tsahal durante la seconda intifada tra il 2000 e il 2005, preferiscono cercare di disinnescare la violenza senza andare allo scontro frontale, sperano che il coordinamento con le forze palestinesi sia sufficiente a riportare la calma.

I disordini continuano in tutta la Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Martedì sera anche gli arabi di Jaffa hanno bloccato la via principale verso Tel Aviv, lanciato pietre contro i poliziotti e incendiato i cassonetti. Manifestavano in solidarietà con i giovani che da giorni combattono l’esercito, i feriti tra i palestinesi sono almeno trecento, due i morti.

Da Ramallah il presidente Abu Mazen ripete di opporsi alla violenza e ha dato ordine alle forze di sicurezza di fermare i disordini. In un’intervista al quotidiano israeliano Haaretz giustifica la rabbia della sua gente e commenta: «Noi tiriamo le pietre, voi usate munizioni». E’ consapevole che una rivolta continuata danneggerebbe il suo controllo del potere.

Eppure sono stati anche i suoi proclami a fomentare il caos di questi mesi: accusa Netanyahu di voler cambiare le regole di accesso alla Spianata, di voler permettere agli ebrei di pregare tra le moschee.
La questione della Spianata, il luogo venerato dagli ebrei come Monte del Tempio, ha rinforzato l’elemento religioso del conflitto. Abu Mazen e i leader islamisti non hanno voluto ascoltare le smentite e le assicurazioni del governo israeliano, ancora ieri il Fatah del presidente palestinese ha esaltato «i ragazzi che proteggono la moschea Al Aqsa». Le provocazioni dei fanatici religiosi ebrei hanno aiutato la retorica araba attorno al terzo luogo più sacro per i musulmani sunniti.

Gli arabo-israeliani uniti ai palestinesi dei Territori Netanyahu rinvia il viaggio a Berlino: lotta al terrore
di Maurizio Molinari La Stampa 8.10.15
I disordini palestinesi contagiano Jaffa, alle porte di Tel Aviv, e Benjamin Netanyahu punta l’indice contro il Movimento islamico della Galilea, accusandolo di essere «fra i registi dell’attuale ondata di terrorismo». Jaffa è la città araba attaccata a Tel Aviv, dove le ultime violenze risalivano al 2000 ovvero l’inizio della Seconda Intifada. La polizia viene colta di sorpresa quando una folla di dimostranti si avvicina alla locale scuola religiosa ebraica tentando l’assalto con sassi, molotov e petardi. Ne segue una battaglia che termina con cinque agenti feriti e una dozzina di arrestati.


Dentro la Linea Verde

Sono arabo-israeliani, cittadini a pieno titolo dello Stato ebraico, e l’impatto è una sorta di choc nazionale: su radio e tv leader religiosi musulmani ed ebrei si susseguono nel difendere Jaffa come «modello di coesistenza» dal 1948. Ma le bandiere verdi con le scritte coraniche innalzate in segno di sfida contro gli agenti suggeriscono che qualcosa è cambiato. Il portavoce della polizia, Micky Rosenfeld, punta l’indice contro il Movimento islamico del Nord, ovvero della Galilea, guidato da Sheikh Raed Salah, aggiungendo: «Sono gli stessi che organizzano le violenze nella moschea di Al Aqsa nella Città Vecchia di Gerusalemme».

Il gruppo dei Morabitun, autori dei recenti disordini ad Al Aqsa, era «pagato e organizzato» dal Movimento Islamico che, aggiunge la polizia, «è dietro anche la battaglia di lunedì nelle strade di Nazareth». Si tratta di città arabe dentro i territori di Israele pre-1967 e suggeriscono il rischio che la possibile Intifada 3.0, iniziata attorno a Gerusalemme, si estenda agli arabo-israeliani, il 20% della popolazione. Il premier Netanyahu è lapidario: «Il Movimento islamico del Nord è fra i responsabili dell’ondata di terrore, incita all’odio come Hamas e l’Autorità palestinese» e promette «severi provvedimenti».

L’affermarsi di una componente islamica fra gli arabo-israeliani, vicina ai Fratelli Musulmani, pone una nuova sfida alla sicurezza e Netanyahu decide di rimandare il vertice a Berlino con Angela Merkel. Gli attacchi al coltello si moltiplicano: alla Porta dei Leoni della Città Vecchia è una donna palestinese che si avventa contro un israeliano - che riesce a spararle - a Kityat Gat un soldato viene aggredito e a Petach Tikwa è un civile a essere accoltellato.

Abu Mazen, presidente palestinese, si affida ad «Haaretz» per imputare tale ondata di violenze «alle politiche errate del governo Netanyahu» e a rispondergli è il presidente israeliano, Reuven Rivlin, secondo il quale «Abu Mazen ha definito gli ebrei puzzolenti con un linguaggio che incita all’odio e dovrebbe cessare di adoperare perché dobbiamo vivere assieme». Scontri anche in Cisgiordania, dove la novità viene dagli «attacchi dei coloni contro i palestinesi» secondo i portavoce di Ramallah che parlano di «auto incendiate e persone aggredite con sassi e armi da fuoco».


Se i grandi dimenticano la questione palestinese
di Elisabetta Rosaspina Corriere 30.9.15
La bandiera palestinese sventola da oggi tra i vessilli di 193 Stati indipendenti, davanti al Palazzo di Vetro, in rappresentanza del nuovo Paese accolto nella comunità come «osservatore». Ma la questione palestinese è finita in fondo al cassetto. Nei loro attesissimi discorsi all’Assemblea generale, il presidente americano Obama e il russo Putin non l’hanno nemmeno menzionata. Rendendo dunque molto meno attese le dissertazioni del presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, oggi, e del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, domani. Da protagonisti incontrastati della scena mediorientale, i due leader, e litigiosi vicini di casa, sono finiti fra le comparse, oscurati dalla Siria e soprattutto dall’Iran. Se Netanyahu protesterà ancora per l’accordo sul nucleare stipulato dall’Occidente con Teheran a metà luglio, e se Abbas si lamenterà della proliferazione di colonie fuori dai confini del 1967, saranno entrambi ascoltati con la cortese sopportazione che si deve a due rispettabili decani rimasti sfortunatamente un po’ indietro, fermi ai temi del «giorno prima». L’agenda internazionale ha nuove scadenze: «L’Isis è la sola partita in città», l’editorialista di Haaretz, Chemi Shalev, avverte «Bibi». E se Netanyahu ha mai sperato in un patto strategico con Mosca, appare chiaro che la potente coalizione anti Califfo messa in piedi dal Cremlino non lo prevede. Anche a Ramallah il silenzio dei potenti è suonato oltraggioso: «Obama crede di poter battere l’Isis e il terrorismo o di pacificare il Medioriente, ignorando l’occupazione israeliana e i continui attacchi alla Moschea al-Aqsa?» chiede indignato il capo dei negoziatori dell’Olp, Saeb Erekat. Sembra proprio di sì: le sassaiole, le cariche di polizia, le molotov e i lacrimogeni che alimentano la guerra a bassa intensità a Gerusalemme est e sulla Spianata delle Moschee, la processione di sirene e lampeggianti sul Monte degli Ulivi appartengono a un repertorio passato di moda .


Generazione Intifada 3.0 jeans e smartphone per sfidare Israele “Solo così ci salveremo”
La tensione a Gerusalemme è sempre più alta: ieri sette ebrei sono stati accoltellati e un palestinese ucciso Mentre il sindaco invita i cittadini a uscire di casa armati Netanyahu promette una dura risposta e vieta ai ministri di visitare la Spianata delle Moschee La diffusione sui social network dei video degli attacchi esalta i giovani e li spinge in strada Gli infiltrati.Video diffusi in questi giorni mostrano israeliani vestiti come manifestanti palestinesi infiltrarsi fra i manifestanti per poi sorprenderli e arrestarli: dura protesta dei palestinesidi Fabio Scuto Repubblica 9.10.15
CAMPO PROFUGHI DI AL AMARI Pietre, coltelli e Facebook. E’ questa l’Intifada 3.0. Perché è una nuova generazione di palestinesi quella che sta guidando la rivolta di queste settimane, che dalla Città Santa via via è dilagata prima nei Territori palestinesi occupati, poi nella stessa terra d’Israele. Questi ragazzi sono troppo giovani per sapere quali tragedie portò con sé l’ultima Intifada, ma hanno perso la speranza di ottenere uno Stato con i negoziati, diffidano dei loro leader politici e sono convinti che Israele capisca solo il linguaggio della forza. La diffusione poi sui social network palestinesi dei video degli scontri e degli attacchi con il coltello, esalta questi ragazzi, facendone dei volontari pronti per la “prima linea”.
L’hashtag in arabo “l’Intifada è iniziata” rimbalza su tutti i social, anche #IntifadaJerusalem è molto popolare. Mohammad Halabi — che era di El Bireh, a poca distanza da questo campo profughi — prima di accoltellare una famiglia ortodossa alla Porta di Damasco la scorsa settimana aveva postato su Facebook l’annuncio che andava a partecipare alla terza intifada. Nell’era degli smartphone e del “live-tweeting” il video dell’attacco era on-line qualche minuto più tardi. Poco dopo il braccio armato della Jihad Islamica postava un video per annunciare che il gruppo era pronto a riprendere gli attacchi suicidi — che è stato visto 40.000 volte. Quello della morte di Fadi Alloun — dopo aver ferito un ragazzino israeliano in Città Vecchia — 100.000 volte. «Ogni giorno vediamo uno dei nostri morire, il minimo che possiamo fare è quello di condividere le immagini», sostiene Sami, 19 anni, studente di Legge a Bir Zeit. I selfie dei lanciatori di pietre con lo sfondo di copertoni in fiamme e fumi di gas lacrimogeni spopolano, ma ora anche i video dove soldati israeliani mascherati da arabi irrompono sulla scena e preoccupano il governo, tanto che ieri Israele ha chiesto a Facebook e Google di rimuovere i contenuti violenti.
I lanciatori di pietre sono adolescenti ma spesso ci sono anche molti ragazzini. Mustafa, che ha 10 anni, dice con la sua voce sottile che «vuole lanciare le pietre contro i soldati», poi aggiunge con spavalderia «voglio morire da eroe». La generazione di Mustafa non ha vissuto l’intifada, ma è convinta di «liberare la Palestina», come sostiene Marwan che di anni ne ha 19. «Al-Aqsa verrà liberata, e anche Bet-El», la vicina colonia israeliana al confine con Ramallah dove in questi giorni ci sono stati scontri durissimi con l’esercito e oltre 150 feriti. E’ la “prima linea” dove i ragazzi dei campi di profughi di Al Amari, Jalazun e Kalandia vanno a scontrarsi con l’Esercito israeliano convinti che sia il loro unico destino.
Qualche chilometro più in là il Muro di separazione e la sporcizia che caratterizzano il check-point di Qalandia, così vicino eppure così distante da Gerusalemme. I miasmi di gas lacrimogeni e copertoni bruciati rendono l’aria irrespirabile. Appena dall’altra parte nei quartieri arabi di Shuafat e Beit Hanina, è un caos di spari, esplosioni piccole e grandi, incendi. Le sirene e lampeggianti rossi delle ambulanze e quelli blu di esercito e polizia si intravvedono a malapena fra le fiamme e il buio della sera che cala. Si è fatto largo uso di armi e pallottole vere, qui è stato ucciso un palestinese di 21 anni e 12 altri feriti. Le notizie che escono dall’autoradio segnalano la pericolosa deriva delle violenze non solo nella Città Santa con i sei quartieri arabi in fiamme, nei Territori occupati, ma anche in Israele. Attacchi a Tel Aviv e ad Afula, nel Negev, aree estranee nel passato a violenze di questo genere. Sono i “lupi solitari” palestinesi: sette israeliani feriti in un sol giorno a colpi di forbici, coltello e cacciavite.
Il presidente Abu Mazen cammina su una corda molto sottile.
Sta cercando di impedire un’escalation nella convinzione che questo costerà ai palestinesi la simpatia internazionale (come accade per la Seconda Intifada) ma non può ordinare ai suoi apparati di sicurezza di fermare le proteste di piazza, altrimenti verrebbe spazzato via dalla rabbia popolare. Molto dipenderà dalla risposta di Israele che accusa il leader dell’Anp di soffiare sul fuoco. Il premier Benjamin Netanyahu per evitare nuove tensioni sulla Spianata ha vietato le visite di politici israeliani e palestinesi sul luogo santo per le due religioni, ha annunciato che metal detector verranno installati a tutti i 9 ingressi della Città Vecchia. Sulla Città Santa aleggia da settimane una soffocante cappa. Il timore di attacchi terroristici è diffuso e la tensione si riflette nei comportamenti quotidiani, l’ansia si legge negli occhi della gente per le strade, al bar, i ristoranti sono semi-vuoti così come i centri commerciali e i cinema che hanno abolito l’ultimo spettacolo. Perché il buio, adesso, fa paura. Le scuole di ogni ordine e grado ieri sono state chiuse in città (e lo saranno anche oggi) su richiesta dei Comitati dei genitori. Chi pensa che Gerusalemme sia una città come un’altra ha avuto ieri la prova inquietante e dolorosa che questa è solo un’illusione. Di primo mattino il sindaco Nir Barkat si è fatto ritrarre dalla tv mentre usciva di casa con un fucile in mano e ha lanciato un invito che non può non far correre un brivido lungo la schiena. «Molti in Israele hanno esperienze operative di combattimento, il mio suggerimento è: chi possiede un’arma, esca di casa armato». 



Manifestazioni e attacchi: il bilancio è da Intifada
Israele/Cisgiordania. Oltre 270 feriti in un giorno, un palestinese ucciso vicino Hebron. Manifestazioni ovunque, l'esercito apre il fuoco. In territorio israeliano marce anti-palestinesidi Chiara Cruciati il manifesto  10.10.15
BETLEMME Ramallah, Hebron, Betlemme, Nablus, Tulkarem, Salfit, Jenin, Qalqiliya: tutta la Cisgiordania è in fiamme. Al di là del muro attacchi a Gerusalemme, Dimona, Afula e manifestazioni a Haifa e Taibeh. La situazione tra Israele e Territori Occupati è esplosiva: le immagini che ieri riempivano le tv palestinesi mostravano proteste in decine di città in Cisgiordania e raccontavano delle violenze in Israele e a Gerusalemme. Nei social network si susseguivano immagini di morti e feriti, una sollevazione che dalle strade finisce in rete.
Il bilancio è da Intifada: in una settimana 14 morti palestinesi in una settimana, 4 israeliani. Quasi mille i feriti tra i palestinesi, negli scontri con le forze militari israeliane; una decina quelli israeliani colpiti da coltelli o da lancio di pietre. Uno stillicidio ricominciato ieri mattina con l’accoltellamento di 4 lavoratori palestinesi nella città meridionale israeliana di Dimona. L’israeliano responsabile, 24 anni, è stato arrestato dalla polizia. Che non ha aperto il fuoco contro l’aggressore, come successo poche ore dopo a nord, ad Afula: una palestinese di Nazareth, Esraa ‘Abed, 30 anni, è stata centrata da sei colpi di pistola nella stazione degli autobus. Brandiva un coltello – dice la polizia – e voleva colpire una guardia privata. I video girati da testimoni la mostrano immobile, con un oggetto in mano e le braccia alzate, circondata da poliziotti. Poco dopo, gli spari. È ora ricoverata in ospedale.
Due pesi e due misure. Lo stesso si è verificato nei Territori Occupati: Muhammad Fares Abdullah al-Jaabari, 19 anni, è stato ucciso nella colonia di Kiryat Arba vicino Hebron dopo aver accoltellato un poliziotto di frontiera, ricoverato per ferite lievi.
Simile la situazione a Gerusalemme, nei giorni scorsi ed ancora ieri mattina: un palestinese ha accoltellato un adolescente israeliano di 14 anni, mentre la polizia riceveva l’ordine di blindare la città e dispiegava agenti nei quartieri di Ras al-Amud e Wadi al-Joz. La Spianata delle Moschee è stata chiusa ai fedeli musulmani sotto i 45 anni e in moltissimi si sono ritrovati alla porta di Damasco per pregare in strada. Nella notte erano migliaia i palestinesi scesi in strada a Shuafat, Gerusalemme Est, per i funerali di Wissam Faraj, ucciso il giorno prima mentre difendeva la casa di Subhi Abu Khalifa (responsabile di un accoltellamento in Città Vecchia) dalla demolizione. In serata, secondo i residenti, le autorità israeliane hanno cercato di compiere un raid nella tenda posta fuori dalla casa di Faraj. Scontri sono esplosi in molti dei quartieri di Gerusalemme Est.
Manifestazioni partecipate in Cisgiordania, a cui l’esercito israeliano ha risposto con lacrimogeni, proiettili di gomma e proiettili veri: 272 i feriti totali, di cui 24 da pallottole, secondo la Mezza Luna Rossa. Ad Hebron un paramedico ha perso un occhio a causa di un proiettile di gomma mentre aiutava alcuni manifestanti. A Tulkarem è stata la polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese a fermare la protesta diretta alla fabbrica chimica israeliana Kashouri, costruita su terre palestinesi: Ramallah lo ha detto chiaramente, non permetterà una sollevazione e non metterà in pericolo il coordinamento alla sicurezza con Israele, prodotto degli Accordi di Oslo da sempre avversato dal popolo palestinese.
La notte precedente all’atteso venerdì di violenze, le strade delle principali città israeliane erano state teatro di marce anti-palestinesi: gruppi estremisti ebraici, molti legati a squadre di calcio, a partire dal Beitar, camminavano per Gerusalemme, Netanya e Afula cantando cori anti-arabi e aggredendo i pochi palestinesi presenti. La polizia israeliana è intervenuta per sedarli, stringendo le manette ai polsi di sei leader degli ultrà israeliani del gruppo Lehava.
Ieri gruppi di coloni hanno compiuto raid nei quartieri di al-Ras e al-Jaabari a Hebron e nella vicina città di Yatta, con lancio di pietre contro le case. Una violenza individuale che preoccupa le stesse autorità israeliane incapaci di gestire sia gli attacchi dei giovani palestinesi, non membri di organizzazioni politiche o armate, né tanto meno quelli degli estremisti ebraici. Una galassia di gruppi ingestibili, lasciati crescere e maturare da un governo ora incapace di tenerli a bada. Tanto da far dire al ministro della Sicurezza Pubblica, Gilad Erdan, che Israele «non tollererà che nessuno prenda la legge nelle proprie mani, anche i terroristi ebraici stanno compiendo attacchi».


Israele/Territori occupati L'Intifada di Gerusalemme raggiunge la Striscia
Una manifestazione cominciata dopo le preghiere del venerdì finisce sotto il fuoco dei militari israeliani sul confine E' stato un massacro Intanto Hamas scende in campo e lancia appelli alla sollevazione contro Israeledi Michele Giorgio il manifesto  10.10.15
GERUSALEMME ll’estate 2014, figlie dei bombardamenti aerei e dei tiri di artiglieria, si è ripresentato ieri con tutto il suo orrore quando, al termine delle preghiere islamiche, centinaia di giovani di Gaza si sono lanciati verso vari punti delle recinzioni che dividono la Striscia da Israele. Urlavano slogan a difesa della Moschea di al Aqsa di Gerusalemme. Non avevano armi per minacciare da vicino i soldati israeliani protetti nelle alte torri di cemento armato che presidiano diversi punti del “confine”. Hanno avuto la “colpa” di entrare nella “no-go zone” imposta da Israele all’interno del territorio di Gaza. La conoscono bene i contadini che da anni rischiano la vita per andare nei loro campi racchiusi in quella fascia di territorio palestinese interdetta. I comandi israeliani hanno riferito di aver ordinato di sparare contro gli «istigatori delle manifestazioni violente» che lanciavano sassi e davano fuoco a copertoni. I soldati hanno eseguito l’ordine ricevuto con particolare zelo. Sette palestinesi sono stati uccisi e altri 60 feriti sulle recinzioni a est di Gaza City, più o meno all’altezza del centro abitato israeliano di Nahal Oz dall’altra parte del confine, e a est Khan Younis.
Come un anno fa decine di ambulanze a sirene spiegate hanno fatto la spola verso gli ospedali, tra scene di disperazione e dolore di ragazzi che trascinavano via altri ragazzi morenti, insaguinati, forse compagni di scuola, amici o parenti, sotto il fuoco dei soldati impegnati a prendere di mira gli «istigatori delle manifestazioni violente». Per sei giovani è stata inutile la corsa a tutta velocità dei mezzi di soccorso verso la speranza di salvezza. Shadi Dawla, 20 anni, Ahmad Herbawi, 20, e Abed Wahidi, 20, sono stati uccisi nella zona più orientale del quartiere di Shajayea, che resta un cumulo di macerie dopo i bombardamenti israeliani dello scorso anno. Muhammad Raqeb, 15 anni, e Ziad Sharaf, 20, sono stati uccisi a est di Khan Younis. In quella stessa zona poco dopo è stato colpito alla testa e ucciso Adnan Elayyan, 22 anni. «Abbiamo anche 60 feriti, 10 dei quali in gravi condizioni. I medici stanno facendo di tutto per salvarli», ha riferito il portavoce del ministero della salute Ashraf al-Qidra.
In un solo colpo Gaza si è ritrovata nel pieno della “Intifada di Gerusalemme”, così come i palestinesi chiamano la loro rivolta in riferimento alla difesa della Spianata delle Moschee, e che ora dopo ora si allarga a macchia d’olio nei Territori occupati. Per gli israeliani invece è «l’Intifada dei coltelli» per gli accoltellamenti che nell’ultima settimana hanno ucciso due ebrei nella città vecchia di Gerusalemme e ferito diversi altri (alcuni in modo grave). Il nome di ciò che accade in questi giorni non ha molta importanza. Forse non è nemmeno una Intifada o almeno non lo è nei modi in cui lo sono state le rivolte contro l’occupazione del 1987–93 e del 2000–5. L’unica cosa certa è che mette fine a anni ugualmente drammatici, di sangue, di diritti negati, di abusi, di violazioni, di cui quasi nessuno lontano da questa terra è sembrato accorgersi. E senza dubbio avrà riflessi politici di grande rilievo anche in casa palestinese.
«Hamas ieri è sceso ufficialmente in campo», ci spiega Saud Abu Ramadan, uno dei giornalisti di Gaza più esperti, «Oggi (ieri) è stato stato il numero 2 dell’ufficio politico (ed ex premier) Ismail Haniyeh ad assicurare che i palestinesi di Gaza non faranno mancare il loro appoggio ai fratelli della Cisgiordania. Il movimento islamico vuole partecipare con un ruolo da protagonista, sapendo di godere di sostegni popolari anche in Cisgiordania». E’ una sfida all’autorità del presidente dell’Anp Abu Mazen? «Senza alcun dubbio» prosegue Abu Ramadan «Hamas sente che la posizione di Abu Mazen è delicata e intende incalzarlo. Può conquistare nuovi consensi proprio sulla debolezza del presidente dell’Anp che non rinuncia alla cooperazione di sicurezza con Israele, uno dei capitoli più contestati (dai palestinesi) degli accordi di Oslo (del 1993)». Allo stesso tempo, aggiunge da parte sua Aziz Kahlout, analista di Gaza, «Hamas non intende andare allo scontro aperto con Israele che finirebbe per innescare un nuovo conflitto che Gaza non può permettersi visto che lotta ancora per emergere dalle macerie della guerra di un anno fa».
Abu Mazen passa ore ed ore nel suo ufficio a Ramallah. Non sa quale strada prendere. Israele, come Usa ed Europa, gli chiedono di agire, anche con le sue forze di sicurezza, per impedire che la tensione sfoci nella nuova Intifada. Fuori da quella stanza c’è la popolazione palestinese che reclama fermezza nei confronti delle politiche di Israele. L’immobilismo complica anche la posizione del suo movimento, Fatah. Il presidente dell’Anp sembra tenere a freno, per il momento, gli uomini della sicurezza fatti schierare a distanza dalle zone di scontro tra dimostranti e soldati israeliani. E rilascia dichiarazioni di condanna delle politiche di Israele sulla Spianata delle Moschee. Allo stesso tempo non ha il coraggio o la forza di staccare la spina alla cooperazione di sicurezza con Israele e di lasciare campo libero all’Intifada che, ne è certo, lo indebolirà e favorirà i piani di Hamas. Insiste perciò nel chiedere ai palestinesi proteste senza alcun tipo di violenza ma non tiene conto dell’impatto che la repressione messa in atto da Israele e stragi come quella di ieri a Gaza, alimentano la rabbia della sua gente. Per placare la nuova Intifada spera anche nella dipendenza dall’Anp di oltre 120mila palestinesi impiegati nei ministeri e nelle varie agenzie di sicurezza.
Tuttavia, scriveva un paio di giorni fa sul giornale al Ayyam di Ramallah il noto opinionista Hani al Masri, «il confronto (con Israele) non è la nostra scelta ma ci è imposto… In realtà, il confronto è necessario, se i palestinesi cercano la liberazione, il diritto al ritorno, l’indipendenza, la sconfitta e lo smantellamento del progetto coloniale israeliano». Un punto di vista largamente condiviso tra i palestinesi e nella stessa base di Fatah.



Quei fantasmi sulla Spianata
Il luogo è di nuovo al centro della contesa. La vecchia ferita sanguina ancora ed è esposta al pericolo di un contagio in una regione piena di fanatismi La moschea di Al Aqsa l’ultimo simbolo che infiamma la rivolta dei delusi da Abu Mazendi Bernardo Valli Repubblica 10.10.15
ABRAMO vi preparò il sacrificio del figlio Isacco. Gesù vi frequentava il Tempio ebraico (il secondo). Maometto vi spiccò il volo verso il cielo. La Spianata delle moschee per i musulmani o il Monte del Tempio per gli ebrei è, a Gerusalemme, uno spazio popolato di avvenimenti salienti per le tre religioni monoteiste. Al tempo stesso è un luogo che suscita aspre contese. Su una parete, in molte case palestinesi, c’è un manifesto o una fotografia della Spianata sulla quale sorgono le moschee di Al Aqsa e di Omar. In particolare l’immagine della moschea di Al Aqsa ha un valore non soltanto religioso. È il prezioso frammento di un’identità frustrata che nella Palestina occupata è rimasto un estremo e irrinunciabile simbolo.
Conquistata nel ’67 quell’area tanto carica di storia è stata considerata dagli stessi israeliani un bene religioso islamico ( Waqf) e il suo controllo è stato affidato alle autorità giordane. Le quali, nei momenti di crisi, si astengono dal difficile, ingrato compito. È quel che minacciano di fare in questi giorni. L’accesso alla Spianata è riservato ai musulmani per le preghiere; mentre gli ebrei recitano le loro nel sottostante Muro del Pianto. Capita spesso, da anni, che per evitare manifestazioni gli israeliani proibiscano ai palestinesi di meno di cinquant’anni (l’età limite è variabile) di raggiungere la Spianata. E accade che gli ebrei ortodossi violino le consegne e vadano a compiere riti o organizzino riunioni nello spazio a loro vietato. Questo appare ai musulmani una provocazione.
Nel 2000, il 28 settembre, due mesi dopo il fallimento del vertice di Camp David, negli Stati Uniti, dove si era sperato invano di risolvere il conflitto israelo-palestinese, Ariel Sharon, allora capo dell’opposizione di destra, raggiunse la Spianata, e il suo gesto fu interpretato come un segno di sfida. Il giorno successivo vi fu una manifestazione musulmana di protesta durante la quale furono uccisi cinque palestinesi, nell’area tra le due moschee, e altri due nella città vecchia. Cosi è cominciata la seconda Intifada (insurrezione), battezzata “Al Aqsa”. Durò cinque anni e fece circa 4.700 vittime, l’ottanta per cento delle quali palestinesi. Fu molto più sanguinosa della prima Intifada (1987-1993) che contò 1.258 palestinesi e 150 israeliani uccisi, e fu chiamata “dei sassi” o “delle pietre”, perché al contrario di quel che accadde nella seconda gli insorti non usarono armi da fuoco.
Siamo adesso alla terza Intifada? Non sono in pochi a pensarlo. Ismail Haniyeh, il capo di Hamas nella Striscia di Gaza, ne è convinto. Ma per ora resta un incubo per la maggioranza degli israeliani come per la maggioranza dei palestinesi. Le aggressioni improvvise con dei pugnali si moltiplicano e ci sono stati sei morti a Gaza nelle ultime ore. La scintilla c’è stata. Ma non l’incendio. Ancora una volta la Spianata delle Moschee è al centro della contesa, alimentata da tanti episodi sanguinosi che non hanno, per ora, l’estensione di un’insurrezione.
I palestinesi accusano il governo di Gerusalemme di limitare ai musulmani l’accesso al luogo santo, ma soprattutto di non respingere in modo netto le rivendicazioni degli estremisti israeliani. I quali, malgrado la proibizione, scortati dalla polizia armata, raggiungono al mattino presto la Spianata. «La considerano una zona di guerra poiché ci vengono scortati dai mitra», dicono i custodi palestinesi delle moschee. Inoltre molti sono convinti che gli israeliani vogliano distruggere le due moschee, quella di Omar (o Cupola della Roccia), e di Al Aqsa. O che si preparino a costruire tra le moschee una sinagoga, che sarebbe il terzo Tempio, dopo i due distrutti nell’antichità. Le ripetute smentite non sono ascoltate, destano invece sospetto i propositi provocatori degli estremisti israeliani.
Collere e fantasmi si addensano attorno alla moschea di Al Aqsa. Essa sorge sul terzo luogo santo dell’Islam, dopo la Mecca e Medina, e sulla sua immagine appesa alle pareti di molte case si concentrano tanti sentimenti, non essendo l’indipendenza neppure più un miraggio. La bandiera nazionale alle Nazioni Unite, il rango di osservatore della Palestina presso quell’istituzione tanto internazionale quanto impotente, le audaci parole del presidente dell’Autorità nazionale palestinese all’Assemblea generale di New York, come del resto tutte le puntuali dichiarazioni e promesse fatte in numerose capitali del mondo, hanno finito con l’avere scarso valore per i giovani e le giovani (numerose sono le ragazze che partecipano alle manifestazioni), nati dopo il 1993, l’anno degli accordi di Oslo che sembrava fossero il preludio alla nascita di uno Stato palestinese. Quel che è visibile, concreto, è il continuo espandersi degli insediamenti, tra il Mediterraneo e il Giordano, nel nome del Grande Israele.
Abu Mazen, il capo dell’Autorità nazionale palestinese, incarna la delusione. Impopolare tra i suoi, perché rappresenta l’impotenza politica o addirittura la collaborazione, non è preso sul serio neppure dagli israeliani. È una dignitosa figura che non incide sulla realtà. Quindi con scarso credito come leader cui è affidata la missione, per ora impossibile, di creare uno Stato. In queste ore il governo di destra, presieduto da Benyamin Netanyahu, considera con sospetto Abu Mazen, il quale ha condannato le violenze degli israeliani ma non quelle dei palestinesi. E quest’ultimi pensano che i rapporti tra le forze dell’ordine dell’Autorità palestinese e quelle israeliane non siano state congelate, come si dice, ma che in effetti continuino con discrezione.
Nel Medio Oriente costellato di vulcani in eruzione, il conflitto israelo-palestinese sembrava un cratere sonnolento, tutt’altro che spento, ma quieto. Periferico. Le vicine guerre hanno cambiato le alleanze. Israele è affiancata di fatto all’Arabia Saudita, e in generale ai paesi sunniti in lotta contro l’Iran sciita sul campo di battaglia siriano. Dove si incrociano aerei americani e russi. Tutti belligeranti interessati a problemi incandescenti, immediati, e non a crisi croniche e in apparenza e irrisolvibili come quella tra palestinesi e israeliani. Invece la vecchia ferita sanguina ancora, ed è esposta al pericolo di un contagio, in una regione generosa in armi e fanatismi. Mentre in Terra Santa c’è urgente bisogno di ragione.


Lo scrittore Khaled Diab: «Pericoloso il populismo di chi chiama alle armi»di Davide Frattini Corriere 10.10.15
GERUSALEMME Le immagini lo mostrano con la camicia azzurra che indossa per andare in ufficio e il fucile mitragliatore a tracolla. Il sindaco Nir Barkat ha servito sei anni nella Brigata paracadutisti (quella che ha avuto come primo comandante Ariel Sharon), ne fa sfoggio in campagna elettorale e lo esibisce adesso che la sua città sembra tornata in guerra. Pattuglia le strade la notte, invita gli abitanti ebrei a fare lo stesso. «Chi possiede un’arma deve sempre portarla con sé — ha commentato — per fortuna in questo Paese ci sono molti militari e riservisti ben addestrati».
L’appello di Barkat spaventa lo scrittore Khaled Diab, di origini egiziane, che ha vissuto tra l’Europa e il Medio Oriente e da un paio d’anni abita a Gerusalemme. Lo spaventa la chiamata alle armi perché gli sembra «pericoloso populismo». Ammette che la paura è cresciuta: «Mio figlio ha sei anni, frequenta la scuola francese e il preside ha vietato a tutti i bambini, anche a quelli più grandi, di tornare a casa da soli. Durante l’intervallo non possono più uscire».
Blindati come gli accessi alla Città Vecchia dove la polizia ha installato i metal detector nella speranza di fermare i possibili attentatori palestinesi, gli ultimi attacchi sono stati tutti perpetrati con i coltelli. «Nella Città Vecchia non andiamo più — spiega Diab — perché il rischio di rimanere coinvolti negli scontri è troppo alto».
Come ha raccontato sul Corriere , per la sua famiglia il pericolo è doppio: «E se un estremista ebreo ci sente parlare arabo? E se un estremista palestinese ci piglia per ebrei, un padre di carnagione scura e il suo figlio biondo?». È «dall’estate dell’odio che il senso di sicurezza e il residuo di fiducia reciproca sono stati azzerati». Le violenze vanno avanti da oltre un anno, dal rapimento e l’uccisione dei tre ragazzi israeliani, dall’omicidio per vendetta di un adolescente palestinese, dai sessanta giorni di guerra con Hamas a Gaza.
«Gli analisti si chiedono se battezzarla terza intifada. Di certo è una rivolta che non si placa, anche se per ora non sembra essere organizzata da leader. Un elemento nuovo rispetto al passato è rappresentato dalle rappresaglie dei coloni ebrei che si fanno le leggi da soli».
Nel suo libro «Intimate Enemies» ricorda e cataloga le passioni comuni dei palestinesi e degli israeliani ma «le due società hanno visto uno spostamento dal nazionalismo secolare e di sinistra verso il populismo di destra, con forti connotazioni religiose».
«Il presidente Abu Mazen cerca di barcamenarsi. Usa una retorica molto bellicosa sulla questione della moschea Al Aqsa. Lo fa per zittire le critiche interne, quelle di chi lo considera troppo debole o lo accusa di essere un dittatore che non ha mai indetto le nuove elezioni. Deve anche contrastare la concorrenza di Hamas: pure gli islamisti sfruttano la Spianata per lotte politiche tra i palestinesi, vogliono dimostrare che Abu Mazen non è in grado di proteggere i luoghi sacri».
David Rosenberg sul quotidiano israeliano Haaretz attribuisce parte della rabbia araba alla stagnazione economica: la crescita in Cisgiordania è zero, le prospettive di un rilancio ancora peggiori.
«I ragazzi si sentono oppressi, trovare una casa è impossibile, mancano gli appartamenti o sono troppo cari perché Israele non concede i permessi per costruire. La disoccupazione è alta soprattutto tra i giovani, così la frustrazione li spinge a scendere in strada». 

“La sola possibilità contro la violenza è tornare al dialogo”
Sharon Appelfeld. Per l’intellettuale israeliano gli scontri possono ancora essere fermatiintervista di Guido Andruetto Repubblica 10.10.15
«Purtroppo quello che sta accadendo non è nulla di nuovo, sono fatti drammatici che si ripetono ciclicamente ogni due o tre anni. Se mi si chiede qual è il mio giudizio su questa nuova ondata di violenza, io per prima cosa dico che non è nuova: è qualcosa che ci accompagna da troppo tempo». Non si sente volare una mosca nella casa di Aharon Appelfeld a Gerusalemme. Niente tv o radio in sottofondo, nessun computer collegato, il cellulare è spento dal mattino. Il vecchio fax l’ha acceso solo per spedire all’editore italiano Guanda alcune note sul suo prossimo libro, Tre lezioni sulla Shoah. Eppure l’eco dei drammatici scontri che stanno insanguinando la striscia di Gaza ed Israele, è arrivata nella stanza piena di libri.
Appelfeld, che cosa la preoccupa di più del clima di queste ore?
«Sono allarmato per questa recrudescenza di atti violenti, che a me sembrano destinati a reiterarsi a oltranza, ma mi sento anche di dire che le cose possono comunque migliorare, che c’è lo spazio per cambiare la situazione. Sono ottimista nonostante quello che sta succedendo ».
Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha invocato altri scontri per liberare Gerusalemme. Quali segnali di continuità nota con le precedenti rivolte?
«Non penso che si debba parlare di un ritorno dell’Intifada. E’ una visione errata. Le insurrezioni cui stiamo assistendo in queste ore non hanno certamente la spinta che aveva l’Intifada. Il fuoco di oggi non è forte come lo era in passato».
E’ convinto quindi che sia più facile domarlo?
«Esattamente, si può riuscire a controllare la situazione. Ed è quello che mi auguro accada al più presto. Credo che il premier israeliano Netanyahu e il presidente palestinese Abu Mazen potrebbero dare un contributo fondamentale, insieme, per spegnere o quantomeno per cercare di moderare l’entità di questo ennesimo focolaio di violenza ».
Qual è la sua reazione di fronte all’uccisione di ragazzi palestinesi e agli attacchi contro cittadini israeliani?
«È una violenza che mi addolora profondamente. Mi fa male constatare che non viviamo in pace. E sono sconcertato anche perchè quei giovani non tiravano bombe ma pietre. Le pietre possono essere pericolose ma restano pietre. Non sono bombe».
Quale via di uscita vede, allora?
«Dobbiamo trovare dentro di noi, la forza e la volontà per il cambiamento e per migliorare le nostre vite».
Da dove si dovrebbe cominciare?
«Mi piace pensare che si debba volare alto. Il mio sogno è la pace, bisogna aspirare ad essa, lavorando perché le scuole siano un luogo in cui stare insieme, perché si possa pregare insieme pur avendo fedi differenti, perché si possa vivere insieme serenamente. Tutti hanno bisogno di queste cose».
Israeliani e palestinesi, però, non le sembrano sempre più lontani?
«Non bisogna perdere la speranza di recuperare il dialogo. Nonostante tutto dobbiamo sforzarci per alimentarlo in tutte le forme possibili».
Aharon Appelfeld, 82 anni, sopravvissuto alla Shoah, è lo scrittore autore di romanzi come “Un’intera vita” e “Il ragazzo che voleva dormire”.

Suad Amiry.
La scrittrice racconta la rabbia della sua gente per lo stallo del processo di pace
“Per il mio popolo scendere in strada è l’unica soluzione”
La vita dei ragazzi negli ultimi anni è peggiorata, è sempre più difficile
La nostra è una situazione simile all’apartheid in Sudafrica
intervista di Francesca Caferri Repubblica 10.10.15
Suad Amiry risponde al telefono da New York, dove vive quando non è a Ramallah. Architetto e scrittrice, con i suoi libri (Sharon e mia suocera, Golda ha dormito qui, solo per citare due titoli, editi in Italia da Feltrinelli), è diventata una delle voci più note della società palestinese.
Signora Amiry, siamo di fronte alla terza Intifada?
«Negli ultimi due anni la situazione dei palestinesi è peggiorata, la vita quotidiana è diventata sempre più difficile. In questi mesi Gerusalemme è stata di fatto isolata: per noi andare a pregare è complicatissimo mentre i coloni ebrei sono riusciti ad entrare anche nella moschea di Al Aqsa. Le politiche di Israele hanno di fatto spinto i giovani per la strada: non c’è stata altra speranza. Questo è il vero problema, non cercare la giusta definizione per quello che sta succedendo ».
Anche i politici palestinesi però hanno commesso clamorosi errori… «Certo. Abu Mazen ha tentato in tutti i modi di salvare il dialogo e per fare questo si è piegato al punto di perdere la faccia con i suoi, soprattutto con i più giovani. Gli israeliani non troveranno mai più un leader così moderato come il presidente Abu Mazen, eppure neanche con lui sono riusciti a sedersi intorno a un tavolo. Il risultato è l’arrivo sulla scena di una nuova generazione, che per mettere fine a questa situazione va in strada. Sono stata nel team dei negoziatori palestinesi e posso dire con certezza che quelli come me, che per anni hanno predicato la necessità di riconoscere lo Stato di Israele, oggi appaiono ridicoli agli occhi della maggior parte della gente dei Territori e della Striscia di Gaza. Noi chiedevamo rispetto, ma Netanyahu si è messo in tasca le nostre parole. Per anni Abu Mazen ha fatto arrestare chi scendeva in strada contro Israele: abbiamo fatto i protettori dei nostri occupanti. Ed ecco il risultato».
Sta dicendo che non c’è più speranza per l’eterno conflitto israelo-palestinese?
«No, non dico questo. Certo che c’è speranza: i ragazzi non sarebbero in strada se non avessero speranza. La speranza è che finisca l’occupazione. Questa situazione così ingiusta non può andare avanti per sempre. Vogliamo la pace, vogliamo una soluzione: ma bisogna essere in due per avere queste cose. Quello che non vogliamo, che non possiamo accettare, è continuare a vivere in uno stato di apartheid».
Cosa vede nel futuro?
«Le dico cosa vedo nel presente, qui in America, il paese dove ho studiato negli anni ’70 e dove per anni l’opinione pubblica è stata in modo compatto dalla parte di Israele. Oggi anche qui un numero crescente di persone iniziano a capire come vivono i palestinesi. La Palestina sta diventando un nuovo Sudafrica, un caso internazionale troppo imbarazzante per non fare nulla. L’apartheid finì quando il mondo disse basta, quando l’embargo economico diventò forte e mise alle strette il governo. Io mi auguro che presto accada lo stesso per noi».
Suad Amiry, 64 anni, è l’architetta e scrittrice palestinese autrice di romanzi come “Sharon e mia suocera” e “Murad Murad”

Repubblica 10.10.15
Il luogo è di nuovo al centro della contesa. La vecchia ferita sanguina ancora ed è esposta al pericolo di un contagio in una regione piena di fanatismi
La moschea di Al Aqsa l’ultimo simbolo che infiamma la rivolta dei delusi da Abu Mazen
di Bernardo Valli


ABRAMO vi preparò il sacrificio del figlio Isacco. Gesù vi frequentava il Tempio ebraico (il secondo). Maometto vi spiccò il volo verso il cielo. La Spianata delle moschee per i musulmani o il Monte del Tempio per gli ebrei è, a Gerusalemme, uno spazio popolato di avvenimenti salienti per le tre religioni monoteiste. Al tempo stesso è un luogo che suscita aspre contese. Su una parete, in molte case palestinesi, c’è un manifesto o una fotografia della Spianata sulla quale sorgono le moschee di Al Aqsa e di Omar. In particolare l’immagine della moschea di Al Aqsa ha un valore non soltanto religioso. È il prezioso frammento di un’identità frustrata che nella Palestina occupata è rimasto un estremo e irrinunciabile simbolo.
Conquistata nel ’67 quell’area tanto carica di storia è stata considerata dagli stessi israeliani un bene religioso islamico ( Waqf) e il suo controllo è stato affidato alle autorità giordane. Le quali, nei momenti di crisi, si astengono dal difficile, ingrato compito. È quel che minacciano di fare in questi giorni. L’accesso alla Spianata è riservato ai musulmani per le preghiere; mentre gli ebrei recitano le loro nel sottostante Muro del Pianto. Capita spesso, da anni, che per evitare manifestazioni gli israeliani proibiscano ai palestinesi di meno di cinquant’anni (l’età limite è variabile) di raggiungere la Spianata. E accade che gli ebrei ortodossi violino le consegne e vadano a compiere riti o organizzino riunioni nello spazio a loro vietato. Questo appare ai musulmani una provocazione.
Nel 2000, il 28 settembre, due mesi dopo il fallimento del vertice di Camp David, negli Stati Uniti, dove si era sperato invano di risolvere il conflitto israelo-palestinese, Ariel Sharon, allora capo dell’opposizione di destra, raggiunse la Spianata, e il suo gesto fu interpretato come un segno di sfida. Il giorno successivo vi fu una manifestazione musulmana di protesta durante la quale furono uccisi cinque palestinesi, nell’area tra le due moschee, e altri due nella città vecchia. Cosi è cominciata la seconda Intifada (insurrezione), battezzata “Al Aqsa”. Durò cinque anni e fece circa 4.700 vittime, l’ottanta per cento delle quali palestinesi. Fu molto più sanguinosa della prima Intifada (1987-1993) che contò 1.258 palestinesi e 150 israeliani uccisi, e fu chiamata “dei sassi” o “delle pietre”, perché al contrario di quel che accadde nella seconda gli insorti non usarono armi da fuoco.
Siamo adesso alla terza Intifada? Non sono in pochi a pensarlo. Ismail Haniyeh, il capo di Hamas nella Striscia di Gaza, ne è convinto. Ma per ora resta un incubo per la maggioranza degli israeliani come per la maggioranza dei palestinesi. Le aggressioni improvvise con dei pugnali si moltiplicano e ci sono stati sei morti a Gaza nelle ultime ore. La scintilla c’è stata. Ma non l’incendio. Ancora una volta la Spianata delle Moschee è al centro della contesa, alimentata da tanti episodi sanguinosi che non hanno, per ora, l’estensione di un’insurrezione.
I palestinesi accusano il governo di Gerusalemme di limitare ai musulmani l’accesso al luogo santo, ma soprattutto di non respingere in modo netto le rivendicazioni degli estremisti israeliani. I quali, malgrado la proibizione, scortati dalla polizia armata, raggiungono al mattino presto la Spianata. «La considerano una zona di guerra poiché ci vengono scortati dai mitra», dicono i custodi palestinesi delle moschee. Inoltre molti sono convinti che gli israeliani vogliano distruggere le due moschee, quella di Omar (o Cupola della Roccia), e di Al Aqsa. O che si preparino a costruire tra le moschee una sinagoga, che sarebbe il terzo Tempio, dopo i due distrutti nell’antichità. Le ripetute smentite non sono ascoltate, destano invece sospetto i propositi provocatori degli estremisti israeliani.
Collere e fantasmi si addensano attorno alla moschea di Al Aqsa. Essa sorge sul terzo luogo santo dell’Islam, dopo la Mecca e Medina, e sulla sua immagine appesa alle pareti di molte case si concentrano tanti sentimenti, non essendo l’indipendenza neppure più un miraggio. La bandiera nazionale alle Nazioni Unite, il rango di osservatore della Palestina presso quell’istituzione tanto internazionale quanto impotente, le audaci parole del presidente dell’Autorità nazionale palestinese all’Assemblea generale di New York, come del resto tutte le puntuali dichiarazioni e promesse fatte in numerose capitali del mondo, hanno finito con l’avere scarso valore per i giovani e le giovani (numerose sono le ragazze che partecipano alle manifestazioni), nati dopo il 1993, l’anno degli accordi di Oslo che sembrava fossero il preludio alla nascita di uno Stato palestinese. Quel che è visibile, concreto, è il continuo espandersi degli insediamenti, tra il Mediterraneo e il Giordano, nel nome del Grande Israele.
Abu Mazen, il capo dell’Autorità nazionale palestinese, incarna la delusione. Impopolare tra i suoi, perché rappresenta l’impotenza politica o addirittura la collaborazione, non è preso sul serio neppure dagli israeliani. È una dignitosa figura che non incide sulla realtà. Quindi con scarso credito come leader cui è affidata la missione, per ora impossibile, di creare uno Stato. In queste ore il governo di destra, presieduto da Benyamin Netanyahu, considera con sospetto Abu Mazen, il quale ha condannato le violenze degli israeliani ma non quelle dei palestinesi. E quest’ultimi pensano che i rapporti tra le forze dell’ordine dell’Autorità palestinese e quelle israeliane non siano state congelate, come si dice, ma che in effetti continuino con discrezione.
Nel Medio Oriente costellato di vulcani in eruzione, il conflitto israelo-palestinese sembrava un cratere sonnolento, tutt’altro che spento, ma quieto. Periferico. Le vicine guerre hanno cambiato le alleanze. Israele è affiancata di fatto all’Arabia Saudita, e in generale ai paesi sunniti in lotta contro l’Iran sciita sul campo di battaglia siriano. Dove si incrociano aerei americani e russi. Tutti belligeranti interessati a problemi incandescenti, immediati, e non a crisi croniche e in apparenza e irrisolvibili come quella tra palestinesi e israeliani. Invece la vecchia ferita sanguina ancora, ed è esposta al pericolo di un contagio, in una regione generosa in armi e fanatismi. Mentre in Terra Santa c’è urgente bisogno di ragione. 



Sei morti palestinesi in 24 ore, adolescenti in prima linea
Palestina/Israele. Uccisi a Gerusalemme e Gaza in attacchi e manifestazioni pacifiche. Quattro israeliani accoltellati. La politica non sa reagire.di Chiara Cruciati il manifesto 11.10.15
BETLEMME La rivolta che attraversa i Territori Occupati e Israele è diversa dalle precedenti sollevazioni popolari. Lo si vede tra la gente, per le strade della Cisgiordania. Negozi aperti, suq affollati, atmosfera “normale”. Se non fosse per le parole che si sovrappongono: tutti parlano degli attacchi, degli scontri. Tanti i ragazzini con la kefiah al collo. Ma la partecipazione di massa alle proteste che esplodono improvvise a ogni ora del giorno e della notte non c’è.
Gli shebab tirano pietre lungo il muro tra Betlemme e Gerusalemme. I più grandi li richiamano, chi ha vissuto la Seconda Intifada e la sofferenza che portò con sé: «Ho trovato mio cugino al muro, lanciava pietre – ci dice Hassan, 27 anni – L’ho riaccompagnato a casa. Quando scoppierà qualcosa di grosso, popolare, lo porterò io stesso a manifestare. Ma ora è un gioco al massacro».
Un’opinione che alcuni adolescenti non condividono, quelli che si fanno uccidere dalle pallottole israeliane per portare avanti un’azione che sa di disperazione. Ieri altri due casi di accoltellamento sono finiti con la morte dei responsabili. Il bilancio di ieri è sanguinoso: sei palestinesi uccisi, tre a Gaza. Jihad Salim al-Ubeid, 22 anni, morto ieri per le ferite riportate venerdì durante la manifestazione nella Striscia al confine con Israele. Lo stesso scenario si è ripetuto ieri: due ragazzini, Marwan Barbakh, di 13 anni, e Khalil Othman, 15, sono stati ammazzati alla frontiera dal fuoco a distanza di Israele.
La notte scorsa a perdere la vita è stato Ahmad Salah, 24 anni, del campo profughi di Shuafat. È stato ucciso durante scontri con la polizia israeliana. Secondo un leader di Fatah, Thaer al-Fasfous, «le forze di occupazione hanno sparato a distanza ravvicinata», impedito all’ambulanza di soccorrerlo «e lasciato a terra a dissanguarsi».
Gerusalemme ieri ha pagato lo scotto della violenza di questo ottobre: ieri alla Porta di Damasco Eshak Badtan, 16 anni di Kufr ‘Aqab, ha accoltellato un israeliano di 65 anni, ferendolo lievemente. La polizia lo ha circondato e, quando ormai non rappresentava più un pericolo, come mostrano le foto scattate da testimoni, lo ha ucciso. Sono scoppiati scontri alla Porta di Damasco, fino ad un nuovo accoltellamento: un secondo palestinese, Mohammed Saeeb, di Shuafat, ha ferito tre poliziotti prima di essere ucciso.
Un’ondata di aggressioni individuali che Israele non sa gestire. Come non sa gestire il razzismo violento dei suoi cittadini. Si moltiplicano le ronde punitive: agli slogan “Morte agli arabi” segue l’azione. Ieri la polizia ha arrestato 5 israeliani che avevano organizzato nei social network attacchi contro palestinesi nella città costiera di Netanya. Una trentina di persone hanno risposto all’appello e si sono presentate in Piazza Indipendenza con coltelli e catene. Tre palestinesi sono stati aggrediti: due sono riusciti a fuggire, un terzo è stato linciato dalla folla. Fino all’arrivo della polizia.
In Cisgiordania a subire la vendetta dei coloni sono state le comunità palestinesi della zona di Hebron: attaccate abitazioni a Wadi Hussein, dietro la protezione dell’esercito che, invece di intervenire per fermare i coloni, ha lanciato gas lacrimogeni e acqua chimica sulle case.
Per molti osservatori l’intervento israeliano si traduce in punizioni collettive contro la popolazione civile, aperta violazione del diritto internazionale. La demolizione delle case dei responsabili di attacchi o i raid nei quartieri e nei villaggi hanno provocato la protesta di organizzazioni per i diritti umani, a partire da Amnesty International che accusa Israele di «eccessivo uso della forza e di omicidi ingiustificati». Le 20 vittime palestinesi erano tutte evitabili: chi è stato ucciso mentre manifestava pacificamente e chi, dopo aver aggredito con un coltello, poteva essere fermato con altri pezzi. Dopotutto gli israeliani fermati per atti simili non sono stati uccisi, ma solo arrestati.
Hamas per ora resta a guardare: con una mano fa appello alla sollevazione, con l’altra frena spaventato dalla possibile reazione di Israele contro Gaza, ancora non ricostruita e dove il consenso verso il movimento islamista si abbassa. Consenso ai minimi anche per l’Anp che a Ramallah si trincera dietro deboli dichiarazioni mentre i palestinesi esplodono. Il presidente Abbas non sa che fare e, se al telefono con il segretario di Stato Usa Kerry dice che la colpa è «delle provocazioni dei coloni e del governo di occupazione israeliana», nella realtà è schiacciato tra le necessità di frenare l’insurrezione e il timore di un crollo di Fatah tra la gente.

Nuova Intifada porta in strada i palestinesi d’Israele, cittadini di serie B
Galilea. A Nazareth, nei villaggi e nelle cittadine arabe in Galilea e del Neghev migliaia di palestinesi manifestano sull'onda della rivolta nei Territori occupati e contro con uno Stato che anche più di prima li considera cittadini di seconda classe e una "quinta colonna". E' una sfida anche per Lista Unita Arabadi Michele Giorgio il manifesto 11.10.15
GERUSALEMME Gli israeliani di Serie B sono scesi in strada. I palestinesi con cittadinanza israeliana, chiamati arabo israeliani, alzano la voce sull’onda dell’Intifada di Gerusalemme. Da Nazareth a Rahat nel Neghev, da Giaffa sulla costa a Umm el Fahem a ridosso della “linea verde” con la Cisgiordania, migliaia di palestinesi israeliani, in buona parte ragazzi, hanno sfilato e protestato, spesso scontrandosi con la polizia. Scene che non si vedevano dalla seconda Intifada. Non è solo solidarietà con le ragioni della nuova (possibile) Intifada. È anche, se non soprattutto, una protesta contro lo Stato di Israele di cui si sentono parte solo sulla carta, che continua a inquadrarli come una estensione del “nemico palestinese” nei Territori occupati.
Una porzione consistente di israeliani ebrei non nasconde di guardare ai cittadini arabi come a una “quinta colonna”, “traditori” pronti a fare il gioco del “nemico”. «E la polizia non manca di farcelo capire in questi giorni», ci dice Mohammed Kabha un giovane attivista della zona di Ara-Araba, nella bassa Galilea. «Compie arresti preventivi ovunque, qui due sere fa sono stati presi sei giovani, tutti con meno di 18 anni», continua Kabha, «più di tutto ha un atteggiamento intimidatorio, lancia pesanti avvertimenti agli abitanti. Le autorità ci vedono come un pericolo perchè siamo palestinesi come quelli dei Territori occupati. Il nostro passaporto è solo un libretto inutile, non saremo mai considerati cittadini veri di questo Paese».
In questi giorni per vendicare gli accoltellamenti compiuti da palestinesi, gruppi di estremisti sono impegnati in una vera e propria una caccia all’arabo, di cui la stampa israeliana riferisce, anche se in modo insufficiente, mentre è ignorata dai media internazionali. La polizia ha arrestato ieri cinque dei 30 abitanti di Netaniya, a nord di Tel Aviv, che volevano linciare tre cittadini palestinesi. Due dei presi di mira sono riusciti a scappare, il terzo, Abed Jamal, è stato picchiato dalla folla inferocita che gridava «Morte agli arabi» e «A Netaniya gli arabi si falciano». Si è salvato solo grazie all’arrivo della polizia che, comunque, lo ha ammanettato, nonostate fosse la vittima dell’aggressione, per interrogarlo.
«Anche se solo alcuni palestinesi (d’Israele) hanno commesso violenze, alla maggioranza degli israeliani ebrei bastano uno o due episodi per mettere sotto accusa tutti i cittadini arabi» spiega Wadie Abu Nassar, un analista di Haifa, «gli israeliani ebrei non capiscono che per i palestinesi qualsiasi tentativo di danneggiare i loro luoghi sacri, in particolare la moschea di al Aqsa, rappresenta il superamento di una ‘linea rossa’». I palestinesi israeliani, aggiunge Abu Nassar, «simpatizzano con i palestinesi dei Territori occupati non solo perchè sono fratelli ma anche perchè vedono Israele come una potenza occupante».
Dieci giorni fa in diversi villaggi palestinesi e a Nazareth hanno commemorato le 13 vittime del fuoco della polizia durante gli scontri divampati in Galilea tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre del 2000, all’inizio della seconda Intifada. Una tragica ripetizione dei colpi che il 30 marzo del 1976 uccisero sei palestinesi durante le manifestazioni contro la confisca delle terre arabe. Morti, quelli del 2000, che sono una ferita mai rimarginata e anche uno spartiacque politico interno, tra coloro che ritengono possibile un riconoscimento pieno della minoranza araba nello Stato di Israele e altri (sempre più numerosi) che chiedono la creazione di uno Stato unico democratico, non sionista. Uno Stato che non approvi più leggi, come quelle promosse dalla destra al governo in questi ultimi anni, destinate a colpire direttamente l’identità e i diritti dei cittadini palestinesi. Sullo sfondo di questo dibattito ci sono i due movimenti islamici (del Nord e del Sud), divisi sul rifiuto/integrazione nel sistema politico israeliano. Ayman Sikseck ieri spiegava su Ynet l’importanza degli eventi del 2000 per la formazione dell’identità degli arabi di Israele «Dopo la delusione generata dal fallimento degli accordi di Oslo – ha scritto — la loro solidarietà con i palestinesi nei Territori occupati è cresciuta… la loro rabbia (di questi giorni) deriva dalla percezione di un destino comune delle due popolazioni discriminate e dalla sensazione di ingiustizia».
Di fronte a ciò le formazioni politiche arabe in Israele sono in affanno. La scelta unitaria (Lista Unita Araba, LAU) fatta all’inizio dell’anno per affrontare insieme le sfide lanciate a tutti gli arabi dalla legislazione aggressiva del governo e dei partiti di destra, pur avendo ottenuto un discreto successo elettorale non ha poi portato a nulla di concreto nella vita quotidiana, nella condizione di villaggi e città con minori risorse pubbliche rispetto ai centri abitati ebraici, non ha contribuito ad eliminare le discriminazioni e neppure a fermare il Prawer Plan per il “ricollocamento” (transfer forzato) di decine di migliaia di beduini del Neghev. «Molti dei palestinesi che ora sfilano nelle strade della Galilea non appartengono ad alcun partito, laico o islamista» afferma Mohammed Kabha «anzi, guardano a tutte le forze politiche, di qualsiasi orientamento, come figlie di un fallimento, della mancata comprensione della realtà israeliana. Il partito Jabha (comunista, parte della LAU) organizza iniziative con slogan come ‘Ebrei ed Arabi rifiutano di essere nemici’. Ma più passano gli anni e più la società israeliana e il sistema politico ci considerano corpi estranei, nemici da isolare». Secondo Wadie Abu Nassar la Lista Unita Araba rischia di frantumarsi, di essere sommersa dall’onda dell’Intifada di Gerusalemme. «Mai come in questi giorni sono emerse nella Lista le differenze tra il binazionalismo di Jabha e il nazionalismo del partito Balad (Tajammo). Uno scontro – prevede l’analista – che potrebbe mettere fine all’esperienza unitaria».


Palestina, roviniamo lo spettacolo a Renzi (e Obama)
di Tommaso Di Francesco il manifesto 11.10.15
Da quando, era l’inverno del 1969, stampavamo volantini con il rappresentante di Fatah in Italia Wael Zwaiter, ucciso il 12 ottobre del 1992 a Roma dal Mossad, la condizione palestinese invece di migliorare è tragicamente peggiorata. Nonostante due Risoluzioni dell’Onu condannino da quasi 50 anni Israele per l’occupazione militare dei territori palestinesi. È peggiorata perché nel frattempo l’occupazione militare israeliana è avanzata, nel disprezzo do ogni accordo di pace. Quel popolo non ha più speranza e strumenti per opporsi all’avanzata degli insediamenti colonici che hanno ridotto la terra della Palestina ad un alveare senza continuità territoriale e quindi con una difficoltà a legittimare, anche sulla carta, il diritto ad esistere.
Privato di ogni diritto, relegato nei ghetti dei campi profughi in casa propria, guardato a vista dalle torre militari dell’occupante, separato dal Muro di Sharon — il primo edificato dopo il mitico crollo del muro di Berlino. E con una leadership ormai inascoltata perché incapace di corrispondere alle aspettative popolari. Quel popolo, che ha visto l’umiliazione dei propri capi storici come Arafat relegato dai tank israeliani nella Muqata e poi eliminato e come Marwan Barghouti che langue da anni nelle carceri israeliane, alla fine si è diviso e radicalizzato. Non nella forma a noi più consona, politicamente e socialmente ma, in assenza di una reale società civile, nelle modalità ideologiche del richiamano all’’Islam. Tema che, con i nuovi provvedimenti di Netanyahu e le ultime colonie israeliane — che ridisegnano anche la mappa dei luoghi religiosi di Gerusalemme est fino a impedire il diritto a pregare -, torna pericolosamente come l’unica bandiera. Ora una nuova generazione di giovani palestinesi è in rivolta. Ci si interroga se sia una nuova Intifada e i media, a dir poco disattenti alla tragedia dei Territori palestinesi occupati, preparano schede ammonendo da lontano sui risultati della prima e della seconda Intifada.
Certo non abbiamo mai visto una rivolta più disperata, mentre l’appello alla protesta generale viene dai leader di Hamas dalla Striscia di Gaza che ha subìto in questi anni tre guerre impari nelle quali dall’alto dei cieli la sua gente è stata massacrata sotto gli occhi distratti del mondo. È disperata questa rivolta perché il popolo palestinese si presenta a questo appuntamento ancora una volta spaccato e ridotto alla protesta individualizzata dei coltelli e quindi quasi suicida e perdente in anticipo. Sgomentano gli accoltellamenti dei coloni e le immagini dei giovani con il coltello in mano, ma nessuno s’indigna di fronte alle immagine dei carri armati, delle mitragliatrici o dei fucili dei soldati israeliani che sparano sui manifestanti. Quelle armi sono «normali», ma sono di uno degli eserciti più potenti al mondo che occupa militarmente un altro popolo. Che ora, con una nuova generazione che scende in piazza, può far saltare gli equilibri fin qui disastrosi e criminali del Medio Oriente. Nessuno giri lo sguardo dall’altra parte. La questione palestinese irrisolta è all’origine dell’intera tragedia mediorientale: i profughi delle Palestina occupata, diventati milioni, hanno destabilizzato regni, pseudo– democrazie e regimi, dalla Giordania al Libano, alla Siria. Intanto Israele si è trasformato in poco meno di un regime integralista religioso d’estrema destra. Inoltre, prima che sia troppo tardi, com’è possibile dimenticare che l’argomento ideologico fondamentale quanto capace di alimentare odio, quello della «occupazione dei luoghi sacri dell’Islam», è il tema costitutivo di Al Qaeda e dello Stato islamico?
Due le vergogne da denunciare. Quella di Obama e quella dell’Italia renziana.
La Casa bianca ieri ha denunciato le nuove proteste palestinesi come «terroriste». È lo stesso presidente che al Cairo nel 2009 dichiarava di sentire «il dolore dei palestinesi privati del diritto alla loro terra». Sono passati sei anni ed è legittimo chiedere: al di là dell’accordo geostrategico con l’Iran, che cosa ha fatto realmente perché la condizione palestinese cambiasse, quali occasioni ha dato, se non sostenere la strategia di Benjamin Netanyahu che rilancia la colonizzazione della Palestina? Ma che farebbe il popolo americano se fosse occupato militarmente e disseminato di colonie?
L’altra vergogna è quella di Matteo Renzi, il governo più filoisraeliano della storia repubblica italiana. All’ultima seduta dell’assemblea generale dell’Onu si è dimenticato dell’esistenza della Palestina ridicolizzando il ruolo di Abu Mazen. Ora la bandiera della Palestina — che ha avuto perfino uno stand all’Expo — sventola all’Onu, ma si rischia la beffa perché quello Stato e quella terra non esistono. Renzi annuncia che farà un tour di propaganda nei teatri italiani per rappresentare la piece «quanto sono bravo». Roviniamogli lo spettacolo. Portiamo ad ogni suo appuntamento la bandiera palestinese: sventolarla nei Territori occupati per il governo israeliano è reato.


Lizzie Doron “Fermiamo i fanatici o non saremo più liberi”
intervista di Alesandra Baduel 
Repubblica 11.10.15«Qui nessuno è libero, non i miei amici palestinesi che non hanno documenti, non io che stasera se uscissi in strada qui a Tel Aviv avrei paura. Ma per cambiare questa situazione, bisogna che tutti abbandonino i grandi sogni e pensino alla vita, quella di ogni giorno». La scrittrice Lizzie Doron, figlia di sopravvissuti all’Olocausto, è nata a Tel Aviv è nata e nei suoi libri racconta il mondo che vive. L’ultimo, pubblicato in Germania con il titolo “Chi diavolo è Kafka?” (in Italia sarà tradotto per Giuntina) è sulla difficile amicizia con un professore palestinese di video e fotografia. «In Israele», precisa, «il mio editore non ha voluto pubblicarlo».
Cosa pensa di queste giornate di violenza?
«È il caos. La sensazione è che non ci sia via d’uscita: troppe divisioni. E la motivazione religiosa, i fanatici, i fondamentalisti, che sono il centro del problema. Bisognerebbe smettere di avere grandi sogni, tutto per gli ebrei o tutto per i musulmani. Vorrei tanto che si arrivasse a pensare praticamente cosa può cambiare la vita di tutti, e lavorare su quello».
E i giovani palestinesi in strada?
«Non accetto l’uso del coltello, ma capisco che sono disperati: fra occupazione dei coloni e corruzione del loro governo, fanno una vita terribile. Ora poi il resto del mondo ha altro da pensare, si sentono anche soli».
Ma da qualche giorno all’Onu c’è la bandiera palestinese: non è un segnale?
«Uno dei miei amici palestinesi ha commentato: “Mi danno un ospedale migliore? Un lavoro, una scuola e un futuro migliori per i miei figli?”».
Come vive ora in Israele?
«Con l’idea che posso solo continuare da figlia di sopravissuti all’Olocausto e persona che non ha sentimenti per il sacro ma per le altre persone. Per questo libro sono andata per anni una volta a settimana da una famiglia palestinese a Silwan. Avevo paura dei palestinesi dell’area, poi ho scoperto che i miei nemici erano gli ultraortodossi: mi tiravano pietre, per loro ero una traditrice. A me però importa spiegare che con il professore palestinese ci sono idee politiche simili, ma idee molto diverse sulle tradizioni e le abitudini. Per esempio su Kafka e il Corano».
Corriere 11.10.15
Una contesa che si trasforma da territoriale a «messianica»
Le parole Hamas proclama la terza intifada mentre Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, ancora la chiama «ondata di terrorismo»


Hamas proclama da Gaza la terza intifada mentre Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, ancora la chiama «ondata di terrorismo». Perché ammettere che questa rivolta ormai va avanti da oltre un anno ed è diventata guerriglia quotidiana (se non guerra) lo indebolirebbe tra gli elettori che l’hanno votato come Mr Sicurezza. Dall’inizio di ottobre oltre venti palestinesi sono stati uccisi (tra loro sette attentatori) e 4 israeliani. Gli islamisti che dominano la Striscia di Gaza incalzano per dare valori religiosi allo scontro e annunciano di voler liberare la moschea Al Aqsa. Che nella retorica araba delle minacce è diventato il simbolo degli scontri: i musulmani sunniti temono che il governo israeliano voglia cambiare le regole definite dopo il conflitto del 1967 — quando la parte est di Gerusalemme è stata tolta ai giordani — e permettere agli ebrei di pregare sulla Spianata. Netanyahu prova a rassicurare e smentire, accusa i leader palestinesi di incitare all’odio, vieta ai suoi ministri e parlamentari oltranzisti di salire verso quello che per gli ebrei è il Monte del tempio. Il rischio è che il conflitto israelo-palestinese da nazionalista-territoriale si trasformi in messianico, che il fondamentalismo — anche quello dei coloni estremisti israeliani — motivi la lotta tra i due popoli come nei Paesi confinanti, dove lo Stato Islamico sventola le bandiere nere del fanatismo. Abu Mazen è consapevole che Hamas sta cercando di eroderne il potere accusandolo di non saper proteggere quello che per i sunniti è il terzo luogo più sacro. Eppure il presidente palestinese, leader di una fazione laica, invoca la resistenza per difendere le moschee nella Città Vecchia di Gerusalemme. Gli analisti israeliani individuano le cause della rabbia palestinese anche nella mancanza di speranze, nella frustrazione dei giovani: l’economia della Cisgiordania ristagna, i negoziati sono congelati (o meglio ibernati) da aprile di un anno fa, Abu Mazen è considerato debole ed è accusato di essere un dittatore che rinvia le elezioni per la successione.

“La situazione è quasi fuori controllo. Ormai ad agire sono dei lupi solitari”
L’analista Usa Trita Parsi: servono soluzioni a lungo terminedi Francesco Semprini 
La Stampa 11.10.15«L’inizio di un terza Intifada è solo questione di tempo. Il mondo è completamente assorbito dalla guerra siriana e ciò che sta accadendo tra israeliani e palestinesi passa quasi inosservato lasciando spazio a una veloce escalation dello scontro». È l’analisi di Trita Parsi, esperto di questioni mediorientali e già «scholar» del Middle East Institute.
Siamo sull’orlo di una terza «rivolta»?
«La situazione sta degenerando a una preoccupante velocità, temo proprio che stiamo andando verso quella direzione».
Non vede quindi spiragli di soluzione?
«Non mi sembra che ci sia una volontà né da una parte né dall’altra. Israele continua la sua politica di occupazione degli insediamenti, e conferma scarsa disponibilità al dialogo. Tra i palestinesi la situazione pare essere sfuggita di mano».
È Hamas ad avere il pieno controllo della rivolta?
«Non necessariamente. Certamente Hamas avrà interesse a dar fuoco alle polveri, e senza dubbio chi conduce determinati azioni contro gli israeliani è manovrato o riconducibile a loro. Ma questa volta devo dire che vedo tante azioni individuali, episodi singoli, che nascono - a mio parere - dalla volontà di persone non appartenenti necessariamente a una organizzazione precisa».
Intende dire che anche lo scenario israelo-palesinese si è arricchito di lupi solitari?
«Chiamiamoli così. Sono persone che agiscono per conto proprio, trovando ispirazione nella generale tensione politica e sociale che perdura nello Stato ebraico. Del resto le tensioni erano palpabili da mesi, era solo questione di tempo, e come dicevo, temo sia solo questione di tempo prima che gli scontri sfocino in una nuova Intifada».
Come possono Abu Mazen e Netanyahu fermare l’escalation?
«Non c’è assolutamente modo di calmare gli animi se non si trova una soluzione di medio-lungo periodo al problema degli insediamenti. Mi sembra che da parte israeliana non ci sia nessun interesse, né tanto meno nessuna posizione di forza capace a ricondurre le parti a un confronto e a un dialogo su questo aspetto».
Neanche attraverso pressioni esterne?
«Il punto è capire se la comunità internazionale rimarrà ferma davanti a questa situazione, così come lo è stata sino adesso. Io temo di sì, anche perché mai come in questo momento gli Stati Uniti e l’Europa sono stati tanto disillusi su tutta la situazione in Medio Oriente».
Questo vuol dire che ciò che sta accadendo in Israele è collegato alle altre tensioni della regione, in particolare al conflitto in Siria?
«Il legame è duplice. Da una parte influisce il clima di profonda divisione settaria che c’è nel mondo islamico, e le conseguenze create nei singoli Paesi dalle Primavere arabe. Dall’altra il mondo è preoccupato principalmente per la guerra siriana, che occupa i primi posti nelle agende di tutti i Grandi della terra, pertanto quello che accade tra israeliani e palestinesi è quasi fuori dei radar della attualità politica».

Tra i famigliari di Marwan e Khalil “Morti da martiri, come volevano”
A Khan Yunes l’addio ai palestinesi di 11 e 15 anni colpiti dal fuoco israeliano “Consideravano degli eroi i giovani che tirano sassi per salvare la moschea”di Maurizio Molinari 
La Stampa 11.10.15«Voglio morire come uno shahid». Marwan Barbakh, 11 anni, ha rivelato l’intenzione di diventare «martire» al padre Isham, poliziotto di Hamas, prima di uscire da casa a Khan Yunes per andare a lanciare sassi contro il posto di frontiera dei soldati israeliani. È Isham che, parlando al telefono dalla tenda del lutto eretta davanti alla propria casa, ricorda l’addio del figlio: «Considerava degli eroi i giovani della Cisgiordania che tirano i sassi contro i militari, voleva essere come loro, per salvare Al Aqsa dalla dissacrazione dei coloni».
Tra calcio e playstation
La famiglia Barbakh vive in un quartiere di Khan Yunes, nel Sud di Gaza, che porta il suo nome perché gli abitanti sono tutti imparentati. Quella di Isham è una delle più povere perché i poliziotti di Hamas vengono pagati 1000 shekel - poco più di 300 dollari - ogni tre mesi. Marwan era il secondo di sette figli, «a scuola non andava bene, gli piaceva giocare a calcio per strada e appena poteva si rifugiava nella playstation», ricorda il padre, secondo il quale la scelta di «andare al confine per tirare sassi contro gli israeliani» è nata «dalle recenti immagini viste in tv di ragazzi più grandi, con le maschere sul volto, capaci di sfidare i proiettili dei soldati». Ma non è tutto perché, aggiunge Isham, «nel nostro quartiere e in tutta Gaza c’è tanta rabbia nei confronti dei porci ebrei che dissacrano la moschea di Al Aqsa».
La stessa definizione dispregiativa del nemico esce dalle labbra di Umm Jihad, madre 38enne di un altro palestinese ucciso, Khalil Othman, 15 anni. Il riferimento è «più ai coloni che ai soldati - spiega Muhammed, il fratello di Khalil che era al suo fianco quando è stato colpito - perché sono loro che vogliono impossessarsi di Al Aqsa per giudaizzarla». I soldati israeliani sono «nemici» mentre i settlers civili sono «maiali» perché, aggiunge Muhammad, «sono questi civili, religiosi, che ci strappano le terre, a Gerusalemme oggi come in passato a Gaza».
La passione per le bici
Umm Jihad descrive il figlio come «un ragazzo bravo ma poco socievole» che «stava quasi sempre da solo» e l’unico passatempo che amava era «andare in un negozio di biciclette nel nostro quartiere, Al Amal, per aiutare ad aggiustarle. Anche lui, come Marwan, ha detto ai genitori che sarebbe andato «al confine a partecipare ai lanci di pietre contro i soldati» ma senza precisare la volontà di diventare un martire. «Eravamo assieme - racconta Muhammed - ci siamo avvicinati il più possibile al recinto, abbiamo visto i soldati e iniziato a tirare le pietre, poi lui è stato colpito, prima alla pancia e poi alla schiena, è stato quest’ultimo colpo ad attraversarlo, uscire dal petto ed ucciderlo». Ambulanze nei paraggi non ce n’erano e così il corpo ferito è stato messo a bordo di un «tuk-tuk» - le motociclette a tre posti - e portato all’ospedale Nasser di Khan Yunies, dove è stato dichiarato morto.
Nella tenda del lutto
Umm Jihad non riesce a capacitarsi che il figlio - terzo di nove - non ci sia più e continua a parlarne a tratti come se fosse ancora vivo: «Non va bene a scuola, è una cosa che ci dispiace molto, bisogna parlare con lui e con gli insegnanti, forse possiamo recuperare la situazione». Tocca al figlio Muhammed tornare, più volte, sul racconto del «proiettile che ha trafitto Khalil» per far accettare alla madre quanto avvenuto mentre nella tenda del lutto della famiglia Barbakh è un gruppo di amici di Marwan a raccontare al padre Isham i suoi ultimi minuti di vita: «Ha avuto coraggio, è stato quello che si è avvicinato di più ai soldati, lo hanno colpito al petto ed è morto da Shahid - martire - come voleva». Ciò che accomuna i racconti delle due famiglie è anche la dinamica del momento della scelta, avvenuta al mattino «dopo aver parlato con gli amici», comunicata ai genitori come una decisione senza appello e poi messa in pratica camminando a piedi verso le postazioni militari israeliane sulla frontiera, nella consapevolezza di andare incontro ai proiettili. Tanto Isham Barbakh che Umm Jihad Othman aspettano i funerali di oggi come un momento «di rispetto per la nostra famiglia da parte di chiunque a Gaza». Avere un figlio «morto combattendo per Al Aqsa» significa guadagnare uno status sociale simile a quello delle famiglie che hanno avuto caduti nelle guerre combattute contro Israele.

Assalti al coltello a Gerusalemme E a Gaza è battaglia sul confine
Feriti sei israeliani, uccisi due ragazzini della Striscia Netanyahu richiama i riservistidi M. Mo. 
La Stampa 11.10.15Assalti al confine da Gaza, accoltellamenti a Gerusalemme e proteste da Nazareth alla West Bank: sono i fronti caldi della rivolta palestinese contro Israele che spingono il governo di Netanyahu a richiamare centinaia di riservisti di polizia e guardia di frontiera in previsione di violenze in crescita.
Scontri a Khan Yunes
A Est di Khan Yunes, nel Sud della Striscia di Gaza, una folla di palestinesi attacca per il secondo giorno di seguito le postazioni israeliane lungo il confine. Gli «shabab» lanciano molotov, pietre e si fanno strada con pneumatici in fiamme. L’intento è sfondare la rete e penetrare in Israele. I soldati sparano per fermarli e almeno due vengono uccisi: Marwan Barbakh e Khalil Othman, di 11 e 15 anni. Per la Mezzaluna Rossa palestinese i feriti degli ultimi due giorni sono 568, incluso un 13enne colpito al valico di Erez e ricoverato in condizioni critiche. Peter Lerner, portavoce militare israeliano, afferma che «i soldati hanno sparato contro gli agitatori».
In serata gli «shabab» tornano all’assalto, in almeno 30, penetrano in Israele: 5 vengono arrestati e gli altri sono respinti. È un campanello d’allarme: Hamas ha trovato una nuova tattica che mette in difficoltà i soldati israeliani.
Attacchi a Gerusalemme
Sulla Ha-Neviim Street due ebrei ortodossi provenienti dalla Città Vecchia vengono accoltellati da un palestinese di 16 anni, catturato. L’aggressione è avvenuta, ancora una volta, colpendo alle spalle le vittime. Poco dopo un altro palestinese ferisce due guardie di frontiera nei pressi della Città Vecchia: viene ucciso ma nella reazione gli agenti feriscono anche due militari, uno dei quali è in gravi condizioni. Ismail Hanyeh, leader di Hamas, parla da Gaza di «Intifada per Al Aqsa» chiedendo agli arabo-israeliani di «colpire il nemico» alle partite di calcio che si giocano il sabato sera. L’intento è aumentare gli attacchi all’interno di Israele pre-1967 e in serata un altro israeliano viene ferito a Hebron. Il governo di Netanyahu reagisce ordinando il richiamo di centinaia di agenti di polizia e della guardia di frontiera perché «le minacce sono in aumento».
È lo stesso motivo che spinge il sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat, ad accorciare gli orari delle lezioni mentre centinaia di ristoranti, bar e luoghi pubblici reclutano in fretta ulteriore personale per la sicurezza. Il ministero dell’Economia, con una disposizione ad hoc, consente giornate lavorative di 14 ore - anziché 8 - per «motivi di sicurezza».
Protesta a Nazareth
Nella più grande città arabo-israeliana sono in centinaia a scendere in piazza per condannare le «violenze israeliane» esprimendo solidarietà con «i fratelli palestinesi a Gaza e nella West Bank». È il terzo fronte della rivolta: a guidarlo è il Movimento islamico, in prima fila nella denuncia delle «violazioni di Al Aqsa». Proprio al Movimento islamico si richiamano mille palestinesi di Kfar Qassem, in Cisgiordania, che danno battaglia.
Il Segretario di Stato, John Kerry, chiama il presidente palestinese Abu Mazen chiedendo di «raffreddare la situazione» in tempi stretti per scongiurare una terza Intifada destinata ad essere guidata da Hamas ed altri gruppi jihadisti.

Israele richiama i riservisti Scontri con i palestinesi Timori di escalation a Gaza
Altri 5 morti. Hamas: attaccare i tifosi della nazionaledi Davide Frattini 
Corriere 11.10.15GERUSALEMME Hamas incita i palestinesi ad andare allo stadio. Ieri sera la nazionale israeliana ha giocato contro Cipro a Gerusalemme e dalla Striscia di Gaza i fondamentalisti hanno indicato i tifosi israeliani — malgrado i 400 poliziotti dispiegati — come bersaglio per gli assalti al coltello. Che anche ieri non si sono fermati: un giovane arabo ha ferito due ultraortodossi che tornavano dalla sinagoga ed è stato ucciso dagli agenti; un altro ha attaccato le guardie in pattuglia fuori dalle mura della Città Vecchia, anche lui è stato ammazzato.
La Croce Rossa israeliana diffonde via Internet un video per spiegare come tamponare le ferite da pugnale, i negozi che vendono articoli da auto-difesa hanno esaurito le scorte di spray urticanti e i fischietti per dare l’allarme. Il governo decide di convocare i riservisti, per ora quelli della polizia di frontiera, da schierare nelle zone dove ebrei e arabi convivono a poca distanza. I disordini ieri sera sono andati avanti anche nel nord del Paese e il premier Netanyahu sta pensando di mettere fuori legge il Movimento Islamico con il suo leader Raed Salah, l’organizzazione è influente nei villaggi della Galilea. In passato lo Shin Bet, il servizio segreto interno, ha sconsigliato la mossa: il rischio è quello di spingere gli estremisti alla clandestinità. Il segretario di Stato Usa, John Kerry, ha invitato Netanyahu ed Abu Mazen ad evitare un’escalation di violenza.
Dal primo ottobre i palestinesi uccisi sono venti, sette di loro attentatori, gli israeliani vittime di assalti sono quattro. Anche ieri due ragazzini sono morti dopo che con un centinaio di persone ha cercato di sfondare la barriera che separa Gaza da Israele. L’esercito ha respinto la folla, una quarantina di palestinesi è riuscita nella notte a passare dall’altra parte, chi non è scappato è stato arrestato.
Il comando Sud sta cercando di capire che cosa sia successo venerdì, quando da Gaza almeno tremila persone hanno marciato verso i valichi, i soldati hanno ucciso sei palestinesi. La manifestazione sarebbe stata organizzata dalla Jihad Islamica, gli agenti di Hamas hanno lasciato passare il corteo. L’intelligence teme che si possa ripetere quello che è successo l’estate scorsa: i disordini in Cisgiordania e a Gerusalemme Est vengono seguiti dalla reazione a Gaza. Da allora l’area era rimasta tranquilla: i leader di Hamas e il governo di Netanyahu — secondo alcune fonti — stavano discutendo la possibilità di una tregua decennale.
Adesso le batteria anti-missili del sistema Iron Dome vengono riposizionate attorno alla città di Beersheva e nella notte un razzo è stato lanciato verso Ashkelon. Il ministro della Difesa avverte i miliziani: «Non ci provochino, hanno visto com’è finita un anno fa».
 

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