Paolo Mieli:
L’arma della memoria. Contro la reinvenzione del passato, Rizzoli
Risvolto
La storia è fatta
di vinti e vincitori, ma non si tratta di categorie stabili: come nel
peggior incubo di Orwell, le vicende di ieri sono riscritte a uso e
consumo dei vincitori di oggi. Paolo Mieli ce lo dimostra attraversando
secoli di storia facendoci guardare a fatti apparentemente noti con un
occhio diverso e disincantato, perché “infinite sono le leggi che
regolano lo studio del tradimento nella storia. Ma due sono superiori
alle altre. La prima: chi vince non verrà mai considerato un traditore.
La seconda: il tradimento è questione di date, ciò che oggi è
considerato un tradimento, domani potrà essere tenuto nel conto di un
atto coraggioso”.Trasferire in un’aula di tribunale casi sui quali neanche gli studiosi di professione sono riusciti a fare luce in modo definitivo produce risultati discutibili che vengono ripetuti con sciatto automatismo
Al bivio tra Aiace e Carlo V
Attenzione a vinti e denigrati, critica del complottismo Ecco le chiavi per rileggere i più complessi eventi storici
1 ott 2015 Corriere della Sera di Aldo Cazzullo © RIPRODUZIONE RISERVATA
«Un Paese senza memoria» viene spesso definita l’Italia. In realtà, il nostro si rivela un Paese in cui la memoria viene sottilmente usata, e non in quel modo onesto che, avverte Paolo Mieli nell’incipit del suo nuovo libro, è «il più valido antidoto all’imbarbarimento». Non soltanto «l’uso disinvolto delle demonizzazioni e delle riabilitazioni»; non soltanto la lunga teoria delle dissimulazioni, l’arte di cancellare le tracce in cui si sono rivelati maestri ad esempio gli intellettuali passati disinvoltamente dal sostegno del regime all’antifascismo, non quello coraggioso della Resistenza, ma quello opportunista della retorica. Il più insidioso tra gli usi impropri della memoria è la «reinvenzione della storia», che è cosa ben diversa dalla rilettura, dalla reinterpretazione, dalla stessa revisione (altra parola da maneggiare con cura).
«L’arma principale che si è infiltrata nel dibattito storiografico (allargato alle discussioni giornalistiche) è, da tempo, il complottismo — avverte Mieli —. Cioè la pretesa di modificare i termini della discussione con l’inserimento di tesi suggestive ancorché indimostrabili». È un’attitudine che la rete ha moltiplicato, ma non certo inventato. E non è l’unica arma della memoria usata sempre più sovente: un’altra è quella del «ricordo a tesi», in cui la «sensazione» conta più della prova; un’altra ancora è quella diffusa nell’ultimo ventennio, che l’autore definisce «l’arma suprema»: «Trasferire in un’aula di tribunale casi sui quali neanche gli storici di professione sono riusciti a fare luce in modo definitivo. È una “storiografia dei magistrati” ( ma anche dei pentiti e dei giornalisti) che ha abbondantemente preso piede e che produce “risultati” destinati a trasferirsi con sciatto automatismo nei libri di storia veri e propri » . Talvolta, aggiunge Mieli, «si ha la pretesa di scriversi da cima a fondo questi libri. È il caso dell’atto di accusa dei magistrati di Palermo contro Giulio Andreotti, che nel 1995 è stato pubblicato in un volume dall’ambizioso titolo La vera storia d’Italia ».
Va detto che L’arma della memoria. Contro la reinvenzione del passato (Rizzoli) non è un libro di teorie. È un libro di idee, che non vengono formulate in modo astratto, ma calate in una serie di racconti (in parte già apprezzati dai lettori del «Corriere») che vanno dalla contesa tra Aiace e Ulisse per le armi di Achille — quasi un apologo del principio per cui la maggioranza non ha sempre ragione — sino agli argomenti di stretta attualità. Con una premessa, non esplicitata, ma costante: se i grandi storici del Novecento italiano stanno nell’alveo del pensiero liberale, l’egemonia culturale ed editoriale di sinistra o comunque genericamente progressista ha male appreso o ignorato quella lezione, e ha creato o contribuito a creare una serie di luoghi comuni difficili da sfatare.
Il Risorgimento, il fascismo, la guerra civile, il dopoguerra con lo scontro tra democristiani e comunisti restano i terreni cruciali. Qui Mieli ci ricorda che si possono riconoscere i meriti delle élites risorgimentali senza dimenticare però — come a lungo si è fatto — le vittime di Casalduni e Pontelandolfo; che i fascisti non furono hyksos spuntati dal nulla, ma il frutto degli errori contrapposti dell’estremismo rosso e dell’ignavia liberale; che Mussolini venne preso sul serio sia in America sia in Inghilterra, per quanto il carteggio con Churchill rappresenti un falso storico; che gli inglesi avevano qualche ragione di diffidare dei partigiani; che Giovanni Gentile fu ucciso forse più per privarlo del ruolo che avrebbe potuto avere nel futuro che per punirlo di quello che aveva esercitato in passato (anche se non tutti troveranno convincente la definizione di «delitto » per un’azione in piena guerra civile — pagata da Fanciullacci con la tortura e la morte — contro il filosofo del regime che aveva aderito a Salò e alla sua politica razziale, pur aiutando i propri amici intellettuali); che la storia della Dc non può essere ridotta alle contaminazioni con la mafia e al saccheggio dello Stato.
Il solido impianto culturale del libro va di pari passo con la piacevolezza narrativa: il lettore è così condotto sotto le mura di Bisanzio, colpevolmente abbandonata dalla cristianità (con l’eccezione dei coraggiosi difensori genovesi); nel mezzo del formidabile scontro dottrinale tra giansenisti e gesuiti; alle pendici dell’Aspromonte accanto a Garibaldi ferito e al colonnello che ha aperto il fuoco inginocchiato a chiedergli perdono; lungo i frenetici spostamenti di Carlo V che cambiò letto 3.200 volte; nella stanza di Dresda dove Metternich prevede a Napoleone una fine amara; e sulla tomba dei genitori di Mussolini, dove Vittorio Emanuele III si recò per alleggerire la tensione con il Duce, pur non avendo partecipato nel 1928 ai funerali di Giolitti (se è per questo, suo nonno Vittorio Emanuele II non era andato ai funerali di Cavour).
Molto felici le pagine dedicate ai libertini del pensiero: Spinoza e don Giovanni. E sempre il lettore ha l’impressione, e spesso la consapevolezza, che le cose non siano andate come ha sempre creduto, che la realtà sia molto più complessa e varia di come viene tramandata: una rivelazione che non arriva mai con pedanteria o sensazionalismo, ma con un sorriso disincantato che è il modo dell’autore di provare pietas per i vinti, per gli incompresi, per i denigrati, per i dimenticati. Un sorriso che a volte si fa invece aperto e contagioso, come quando Mieli cita la canzone dei «patrioti» reclutati a Napoli da don Liborio Romano in sostegno del nuovo ordine risorgimentale: «Nuje non simm cravunari (carbonari)/ nuje non simmo realisti/ ma facimmo i camorristi/ fammo n’c… a chilli e a chisti». Si può a volte dissentire dall’autore, non disconoscerne il coraggio intellettuale. Ed è difficile, quasi al termine del libro, non concordare con la citazione dello storico Raoul Pupo, che Paolo Mieli colloca non casualmente come chiusa del capitolo su Trieste e le foibe: è una fortuna che si senta oggi «parlare un po’ meno di memorie condivise — strani oggetti, posto che la memoria è il luogo per eccellenza della soggettività non interscambiabile a piacimento — e un po’ più di rispetto delle memorie diverse, nonché in ambito cattolico di “purificazione della memoria”, il che sottintende l’esistenza nei ricordi di zone oscure che non vanno rimosse o celate, ma affrontate a viso aperto».
Le armi di uno storico contro le manipolazioni
Nel suo nuovo libro, Paolo Mieli mette in fila gli abusi in cui si può incorrere ricostruendo il passato. Dal complottismo alle amnesie
CONCETTO VECCHIO Repubblica 20 10 2015
Secondo recenti sondaggi il 75 per cento degli americani ritiene che l’omicidio del presidente John Kennedy non fu opera solo di Lee Oswald. Lo scrittore Vincent Bugliosi in Four Days in November si è preso la briga di censire tutte le tesi sorte attorno al delitto, e ne ha scovate 42, per un ammontare di ottantadue killer e duecentoquattordici persone, che secondo questo o quel complottista, avrebbero partecipato in qualche modo all’ideazione dell’assassinio.
Ora, verrebbe da dire con una certa consolazione, il complottismo non è quindi solo una malattia italiana, basti pensare all’inesauribile fioritura di ipotesi, misteri, gialli, che periodicamente spuntano sul sequestro Moro, e che a loro volta figliano libri, film, ricostruzioni giornalistiche, in genere rapidamente smentite dalle inchieste della magistratura, com’è accaduto di recente con le rivelazioni contenute nell’ultimo saggio-verità dell’ex giudice Ferdinando Imposimato.
Ora Paolo Mieli nel suo L’arma della memoria (Rizzoli) mette in fila tutti gli usi che si possono fare della memoria, e suddivide il suo lavoro in tre grandi temi: la storia adulterata, la storia manipolata, la storia frantumata. È un libro, il suo, che offre più piani di lettura. In primo luogo è una carrellata di 33 densi racconti, molti dei quali pubblicati sulle pagine del Corriere della Sera , che vanno dalla contesa tra Aiace e Ulisse per le armi di Achille alla riapertura dell’inchiesta di Antonio Ingroia sul caso Giuliano. In secondo luogo è soprattutto una riflessione di metodo, sul metodo. Sul perché si ricorda una certa cosa invece che un’altra. Su come la memoria venga piegata continuamente alle ragioni della politica — quasi sempre forzandola, o peggio reinventandola — come dimostrano le pagine sulle origini del nazionalismo etnico. Sui rischi della storiografia dei magistrati (dalla scomparsa di Majorana al processo Andreotti), sui luoghi comuni, sulle verità consolatorie. Prendiamo il capitolo sul rapporto tra gli Alleati e la Resistenza italiana. Nella maggior parte dei libri di storia è sedimentata l’idea che gli angloamericani diffidarono del nostro movimento partigiano, al punto da imbrigliarlo, lesinando aiuti. Sulla scorta del lavoro dello storico Tommaso Piffer Gli Alleati e la Resistenza italiana , Mieli smonta questa tesi, e dati e testimonianze alla mano, prova a ricostruire l’origine del pregiudizio, affermando che in ripetute occasioni gli inglesi hanno invece avuto parole di elogio per i comunisti italiani, così diversi da quelli che avevano conosciuto in Grecia e Jugoslavia.
Mieli è attratto dalle contraddizioni, dai chiaroscuri, mette in guardia dai ricordi a tesi, dalle contraffazioni, dalle amnesie. Scrive: «La verità è che la storia, anche quella che ci viene raccontata attraverso i miti, bisogna imparare a leggerla nelle sue infinite sfumature». Insomma, la storia non può mai essere consolatoria, come una bandiera da sventolare, ma va contemplata anche nei suoi aspetti più sgradevoli, anche se questi cozzano con la memoria ufficiale. Il rischio del revisionismo, verrebbe da obiettare, in questi casi è sempre in agguato, ma non è certo questo il pericolo che corre l’autore.
Il nostro passato è un’arma E bisogna saperlo utilizzareIl nuovo libro si scaglia contro ogni
interpretazione ideologica della storia Ma dalle letture politiche non
si può prescindere. Sta a noi evitare i danni
3 nov 2015 Libero FRANCESCO BORGONOVO
È piuttosto suggestivo leggere l’ultimo libro di Paolo Mieli (L’arma
della memoria. Contro la reinvenzione del passato, Rizzoli, pp. 432 euro
20) in questi giorni, mentre telegiornali, quotidiani e riviste
riversano fiumi di parole sulla morte di Pier Paolo Pasolini avvenuta
quarant’anni fa. Una delle parti più interessanti del saggio di Mieli,
infatti, riguarda quella che potremmo chiamare «Storia Csi»:
un’aberrazione che coinvolge, più che gli studiosi, i giudici e i
sedicenti «intellettuali militanti». Si tratta del tentativo di indagare
fatti del passato per via giudiziaria, aprendo o riaprendo fascicoli
sui «misteri italiani», tra cui appunto la fine dello scrittore,
ammazzato come un cane all’Idroscalo di Ostia nella notte tra il primo e
il due novembre del 1975. Su quanto accadde in quelle ore sono fiorite
teorie a non finire, tra cui quella parecchio accreditata secondo cui ci
sarebbe stata una «trama nera» che avrebbe portato all’esecuzione di
PPP.
L’idea di giungere alla «verità» attaverso un’idagine della magistratura
è una follia, che però negli ultimi anni è stata sostenuta con forza da
personalità come Walter Veltroni e da tutto un universo culturale che
non si vuole rassegnare all’evidenza. Pasolini è morto per questioni di
sesso, non di politica. E sostenere il contrario significa negare la sua
sessualità e il modo in cui la viveva, lontano anni luce
dall’ossessione normativa e puritana dei tempi nostri. Non a caso, la
teoria complottistica sulla sua morte è sostenuta dagli eredi di quel
Pci che emarginò Pier Paolo proprio in virtù della sua omosessualità. In
ogni caso, sono semmai gli storici se non i giornalisti a doversi
interessare della vicenda: non la giustizia. Ma i fautori della «storia
Csi» non si arrendono e portano avanti le loro battaglie con l’evidente
obiettivo di rimediare un po’ di pubblicità gratuita spendendo soldi dei
contribuenti in indagini che non porteranno da nessuna parte.
Il caso di Pasolini ci riporta a un altro aspetto interessante del
saggio di Mieli, il quale si scaglia con una certa durezza contro i
«complotti», dipingendoli come uno dei principali veleni che intossicano
chi si occupa del
Nella foto sopra, Paolo Mieli [LaPresse]
passato. Non esistono, secondo Mieli, «oscuri poteri» che agiscono
dietro le quinte secondo piani preordinati per condizionare gli
avvenimenti. Esistono invece studiosi e scrittori ossessionati,
perennemente alla ricerca di una narrazione della storia che corrisponda
alla propria visione preconcetta. Del resto tutto il saggio dell’ex
direttore del Corriere della Sera mira alla demolizione delle letture
ideologiche del passato. Sostiene - a ragione - che la memoria è
un’arma, e nemmeno troppo difficile da utilizzare. Un’arma troppe volte
utilizzata dalla politica per costruire falsi miti e per manipolare a
proprio favore la realtà. Mieli snocciola una lunga serie di esempi, che
vanno dal rapporto fra ebrei e musulmani alle crociate, dal legame fra
Roosevelt e Mussolini alla cattura di Eichmann da parte israeliana
passando per il vergognoso negazionismo sulle foibe. Leggere queste
pagine, va detto, è molto piacevole, anche perché svelano aspetti per lo
più ignoti di tutte queste vicende.
Alla fine della lettura, tuttavia, qualche riflessione si impone.
Tanto per cominciare, bisogna riconoscere che dalla politica non si può
prescindere. L’idea di creare una «memoria condivisa» è un’utopia,
perché gli italiani non smetteranno mai di scannarsi sul proprio
passato: troppo grandi sono le ferite, troppo profonde le fratture. Ciò
non significa che si debba smettere di lottare per far emergere i lati
sommersi e non raccontati della storia, tutt’altro. Ma anche quando
l’impresa riesce, è sempre la politica (o comunque una visione politica)
a rompere il silenzio. Senza la politica la storia rimarrebbe materia
per specialisti, o una lezioncina da impartire a studenti per lo più
disinteressati. Dunque è opportuna - oltre che inevitabile - l’azione
della politica sul racconto del passato. Soprattutto, è opportuno che il
passato sia utilizzato dalla politica. È grazie ad essa se i vinti,
ogni tanto, riescono a far trionfare le proprie ragioni, sgretolando la
versione imposta dai vincitori.
D’altro canto - e questo il libro di Mieli lo afferma al di là di
ogni dubbio - non si può fare politica se non si conosce la storia in
tutte le sue sfaccettature. Esemplare è il racconto che Mieli dispiega a
partire dai libri dello storico Alessandro Barbero, delle invasioni
barbariche. Fu l’ingresso in massa dei Goti (approvato da Roma) a far
crollare l’impero in Occidente. Se i nostri uomini di governo lo
sapessero, forse si comporterebbero in modo diverso nella gestione
dell’immigrazione. La storia è un’arma, può uccidere o salvare. Bisogna
solo saperla utilizzare.
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