sabato 31 ottobre 2015

La fine della democrazia moderna e la marcia felice verso l'Ottocento: una rassegna

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Una rassegna che mi conforta: temevo di essere un marziano o un incorreggibile estremista nel parlare di fine della democrazia moderna. Invece sono in buona compagnia e persino fior di intellettuali che negli anni scorsi sono stati sufficientemente organici al Pci-Pds-Ds-Pd oggi finiscono per convergere, anche se esitano a riconoscere le proprie responsabilità [SGA].
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Dalla democrazia vuota alla democrazia piena
Testi. Dalla vitalità storica della ragione democratica derivano conseguenze concrete, politiche e sociali. È l’importante analisi di tre autori italiani che a vario titolo affrontano il tema in tre nuovi libri rivelativi: Marco Revelli con «Dentro e contro», Raffaele Simone, nel suo «Come la democrazia fallisce» e Geminello Preterossi con «Ciò che resta della democrazia»

di Carlo Galli il manifesto 31.10.15
La bibliografia internazionale sulla crisi della democrazia, ormai sterminata, si arricchisce ora di tre volumi italiani, di differente impostazione e a vario titolo rivelativi.

Marco Revelli in un agile testo (Dentro e contro, Laterza 2015, pp. 144, 14 euro) ripercorre la storia di passione della legislatura in corso, dalla non-vittoria del Pd al governo quirinalizio delle crisi politiche che l’hanno scandita, dalla progressiva perdita di centralità del Parlamento all’insediarsi, con Renzi, del populismo al potere, assediato a sua volta dal populismo esterno del M5S e impegnato, al tempo stesso, a lottare (ahimé, vittoriosamente) contro il lavoro, in esecuzione della filosofia economica dell’euro.

Raffaele Simone, invece, nel suo Come la democrazia fallisce (Garzanti 2015, pp. 216, 17 euro), opera un’analisi a ritroso di più lungo periodo, e mostra la controfattualità della democrazia, il suo costituire un dover-essere, un artificio fondato sulla negazione di paradigmi naturali del pensiero umano (come il principio di diseguaglianza, o quello del ricorso alla forza) e anche le contraddizioni che la innervano (fra le quali i paradossi dell’uguaglianza e il peso del nesso sovranità/rappresentanza, per cui il popolo sovrano si spossessa della propria sovranità quando dà vita all’istituto rappresentativo).

Sotto il peso di queste contraddizioni la democrazia crolla, impedendo l’esercizio virtuoso del civismo e della partecipazione, che ne dovrebbe essere il fine, e trasformandosi nel regime della apatia politica e della continua richiesta da parte dei privati di benefici che il sistema pubblico non può più elargire, con il conseguente scatenamento di una amorale logica individualistica di breve periodo che si disinteressa della politica democratica.

A queste diverse fenomenologie ed eziologie della crisi della democrazia si aggiunge ora il testo impegnativo e ambizioso di Geminello Preterossi, Ciò che resta della democrazia (Laterza 2015, pp. 188, 20 euro), di taglio espressamente filosofico-politico. È un tentativo di individuare una radice di energia politica per la democrazia in crisi, che concede poco a molte analisi superficiali e consolatorie, e che nondimeno ha una sua severa positività (categorie come ottimismo e pessimismo sono del tutto fuori luogo quando si fa analisi teorica).
Il libro si muove fra Schmitt e Hegel, fra Habermas e Laclau, fra Hobbes e Böckenförde, fra Blumenberg e Butler, solo per citare alcuni degli autori con i quali Preterossi si confronta.
La tesi metodologica di fondo è che non si può parlare di democrazia senza parlare del progetto moderno, dello statuto della ragione che lo domina, delle categorie che lo scandiscono — soggetto, Stato, nazione, popolo, diritti -, e del loro rapporto originario con il pensiero religioso, cioè della secolarizzazione.
Dal punto di vista sostantivo, poi, la tesi principale è che nessuno dei concetti o delle categorie della democrazia (ma in realtà della filosofia politica moderna) può essere utilizzato in modo semplice, astratto, disincarnato. Questa è una critica rivolta alla scienza politica, che opera con schemi formali vuoti, ma soprattutto al decisionismo (e Preterossi ha in mente proprio Schmitt, non le sue caricature), dal quale può anche scaturire una ‘decisione per la democrazia’, ma col risultato che si tratterrebbe di una democrazia infondata, incapace di giustificarsi e di legittimarsi.
Lo stesso ‘vuoto’ di contenuti potrebbe valere per le moderne teorie dei diritti, o per l’impresa volta a costruire il soggetto alternativo al potere, il popolo — il riferimento a Laclau è evidente -. Il nichilismo democratico ha in sé la debolezza dell’artificialismo moderno ed è in fondo la manifestazione di quel pathos della tabula rasa con cui Hobbes inaugurò la ragione politica moderna, potente ma contraddittoria.
L’ambizione di Preterossi è più complessa: pensare la democrazia, con i suoi concetti e le sue categorie, come un processo che trae i suoi contenuti fuori da sé, da un’eccedenza logica e storica, e che li filtra e li trasforma nel proprio divenire.
Dalla democrazia vuota alla democrazia piena, quindi; piena non di statici ‘fondamenti’ (che sarebbe una soluzione reazionaria, tipica del fondamentalismo occidentalista) ma di vita plurale in movimento. Una vita che trae energia da un resto non razionale e che lo rielabora continuamente nella propria immanenza aperta alla trascendenza, traducendolo nella lingua democratica: lingua viva se e quando non si chiude nei gerghi tecnici ma si lascia attraversare dalla ricchezza originaria che la connota. Una traduzione che quindi ha un’origine e un resto, entrambi vitali. Lo Stato, la nazione, il soggetto, i protagonisti della ragione moderna, sono politici proprio perché sono ‘universali particolari’, perché non si risolvono nella ragione astratta ma si nutrono di concretezza storica e producono concretezza progettuale. Perché si nutrono di un ethos comune, di credenze collettive, di simboli, di riti.
È chiaro qui un forte riferimento a Hegel e alla potenza del negativo che è la radice della mediazione, alla soggettività che non è un dato ma una costruzione politica attraverso il confronto e il conflitto: il passaggio dall’Io al Noi non è il contratto ma lo costruzione del soggetto attraverso la negatività; fra la religione e la laicità non c’è un salto ma una rielaborazione; dall’autorità ai diritti si transita non per la deduzione dall’Io astratto ma per una lotta politica. Insomma, la democrazia funziona se incorpora un’eccedenza storica, simbolica, religiosa, come motore della propria vita; è la questione che Schmitt si era posto con la teologia politica e che oggi si pone l’ultimo Habermas che riflette sulla religione e sulla politica per andare oltre la democrazia come comunicazione discorsiva, e per arricchirla attingendo la risorsa di senso del sacro.
Nel discutere in modo differenziato queste e altre posizioni Preterossi ci dice che la democrazia non è fatta solo di concetti e di norme ma vive di cultura politica, popolare e di élite; che non è solo immediatezza, ma anche mediazione; che la sua autolegittimazione giuridica non è sospesa nel vuoto ma si nutre di storia e di trascendenza reinterpretate, e rese progettualmente normative per il futuro; che non è chiusa in sé ma si apre a un resto che è “ciò che resta” quando concetti e istituzioni sono stati colonizzati e travolti da poteri non democratici.
Dalla vitalità storica della ragione democratica così interpretata derivano conseguenze concrete: ad esempio, che i diritti sociali non sono alternativi a quelli politici e civili (la lesione degli uni non è compensabile con l’aumento degli altri). E deriva soprattutto la consapevolezza che la lotta contro la democrazia impolitica, contro la tecnocrazia, contro l’individualismo, non è vinta col ricorso alla democrazia identitaria ma con l’attivazione di soggettività complesse, individuali e collettive, in un incrocio di genealogia e di dialettica. 

Il trionfo dei comitati d’affariUna partitocrazia senza partiti, dei quali a ben guardare non è rimasto che il peggio: il potere pressoché assoluto delle oligarchie e dei cerchi magici


di Alberto Burgio il manifesto 31.10.15
Lo scontro frontale tra il sindaco della capitale e il suo partito è giunto all’ultimo atto. Non si sentiva il bisogno di quest’altra trista vicenda. La politica italiana, la democrazia italiana, i cittadini italiani e in particolare i romani non se lo meritano. Ma, giunte le cose al punto in cui stanno, l’urto finale è inevitabile. Proviamo almeno a ricavarne una lezione.


Non più tardi di qualche mese fa – lo scorso giugno – il Pd difendeva Marino a spada tratta. «È un baluardo della legalità e chi dice che si deve dimettere inconsapevolmente sostiene le posizioni di quelli che lo hanno percepito come ostacolo ai loro disegni. L’interesse di Roma è che Marino resti sindaco». Così parlava il vice di Renzi al Nazareno, non proprio l’ultimo venuto. Qualche giorno fa lo stesso Guerini se n’è uscito dicendo che «non esiste che Marino ci ripensi»: se ne deve andare, punto e basta.

Ha cambiato idea radicalmente anche Matteo Orfini, che su Marino aveva resistito persino a Renzi e che ora è sceso in campo per organizzare le dimissioni in massa dei consiglieri del Pd. Utilizzando, pare, un nobile argomento, degno dei momenti più alti della storia della Repubblica: chi oggi disobbedisce all’ordine di dimettersi si può scordare di essere rieletto in Campidoglio. Il commissario Orfini è coerente. Come si sa e si vede, si batte anima e corpo per il rinnovamento.

Quanto al presidente del Consiglio, meglio tacere. Marino non fa parte dei suoi fedeli né dei suoi famuli e tende per di più a muoversi in autonomia su uno scenario non propriamente periferico. Renzi gliel’ha giurata sin da prima dell’estate per conquistarne lo scalpo.

Tutto questo è – va detto senza remore – vergognoso, oltre che stupido. Non si tratta qui di difendere in blocco l’operato del sindaco, per molti versi molto discutibile. Ma il modo in cui il partito che due anni fa lo ha candidato alla poltrona di primo cittadino della capitale ha preteso ora di liquidarlo senza che ad alcuno sia concesso di comprendere le vere ragioni di tanto accanimento è semplicemente indegno di un paese civile. E ben difficilmente porterà buon frutto alla città oltre che agli stessi registi dell’operazione, per i quali evidentemente l’autonomia delle istituzioni locali e della cittadinanza vale zero.
Per lungo tempo hanno imperversato in Italia infuocate polemiche sulla partitocrazia. Si imputava ai partiti di occupare le istituzioni e di cercare di mettere le mani su tutti i luoghi di potere che riusciva loro di raggiungere. Non erano certo accuse pretestuose o infondate. Ma i partiti nella prima Repubblica costituivano anche snodi cruciali della partecipazione democratica. Svolgevano le funzioni vitali di alfabetizzazione politica e di orientamento culturale di massa che la Costituzione repubblicana attribuisce loro.
Poi è venuto il terremoto di Tangentopoli, si è adottato il modello del partito leggero, ha trionfato la più spinta personalizzazione della politica. I partiti di massa, radicati nel tessuto sociale del paese, sono stati rapidamente smantellati. E il discorso sulla partitocrazia è passato di moda, come se ogni problema fosse stato risolto.
I partiti si sono trasformati in comitati elettorali, in organizzatori di opinione, in strutture rarefatte comandate da gruppi sempre più ristretti, da vere e proprie oligarchie. Non soltanto a destra, dove il partito-azienda del padrone realizza coerentemente una concezione condivisa della società. Lo stesso è avvenuto nel campo delle forze democratiche. Che non hanno introiettato soltanto la lettura egemone della modernizzazione neoliberale, ma anche la concezione autoritaria, post-democratica, della politica e dell’amministrazione.
Nessuno parla più di partitocrazia, evidentemente ai maggiori opinionisti questa situazione garba. Si capisce. Ma di certo alla regressione oligarchica dei partiti non hanno corrisposto una rinuncia al potere né – come si vede – uno stile più sobrio nell’esercitarlo. Al contrario.
Se per tanti versi il renzismo ci appare quotidianamente l’espressione matura della torsione tecnocratica e affaristica della politica, la vicenda della defenestrazione del sindaco di Roma organizzata dal Pd rappresenta a sua volta il trionfo della partitocrazia peggiore e più insidiosa. Una partitocrazia senza partiti, dei quali a ben guardare non è rimasto che il peggio: il potere pressoché assoluto delle oligarchie, dei cerchi magici, dei comitati d’affare. E il conseguente trionfo delle clientele politiche e del trasformismo.

Se la politica si maschera da antipolitica 


Giovanni Orsina Stampa 31 10 2015
Sono vent’anni che viaggiamo sull’ottovolante della «politica dell’antipolitica»: dovremmo esserci abituati, ormai. Ma l’Italia, per quanto si pensi di averla capita, riesce sempre a riservare qualche sorpresa, spingendosi a estremi di assurdità che ci si illudeva non fossero umanamente raggiungibili. L’unica cosa che non dovrebbe sorprendere è che all’assurdo in questo caso si sia arrivati a Roma: una città tanto cinica quanto permeabile che da quasi un secolo e mezzo si imbeve di tutti i più nefasti umori del Paese.


In che senso la surreale vicenda del sindaco Ignazio Marino può essere considerata la quintessenza della «politica dell’antipolitica»? La sua candidatura, ottenuta con elezioni primarie, e poi la sua ascesa al Campidoglio, nella primavera del 2013, avvengono in una fase di profonda crisi del Partito democratico: terribilmente deluso dai risultati delle elezioni del febbraio di quell’anno, che pensava di poter vincere a mani basse; atterrito ma anche attratto dal grillismo; dilaniato sulle opzioni non soltanto strategiche, ma perfino identitarie – proprio fra le primarie e il voto a Roma cade la rielezione di Napolitano al Quirinale, con lo psicodramma Pd che porta al siluramento di Franco Marini prima e poi Romano Prodi. 

È in  questo clima che il più «tradizionale» dei partiti italiani - l’erede in fin dei conti dell’unica cultura politica e organizzativa che sia davvero riuscita a sopravvivere alla tempesta di Mani Pulite, quella postcomunista - ha presentato a Roma un candidato col quale, per la sua estraneità ai meccanismi di potere, sperava di poter affrontare la concorrenza grillina.

La politica ha cercato così di sconfiggere l’antipolitica sul suo stesso terreno – «mascherandosi» da antipolitica. L’operazione però non è riuscita. E via via che il suo fallimento s’è venuto facendo sempre più palese, sono esplose le sue contraddizioni interne. Il Partito democratico ha accarezzato l’idea di espellere al più presto il «marziano» per la sua conclamata incapacità politica e i gravi danni amministrativi e d’immagine che essa stava causando. Tuttavia, soprattutto dopo che la magistratura ha svelato la cosiddetta mafia capitale, non ha resistito alla tentazione di continuarne a sfruttare la marzianità antipolitica. Non per caso, pure quando alla fine, assai tardivamente, il Pd s’è deciso a sfiduciare il sindaco, lo ha fatto sul terreno antipolitico degli scontrini, non su quello politico dell’inettitudine amministrativa. Più in generale, anche l’interpretazione che l’opinione pubblica ha dato della crisi s’è divisa lungo il crinale del rapporto ambiguo fra politica e antipolitica: da un lato chi ha attribuito la responsabilità per il fallimento all’antipolitica, reclamando il ritorno alla politica; dall’altro invece chi ha ritenuto che fosse stata proprio la politica a boicottare la marzianità virtuosa.

Quel che è più curioso in questa vicenda, e che la rende emblematica della più generale situazione italiana, a ogni modo, è quanto simili siano la posizione di Marino e quella del personaggio che lui stesso ha definito ieri il «mandante» del suo «accoltellamento»: Matteo Renzi. Anche Renzi è stato eletto segretario con le primarie da un Partito democratico in crisi d’identità e di linea politica; e anche Renzi è stato scelto perché estraneo all’apparato e ritenuto in grado di cavalcare l’antipolitica e affrontare la sfida grillina. Insomma: di certo non gli farebbe piacere sentirselo dire, ma Renzi è un po’ il «Marino d’Italia» – anche se con ben altre capacità politiche, per nostra buona fortuna.
La similitudine può forse contribuire a spiegare per quale ragione il presidente del Consiglio, che in genere tende alla brutalità ben più che al temporeggiamento, ha durato così gran fatica a sciogliere il nodo romano. E ancor di più può aiutarci a comprendere la solitudine di Renzi. I problemi che ha col partito, sul cui apparato non può appoggiarsi più di tanto, ma che non può nemmeno controllare con le «sue» primarie, che sono indirizzate o proprio dall’apparato, oppure da un’elettorato volubile e imprevedibile. E di conseguenza le difficoltà che incontra quando si tratta di selezionare una nuova classe politica – ad esempio di scegliere i candidati per le elezioni amministrative che si svolgeranno nella prossima primavera in alcune delle più importanti città d’Italia. Renzi infatti non può ricorrere più di tanto a politici di lungo corso e amministratori esperti, perché lui stesso è dove è grazie alle primarie e alla rottamazione antipolitica – oltre che a motivo delle condizioni isteriche dell’opinione pubblica. E deve quindi rivolgersi a marziani di questo o quel «pianeta non politico». Col rischio di non riuscire poi a controllarli e la quasi certezza di non poter mettere radici stabili sul territorio. E col problema aggiuntivo che i marziani tendono a preferire di restarsene su Marte: chi ha voglia di mettersi a fare il politico, oggi, o di misurarsi con l’amministrazione di città, almeno in alcuni casi, impossibili?


Fine del duello destra-sinistra, ora lo scontro è fra populismi
Addio ai partiti. Con il crollo del Muro di Berlino non è caduto solo il comunismo ma è entrata in crisi anche la socialdemocrazia E sul terreno del movimento operaio sono nati i movimenti antisistema


L’asse del confronto politico ruota attorno alla contrapposizione alto-basso

di Paolo Franchi Corriere 31.10.15
Ventisei anni fa, di questi giorni, cadeva il Muro di Berlino. Cambiava, non finiva, la storia. In Italia e in Europa, per cominciare, cambiava, e forse cominciava a finire, quella della sinistra. Molti pensarono (in Italia, a dire il vero, non troppi) che il lungo duello che l’aveva segnata si fosse concluso con il trionfo dei socialdemocratici; che fosse giusto così; e che occorresse trarne in fretta le conseguenze. Anche chi scrive la vedeva in questi termini, e non se ne pente. Quindi gli spiace non poco, tanto tempo dopo, dare qualche ragione a Fausto Bertinotti. Il quale, in una conversazione con Carlo Formenti ( Rosso di sera , Jaca Book), sostiene che la caduta del comunismo si è portata appresso quella della socialdemocrazia: simul stabunt, simul cadent .


Ciò che non era vero nel 1989 lo è nel 2015? Almeno in parte, sì. Perché magari non è morta come il suo storico antagonista, la socialdemocrazia, ma di sicuro è malata grave. E non si intravedono segni di miglioramento. Né per una socialdemocrazia per così dire classica, quella, letteralmente non riproducibile, che si incarnava nella vecchia Spd, nella dichiarazione di Bad Godesberg (1959), nel rifiuto della lotta di classe, nell’accettazione del modello di economia sociale di mercato, nella cogestione, mantenendo però il suo radicamento sociale. Né per le socialdemocrazie di tipo per così dire innovativo che, sull’onda del successo di Tony Blair e del blairismo, hanno battuto strade radicalmente diverse da quelle tradizionali del movimento operaio anche nelle sue componenti più moderate, più neoliberali che neosocialiste. È vero, in Italia, dopo l’Ottantanove, le cose sono andate inizialmente alla rovescia rispetto al resto del mondo, i socialisti in rotta, i postcomunisti a un passo dal potere. Ma le considerazioni di cui sopra hanno comunque parecchio da spartire anche con la semi estinzione delle componenti a vario titolo «socialdemocratiche» del Pd.

La lunga e spesso drammatica contesa tra socialismo democratico e comunismo ebbe per terreno di gioco, nell’Europa occidentale, la sinistra, in primo luogo quella parte fondamentale della sinistra che, per gli uni e per gli altri, si chiamava, ed effettivamente era, il movimento operaio. A partire dal 1989 questo terreno di gioco è diventato prima molto pesante, poi impraticabile. Di più. La stessa antitesi sinistra-destra spiega ben poco di quel che avviene in Italia e anche in Europa. Forse perché la sinistra si è lasciata letteralmente e consapevolmente risucchiare dalla destra «mercatista», come sostiene Bertinotti. Più probabilmente perché né la prima né la seconda, almeno per come le abbiamo conosciute, hanno più molto filo da tessere. Questo mondo non è più il loro mondo, anche se non è detto che sia un mondo migliore.

Per anni e anni, mentre da noi dottamente si disquisiva su un’ipotetica democrazia dell’alternanza tra una sinistra e una destra di stampo «europeo» che, guarda caso, non hanno mai preso corpo, in Europa e contro l’Europa (con la solitaria, significativa eccezione della Germania dove a tenere la barra ha provveduto però la Cdu) hanno accumulato forze sempre maggiori quei nuovi populismi di cui la nostra Lega era stata l’antesignana. Anche quando sono nati a destra, i loro exploit li hanno avuti e li hanno mietendo voti nell’elettorato popolare della sinistra, il più colpito dalla crisi, dalle politiche di austerità, dall’immigrazione, spesso in nome della difesa strenua di uno Stato sociale sì, ma non per lo straniero. E qualcosa significherà anche quel che va capitando nell’Europa dell’Est.

Non sono certo tutti la stessa cosa, non hanno tutti lo stesso segno, i partiti e i movimenti che, con un po’ di pigrizia intellettuale, chiamiamo populisti. Ma tutti hanno concorso e concorrono a spostare l’asse dello scontro politico, che, soprattutto ma non solo nell’Europa mediterranea, ruota sempre più (anche qui Bertinotti qualche ragione ce l’ha) attorno alla contrapposizione tra il «basso» e l’«alto», tra la cosiddetta gente comune con i suoi problemi e i poteri tradizionali con i loro privilegi, sempre meno attorno alla coppia destra-sinistra. E tutti hanno concorso e concorrono a modellare pure i comportamenti dell’avversario. Qui l’Italia gioca ancora una volta in anticipo, e può persino ambire ad esportare, in tutto o in parte, il suo modello. Governanti e oppositori, che trovano in fondo la loro legittimazione nella crisi della democrazia rappresentativa novecentesca, si regolano di conseguenza. I primi seminando ottimismo, i secondi annunciando l’apocalisse. Entrambi rivolgendosi direttamente al popolo degli elettori e additando (con successo) partiti e sindacati come un intralcio al cambiamento, se non come un inganno. Con tutte le loro colpe, verrebbe da dire: poveri socialdemocratici, e persino poveri comunisti. Tutto avrebbero immaginato, ma non che il loro duello andasse a finire così.

Modello Expo, il salto di qualità del renzismo
Mostro Marino. Dopo Prodi e Letta, il premier miete un'altra vittima senza apparire. Per «il nuovo Pd» rovesciare governi fuori dalle aule e senza dibattito pubblico è ormai una prassi. Un partito post-democraticodi Marco Revelli il manifesto 1.11.15
Venerdì, a Roma, il progetto renziano di manomissione della nostra democrazia ha compiuto un nuovo salto di qualità. O, forse meglio, ha rivelato – nell’ordalia rappresentata sul grande palcoscenico di Roma capitale – la propria natura compiutamente post-democratica e anzi tout court anti-democratica.
Di Ignazio Marino sindaco si può pensare tutto il male possibile: molte sue politiche sono state discutibili e anti-sociali (in primis la questione della casa), alcuni suoi comportamenti incomprensibili, la sua ingenuità (o superficialità) imperdonabile, la sua inadeguatezza evidente. E l’accettazione nella sua squadra di uno come Stefano Esposito insopportabile.
Ma la ferocia con cui il Pd, su mandato del suo Capo, ha posto fine alla legislatura in Campidoglio supera e offusca tutti gli altri aspetti. Sostituendo all’Aula il Notaio. Al dibattito pubblico la manovra di corridoio e il reclutamento subdolo dei sicari (arte in cui Matteo Renzi eccelle, avendola già sperimentata prima con Romano Prodi e poi con Enrico Letta).
E colpendo così non tanto, e comunque non solo, «quel» Sindaco (che pure a molti voleri del Pd era stato fin troppo fedele), ma il principio cardine della Democrazia in quanto tale. O di quel poco che ne resta, e che richiederebbe comunque che la nascita e la caduta degli esecutivi – nazionali e locali – avvenisse nell’ambito degli istituti rappresentativi costituzionalmente stabiliti in cui si esercita la sovranità popolare. Con un voto palese, di cui ognuno si assume in modo trasparente e motivato, la responsabilità.
Così non è stato.
In sistematica e ostentata continuità con la pratica seguita dal governo Renzi in questi mesi di legislazione coatta (a colpi di fiducia e di manipolazione delle Commissioni) e con la sua riforma costituzionale di stampo burocratico-populistico, la sede della Rappresentanza è stata marginalizzata e umiliata. Svuotata di ruolo e poteri. Sostituita dalla retta che dal vertice dell’Esecutivo — fatto coincidere con la leadership del partito a vocazione totalizzante e a consistenza dissolvente – precipita, senza intoppi, fino ai piani bassi della cucina quotidiana, delegata alle burocrazie guardiane, reclutate al di fuori di ogni validazione elettorale, in base a criteri di fedeltà (o, forse meglio, di asservimento).
Nella stagione impegnativa — per compiti da svolgere e affari da sfruttare – del Giubileo la Capitale sarà amministrata e «governata» da un dream team (o nightmare team?) non di rappresentanti del popolo ma di fiduciari del Capo, chiamati con logica emergenziale a «gestire l’impresa» in nome non tanto del bene pubblico ma dell’efficienza.
Della composizione del team già se ne parla: oltre all’inossidabile Sabella, il prefetto renziano Francesco Paolo Tronca, fresco della Milano di Expo e Marco Rettighieri, ex supermanager di Italferr, uomo Tav, quello che ha sostituito come direttore generale costruzioni dell’Expo Angelo Paris dopo il suo arresto per corruzione e turbativa d’asta…
Un bel pezzo della «Milano da mangiare» – del «paradigma Expo» – trapiantata a Roma, a far da matrice del nuovo corso della Capitale, ma anche — s’intende – del Paese.
Ed è questo il secondo anello della cerchiatura della botte renziana. O, se si preferisce, il passaggio con cui si chiude il cerchio del mutamento di paradigma della politica italiana: questo utilizzo del «modello Expo», costruito come esempio «di successo», generato e poi certificato dal mercato, e (per questo) proposto/imposto come forma vincente di governance da imitare e generalizzare.
L’operazione era stata favorita, non so quanto consapevolmente, dall’infelice esternazione di Raffaele Cantone, in cui si contrapponeva Milano come «capitale morale» a una Roma «senza anticorpi»: infelice perché sembra fortemente «irrituale», per usare un eufemismo, e comunque molto inopportuno, che colui che dovrebbe sorvegliare e garantire il rispetto della legalità prima, durante e dopo un’opera ad alto rischio come l’Expo, beatifichi la città che l’ha organizzato e ospitato e, reciprocamente, che ne venga beatificato, proprio alla vigilia di un periodo in cui la magistratura dovrebbe essere lasciata assolutamente libera di procedere a tutte le proprie verifiche e in cui l’Agenzia che egli dirige dovrebbe operare come mai da tertium super partes (che succederà, per esempio, se le inchieste in corso su corruzione, peculato, truffa, ecc. dovessero concludersi con verdetti di colpevolezza: la dovremmo chiamare «Mafia Capitale Morale»?).
Ma tant’è: il cliché coniato da Cantone è entrato alla velocità della luce a far parte del dispositivo narrativo renziano sulle meraviglie del rinascimento italiano. E su come questo possa tanto più agevolmente e soprattutto velocemente dispiegarsi quanto più si eliminano gli ostacoli della vecchia, accidiosa e fastidiosa democrazia rappresentativa (quella, appunto, che produce i Marino), e si adottano, in alternativa, le linee degli executive di turno, magari arruolando in squadra le stesse «autorità indipendenti» che dovrebbero esercitare i controlli.
Personalmente mi ha turbato la quasi contemporanea dichiarazione di Cantone sulla propria intenzione di abbandonare l’Associazione nazionale magistrati, rea di aver mosso (caute) critiche al governo… E anche questo è uno scatto – se volete piccolo, ma inquietante – nella chiusura della gabbia che ci sta stringendo.

Post-democrazia, sette tesi sul «caso Marino»
di Angelo d'Orsi il manifesto 1.11.15
Gli avvenimenti romani delle ultime settimane hanno posto in luce, mi pare, alcuni elementi di fondo sulla transizione italiana verso la post-democrazia, ossia il superamento della sostanza della democrazia, conservandone le apparenze, secondo un processo in corso in tutti gli Stati liberali, ma con delle peculiarità proprie, che hanno a che fare con la storia italiana e, forse, anche l’antropologia del nostro popolo.
Senza più entrare nel merito della vicenda della cacciata di Ignazio Marino dal Campidoglio, su cui peraltro mi sono già espresso più volte, a netto sostegno del sindaco, pur rilevandone le debolezze e gli errori (ha sintetizzato bene ieri l’altro sul manifesto Norma Rangeri: «non è il migliore dei sindaci, il mestiere politico non è il suo, si è mosso fidandosi … del suo cerchio magico»), e contro l’azione del Pd, irresponsabilmente sostenuta anche dal M5S, all’unisono con le frange della destra estrema, propongo alcune riflessioni che hanno bisogno naturalmente di essere approfondite, oltre che discusse.
I Tesi
Le assemblee elettive, ossia quella che si chiama «la rappresentanza», hanno un valore ormai nullo. Deputati, senatori, consiglieri regionali e comunali, sono pedine ininfluenti, che si muovono all’unisono con gli orientamenti dei capi e sottocapi.
Obbediscono in modo automatico, ma cosciente, nella speranza di entrare nell’orbita del potere «vero», o quanto meno avvicinarsi ad essa, e diventare sia pure a livelli inferiori o addirittura infimi, «patrones» di piccole schiere di “clientes». Il potere legislativo è completamente disfatto.
II Tesi
I partititi politici, tutti, sono diventati «partiti del capo». I militanti, e persino i dirigenti, dal livello più basso a quelli via via superiori, non contano nulla. Tutto decide il capo, circondato da una schiera di fedeli, i “guardiani”. Le forme di reclutamento e di selezione, che dalla base giungono al vertice, sulla base di percorsi lunghi, tragitti di «scuola politica», hanno perduto ogni sostanza; contano consulenti, operatori del marketing, sondaggisti, costruttori di immagine. Il distacco tra il capo, e il ristrettissimo vertice intorno a lui, e lo stesso partito, inteso come struttura di aderenti, intorno, di simpatizzanti, o di semplici elettori, appare totale.
Se crolla il capo, crolla il partito, nel Pd come è accaduto in Forza Italia, e come accadrà nel Movimento 5 Stelle, se i militanti non scelgono una via diversa.
III Tesi
Il Vaticano, e le gerarchie della Chiesa cattolica, costituiscono non soltanto uno Stato nello Stato, ma uno Stato potenzialmente ostile, che esercita un’azione direttamente politica, volta a condizionare, fino al sovvertimento, gli stessi ordinamenti liberali; diventa «potenza amica» solo quando e nella misura in cui il potere legittimo si piega ai suoi dettami.
IV Tesi
I grandi media non esercitano semplicemente un’influenza, come sostengono certi massmediologi; essi rappresentano pienamente un potere, capace di creare o distruggere leader, culturali o politici o sportivi. Abbiamo avuto esempi piccoli e grandi, di distruzione o costruzione, da Roberto Saviano a Renata Polverini, fino a Ignazio Marino, osannato chirurgo, esemplare perfetto della «società civile», politico onesto, sindaco in grado di svelare e sgominare l’intreccio affaristico-mafioso della capitale, diventato improvvisamente il contrario di tutto ciò, a giustificazione della sua orchestrata defenestrazione.
V Tesi
La lotta politica procede oggi su due livelli distinti ed opposti: il livello palese, che finge di rispettare le regole del gioco, privo di effettualità; e un secondo livello, nascosto, che conta al cento per cento, nel quale si assumono decisioni, si scelgono i candidati ad ogni carica pubblica, e si procede nella selezione (sulla base di criteri di mera fedeltà a chi comanda) dei «sommersi» e dei «salvati». Il livello sommerso è in realtà un potere soltanto indirettamente gestito dal ceto politico: è emanazione di poteri forti o fortissimi italiani o stranieri, di lobby, palesi o occulte, alcune delle quali corrispondenti a centrali criminali.
VI Tesi
Il Partito Democratico, rappresenta oggi la forza egemone della destra italiana: una forza irrecuperabile ad ogni istanza di sinistra. Il suo capo Matteo Renzi costituisce il maggior pericolo odierno per la democrazia, o per quel che ne rimane. Ogni suo atto, sia nelle forme, sia nei contenuti, lo dimostra, giorno dopo giorno. Il suo cinismo (quello che lo portò a ordinare a 101 peones di non votare per Romano Prodi alle elezioni presidenziali; lo stesso cinismo che lo ha portato a ordinare a 25 consiglieri capitolini ad affossare Marino e la sua Giunta) è lo strumento primo dell’esercizio del potere.
Renzi si è rivelato un perfetto seguace dei più agghiaccianti «consigli al Principe» di Niccolò Machiavelli.
VII Tesi
La reazione spontanea, diffusa, robusta alla defenestrazione di Ignazio Marino dal Campidoglio testimonia dell’esistenza di un’altra Italia: i romani che hanno sostenuto «Ignazio», con estrosi slogan, nelle scorse giornate, al di là dell’affetto o della stima per il loro sindaco, hanno voluto far comprendere che la cancellazione della democrazia trova ancora ostacoli e che esistono italiani e italiane che «non la bevono», che la «questione morale» conserva una presenza nell’immaginario dell’Italia profonda (che dunque non è solo razzismo e ignoranza, egoismo e parassitismo, tutti elementi forti nel «pacchetto Italia»); esistono italiani e italiane pronti a resistere.
Su loro occorre fare affidamento, per costruire prima una barricata in difesa della democrazia, quindi per passare al contrattacco, trasformando la spontaneità in organizzazione, la folla in massa cosciente, il dissenso in proposta politica alternativa. Che il «caso Marino» costituisca l’occasione buona per far rinascere la volontà generale e sollecitarla all’azione?

Cacciari: altro che primato della politica Renzi l’ha sostituita con tecnici e amici
Il filosofo: “Orfini incapace. Evocare l’Expo non c’entra nulla”intervista
di Marco Bresolin La Stampa 1.11.15

«La cosa comica è che è in atto una sostituzione della politica con tecnici e magistrati proprio per mano di uno che si è presentato dicendo che la politica doveva tornare al comando». Non usa mezzi termini Massimo Cacciari per criticare l’eccessiva presenza di tecnici in ruoli che dovrebbero essere affidati a politici.
Per Roma, Renzi ha puntato sul prefetto Tronca perché vuole applicare il modello Expo.
«Sì, ma c’è una piccola differenza: Expo era un evento eccezionale ed è dunque normale che venisse gestito da tecnici, mentre Roma è un Comune. Il modello Expo non c’entra nulla. Per il Giubileo c’è già un commissario, Gabrielli».
Quindi le scelte di Renzi non vanno nella giusta direzione?
«Diceva di voler rimettere la politica al comando. Invece in tutte le situazioni critiche deve ricorrere a tecnici. E a livello amministrativo locale ai vari Fassino, Chiamparino, De Luca e magari anche Bassolino. Vorrei capire chi ha rottamato, oltre a D’Alema».
Non è che l’Italia è obbligata a seguire la strada dei tecnici perché la politica non è in grado?
«Va be’, se è così allora prendiamone atto. Facciamo delle riforme istituzionali che ne tengano conto: aboliamo il Parlamento. Ma non scherziamo, dai».
Allora che bisogna fare?
«Per rifondare la politica bisognerebbe ripartire da una riorganizzazione della medesima, formare un partito come dio comanda, istituire una formazione della classe politica decente... E non solo attorniarsi di amici e portaborse...».
La nostra classe politica è inadeguata?
«Per lo meno quella che sta attorno al capo del governo. Guardiamo quello che è successo a Roma: il Pd ha fatto ricorso a un politico per risolvere il problema. La prima cosa da mettere in discussione sarebbe l’operato di Orfini. Renzi ha messo lì un suo braccio destro che avrebbe dovuto avere autorevolezza e capacità per dirimere quel casino e invece guarda che disastri ha lasciato che accadessero. Si è dimostrato totalmente incapace. E allora lo caccino. Lo mettano a fare il capo sezione a Orbetello».
E ora a Roma cosa succederà?
«Il centrodestra cercherà di competere con Marchini, ma vinceranno i Cinque Stelle. Il Pd non arriverà al 10%. Ci sarà una lista Marino: ormai è quasi costretto, per salvarsi la faccia».
A Marino cosa si può rimproverare?
«Assolutamente nulla. Lui era uno che non sapeva neanche che fosse di casa a Roma, non aveva alcuna esperienza amministrativa. Era soltanto un semplice megalomane: questo era risaputo da tutti, dalla comunità scientifica, dai suoi stessi colleghi. La responsabilità non è sua, ma di chi l’ha messo lì, a dimostrazione dell’assoluta mancanza di una politica di formazione della classe dirigente. Avevano Gentiloni e invece si sono inventati Marino: bene, questo è il risultato».
Marino però ha vinto le primarie
«Le primarie, fatte in questo modo totalmente dilettantesco, non servono a niente. Servono solo alla resa dei conti interna al partito. O sono normate con regole rigidissime, con un albo degli elettori, come negli Usa, o sono delle bufale colossali».
Che scenari prevede per il Pd alle Comunali?
«Roma è perduta. Milano la possono salvare solo con Sala».
Che, guarda caso, è un tecnico…
«Certo. Perché non hanno nessun politico in grado di affrontare emergenze, né sul piano della giustizia né sul piano amministrativo. Se vuole salvarsi il sederino, Renzi a Milano dovrà mettere Sala. Altrimenti rischia la pelle. E se Renzi perde sia a Milano che a Roma, voglio vedere come continua a governare il Paese…».

Il virus dell’antipolitica e il rischio autoritario
di Marc Lazar Repubblica 7.11.15
LA sottile analisi politica delle contraddizioni e delle difficoltà della democrazia italiana che Ilvo Diamanti ci ha offerto nel suo articolo “La controdemocrazia” pubblicato su La Repubblica del 3 novembre potrebbe servire per numerosi altri paesi europei, a cominciare dalla Francia, spesso presentata come un modello politico al quale l’Italia potrebbe ispirarsi.
Ma a che cosa assistiamo oggi sull’altro versante delle Alpi? La disaffezione nei confronti delle istituzioni, dei partiti politici e della classe politica non è mai stata così elevata. Un sondaggio condotto nell’aprile scorso ha messo in luce che soltanto il 9 per cento dei francesi ha fiducia nei partiti, il 26 per cento nei deputati, il 30 per cento nel Senato e il 31 nell’Assemblée Nationale. Per di più, il forte astensionismo e i voti per il Front National dimostrano in maniera eclatante, di votazione in votazione, il baratro che si va scavando tra ciò che in passato si chiamava il “paese reale” e il “paese legale”. Per le presidenziali che si svolgeranno nel 2017, la stragrande maggioranza dei francesi dichiara di non volere come presidente nessuno dei tre potenziali candidati più in vista, François Hollande, Nicolas Sarkozy e Marine Le Pen. I primi due perché ne hanno già fatto un’esperienza deludente e amara, e la dirigente del Front National perché ai loro occhi continua a mancare di credibilità per poter ricoprire la carica più alta. Tutto ciò equivale a dire che se si andasse alle urne oggi e se fossero loro tre i candidati, gli elettori farebbero una scelta di default. Si tratta di una situazione del tutto nuova nella storia delle elezioni per la presidenza con suffragio universale, la prima delle quali si svolse esattamente cinquant’anni fa. E si tratta di una situazione di rottura rispetto all’idea di fondo che ne ebbe il fondatore della Quinta repubblica, il generale de Gaulle nel 1958.
Il rifiuto nei confronti della classe politica — come, del resto, dell’insieme delle élite, siano esse economiche, sociali, culturali o mediatiche — ha effetti deleteri sul concetto stesso di democrazia. Di conseguenza, in un sondaggio condotto di recente, è stata rivolta agli intervistati una lunga domanda che vale la pena riportare nella sua interezza: “Alcuni pensano che la Francia debba riformarsi in profondità, ma che nessun uomo politico eletto col suffragio universale avrà mai il coraggio di varare tali riforme e che, in tale contesto, sarebbe dunque necessario affidare la direzione del Paese a esperti non eletti che portino a compimento riforme indispensabili per quanto impopolari». Il 67 per cento degli intervistati ha risposto in modo favorevole, più gli intervistati che votano a destra (l’80 per cento dei simpatizzanti dei “repubblicani”, il partito di Sarkozy, e il 76 per cento di chi si sente vicino a Marine Le Pen) che quanti votano a sinistra (anche se il 54 per cento dei simpatizzanti dei socialisti condivide pur sempre questa opinione).
Quando poi chi ha condotto il sondaggio al posto degli esperti ha evocato la possibilità di ricorrere a un «potere politico autoritario, pronto a sbarazzarsi dei meccanismi di controllo democratico esercitato sul governo», il 40 per cento dei francesi si è detto d’accordo, molto più gli intervistati di estrema destra che gli intervistati di destra e di sinistra. In entrambi i casi, ad accettare di buon grado queste soluzioni sono stati i francesi appartenenti a ceti popolari e con un basso livello di istruzione.
Ecco chiaramente, dunque, che al di là delle molteplici differenze che esistono tra Francia e Italia, i due Paesi sono alle prese con sfide democratiche identiche.
Questo punto di vista sulla Francia ha un merito ulteriore per l’Italia, quello di illustrare almeno due dati di fatto molto utili. Disporre di solide istituzioni che permettono al presidente Hollande di governare malgrado la sua impopolarità record e di un sistema elettorale maggioritario su due turni temibilmente efficace per le elezioni presidenziali e le politiche, non mette al riparo dalla crisi della rappresentanza politica. Questi due strumenti non sono equiparabili a vaccini per il virus dell’antipolitica, né costituiscono di per sé validi medicamenti. È dunque indispensabile — ecco la seconda lezione — ricostruire un rapporto di fiducia tra responsabili politici e popolazione. Tale rapporto presuppone partiti completamente rifondati, ripensati, rinnovati, come dice Ilvo Diamanti nel suo articolo, ma anche altri elementi, per esempio una classe politica competente e onesta. Oppure, ancora, leader capaci di indicare un destino, di proporre una visione, di rispondere alle esigenze contraddittorie che si vanno presentando in Francia, in Italia e ovunque in Europa, di una maggiore partecipazione politica, di trasparenza e di autorevolezza. In mancanza di tutto ciò, i cittadini richiederanno senza mezzi termini l’autoritarismo. Già adesso l’85 per cento dei francesi dice di “avvertire il bisogno di un capo che sappia mettere un po’ d’ordine”…
Traduzione di Anna Bissanti 

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