Francesco Benigno: La Mala setta. Alle origini di mafia e camorra 1859-1878, di Einaudi, pagg. 403, 35 euro
Risvolto
La storia dell'intreccio tra Stato e criminalità organizzata nei
primi vent'anni dell'Italia unita non è mai stata raccontata
cosí: l'organizzazione di mafia e camorra immaginate sul
modello delle sette segrete si mescola alle pratiche delle autorità,
inclini ad usare i criminali nella repressione contro
sovversivi e oppositori.
Questo libro si propone di affrontare in modo nuovo la questione del crimine
organizzato italiano nella seconda metà del XIX secolo, utilizzando
la categoria di «classi pericolose». Questa impostazione è diversa dalla
prospettiva, comunemente adottata, che punta viceversa a studiare il crimine
organizzato ottocentesco ex post, per cosí dire, «dall'oggi», e cioè a
partire dalle forme e dalle strutture che la criminalità organizzata si è data
durante il secondo dopoguerra. Vi è al fondo di questa prospettiva un
residuo di un pregiudizio di stampo romantico, l'idea per cui vi siano dei
soggetti separati, «i criminali», intesi come un popolo a parte, portatore
di inequivocabili stigmate comportamentali e attitudinali che li rendono
sempre uguali a sé stessi malgrado il tempo trascorso. L'adozione del modello
delle «classi pericolose» consente invece di muoversi in direzione opposta,
basandosi sulla concezione del crimine condivisa nell'Ottocento.
Tutto ciò ha conseguenze importanti. Piuttosto che considerare, ad esempio,
l'analisi della mafia delle origini come una sorta di premessa utile a
sceverare le radici lunghe di pratiche criminali che daranno poi luogo nel
XX secolo a «Cosa nostra», esso invita invece a immergersi nella confusione
dei discorsi e delle pratiche di quell'epoca. Inoltre, una prospettiva del
genere obbliga a riunire ciò che è stato artificialmente separato, vale a dire
l'indagine sulla camorra a quella sulla mafia. Vi è infine il bisogno di
uscire da una certa concezione ristretta della storia del crimine come storia
sociale intesa alla vecchia maniera, reintroducendovi le urgenze della
politica e le forme dell'immaginario collettivo.
Lo sviluppo del crimine organizzato nei
primi due decenni dell'Italia unita, e
in particolare la crescente popolarità di
mafia e camorra considerate alla stregua
di sette segrete, è strettamente legato alla
lotta dello Stato contro gli eversori, repubblicani
prima e socialisti internazionalisti
poi.
In questo dirompente e innovativo libro,
Francesco Benigno illustra il rapporto
tra il neonato Stato italiano e la
criminalità organizzata, avvalendosi di
fonti d'epoca poliziesche e giudiziarie oltre
che delle fonti giornalistiche coeve. Il
risultato dell'indagine mostra come attorno
al nodo dell'ordine pubblico la società
italiana si divida e si ricomponga
lungo linee di frattura che oppongono -
a Nord come a Sud - svariate opzioni
ideali e politiche e differenti concezioni
della pubblica sicurezza. Il libro mostra
anche la genesi di pratiche poliziesche
di manipolazione, infiltrazione e diversione
comuni in epoca liberale e che, attraverso
il fascismo, sono poi transitate
nell'Italia repubblicana.
Un saggio di Francesco Benigno, in uscita da Einaudi, ricostruisce i rapporti occulti che la classe dirigente, di destra e di sinistra, intratteneva con i gruppi dediti ad attività delittuose che già infestavano vaste zone del Suddi Paolo Mieli Corriere 2 settembre 2015
Lo storico Francesco Benigno e il suo «La
mala setta», documenti ineditiche riscrivono la storia dal 1859 al 1878
della criminalità organizzataVincenzo Esposito Corriere del mezzogiorno 9 settembre 2015
Dalle sette alla zona grigia c’era una volta in Italia la mafia prima della mafia
Lo storico Francesco Benigno ricostruisce le radici ottocentesche delle organizzazioni criminali
ATTILIO BOLZONI Repubblica 31 10 2015
Per comprendere sino in fondo le nostre mafie non basta tornare indietro di un secolo e mezzo e, anno dopo anno o patto o dopo patto, rintracciare le loro radici. Si può anche partire da prima e riscriverla sottosopra la storia dell’intreccio fra Stato e criminalità, prima di Garibaldi e dell’Unità, prima di quando siamo sempre stati abituati a fare.
L’Italia si stava faticosamente formando e già esistevano quelle che, cambiando di volta in volta vestito, si sarebbero trascinate fino a oggi: le “classi pericolose”. Lo storico Francesco Benigno si avventura in un’esplorazione fra gli avi dei boss e dei loro complici in un saggio, La mala setta, alle origini di mafia e camorra 1859-1878 , che non solo ci obbliga «a riunire ciò che è stato artificialmente separato, vale a dire l’indagine sulla camorra a quella sulla mafia», ma — secondo l’autore — tutto ciò che è accaduto in Sicilia o in Campania ancora prima del 1861, «non può essere studiato indipendentemente da ciò che succedeva nel resto del Paese».
Già dalle prime pagine, rileggendo attentamente le pratiche poliziesche e giudiziarie del tempo, ci si accorge che il potere ha sempre usato i suoi sgherri contro ribelli e disubbidienti, “alta polizia” e “intendenti” in epoca borbonica “co-gestivano” l’ordine pubblico utilizzando “soggetti pericolosi” per salvaguardare l’integrità del regime. Così pure in epoca liberale, durante il fascismo e anche dopo. Ce l’avete presente Catania o Palermo fra il 1960 e il 1970? Forse credete che prefetti e questori si affidassero solo alle forze di polizia ufficiali per “garantire” la sicurezza nelle loro città?
Scrive Benigno: «Lo sviluppo del crimine organizzato e la crescente popolarità di mafia e camorra considerate alla stregua di sette segrete, è strettamente legato alla lotta dello Stato contro gli eversori, repubblicani prima e socialisti internazionali poi».
L’indagine dell’autore della Mala setta — palermitano che insegna Metodologia della ricerca storica all’Università di Teramo — viene sviluppata girovagando anche per l’Europa settecentesca e ottocentesca, analizzando sistemi di spionaggio, infiltrazione e provocazione delle varie polizie politiche ai danni di gruppi di oppositori o più in generale della pubblica opinione, destabilizzazione e disinformazione.
Un po’ come è avvenuto in Italia anche nella stagione del terrorismo nero e rosso. E in quella più recente delle mafie. Poi si torna inevitabilmente dalle solite parti, Napoli e Palermo, camorra e mafia, “accoltellatori”, “pugnalatori”, miti e leggende, Beati Paoli e garibaldini. Avvalendosi di fonti sbirresche e atti governativi (e seguendo un filo sostenuto da preziosi riferimenti letterari), il libro di Benigno affronta in modo sicuramente inedito la questione del crimine organizzato nella seconda metà del XIX secolo per approdare, naturalmente, quasi alla cronaca. Nella nostra società i criminali non rappresentano “un popolo a parte” sempre uguale a se stesso, non ci sono loro e — divisi, lontani — ci siamo noi. E soprattutto quelle “classi pericolose”, sempre servono al potere. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
La mala setta, alle origini di mafia e camorra
Libri. Il libro di Francesco Benigno è importante anche in prospettiva, da cui si spera che altri studiosi possano proseguire lo studio sul rapporto tra crimine organizzato e Stato
Giancarlo Mancini Manifesto 31.10.2015, 1:48
Maggio 1858, Torino, Vincenzo Cibolla, di professione nastraio, viene arrestato per il furto di un pastrano. Una cosa di poco conto, anche nell’Italia di allora. Ma una volta dentro Cibolla inizia a parlare e svela una serie di intrecci tra delinquenza e pubblica sicurezza che costituiranno la trama di uno dei più grossi scandali dell’Italia a cavallo dell’Unità d’Italia.
È lo spunto da cui parte il libro di Francesco Benigno
La mala setta (Einaudi, pp. 403, euro 35), dal sottotitolo tanto roboante quanto forse fuorviante: Alle origini di mafia e camorra 1859–1876.
Per Benigno non si tratta infatti di cercare una data di nascita o delle ragioni particolari posizionate alla metà del secolo XIX per spiegare realtà criminogene a noi contemporanee. Quanto piuttosto di raccontare il quindicennio fondante la nostra nazione dal punto di vista del rapporto tra crimine organizzato e Stato.
La cesura, secondo l’autore, avviene nel 1876, anno in cui, con la vittoria della sinistra storica, lo scettro del potere statuale passa di mano a una nuova classe dirigente. Ma, soprattutto per noi, si palesano due nuovi tipi di interpretazioni destinate a una certa fortuna.
Da un lato quelle derivanti da L’inchiesta sulla Sicilia di Franchetti e Sonnino, in cui la spiegazione del malaffare viene fatta ricorrere al tradizionale stato di arretratezza economica del meridione. «La criminalità organizzata è assunta in questo quadro come una malattia sociale che, affermandosi, è a sua volta causa di un ritardo nello sviluppo».
Poi ci sono gli argomenti evoluzionistici, derivanti dall’applicazione delle teorie lombrosiane al corpo sociale interessato. «L’anomalia della fossetta mediana» riscontrata nel cranio del brigante Villella diviene infatti il fondamento di una teoria della diversità del criminale e del fondamento biologico della devianza: la scoperta dell’esistenza, in mezzo alla fiorente civiltà europea di «selvaggi con abitudini e istinti peculiari, che parlano diversamente perché diversamente sentono: i criminali».
Il periodo trattato non delimita dunque una data ufficiale di nascita della mafia e della camorra (perché nate assieme poi?), quanto invece è stato ritenuto propizio dall’autore per raccontare la confusione, il caos, gli slittamenti continui tra chi sta dalla parte della legalità e chi no. E proprio questi limiti è interessante vedere come si spostino verso altri nemici con una incredibile rapidità.
Dai borbonici si passa infatti nel giro di pochissimi anni ai mazziniani, ai garibaldini, agli anarchici e così via. Sono loro i membri delle cosiddette «classi pericolose», la categoria utilizzata da Benigno per definire i cangianti nemici dello stato post-unitario. Una nozione derivante da altre polizie, quella francese anzitutto, con cui molti personaggi di questa storia hanno avuto a che fare. Utilizzando una notevole mole di fonti di prima mano ma anche alcuni grandi capolavori del secolo d’oro del romanzo, personaggi come quelli della Commedia umana di Balzac o la galassia dei protagonisti dei sobborghi parigini in I misteri di Parigi di Eugene Sue, si ricostruiscono una serie di storie criminali e sette segrete imparentate in qualche modo con lo Stato poliziesco francese.
Figura più che mai capace di assurgere ad emblema di tutta la vicenda è infatti quella di Vautrin, lo spietato, imprendibile criminale balzacchiano che diventa alla fine di Splendori e miserie delle cortigiane nientemeno che un agente di polizia. Vicenda che potrebbe incontrare molti emuli tra i personaggi disseminati in questo libro. Uno su tutti potrebbe essere Filippo Curletti, uomo di molte stagioni e pochi scrupoli, protagonista dei moti che costringono alla destituzione dei Lorena dal Granducato d’Austria. È lui, come rivelerà anni dopo quando la sua sorte si sarà rovesciata, a organizzare quelle dimostrazioni popolari i cui protagonisti erano carabinieri travestiti. Una guerra segreta, fondata sulla controinformazione, sull’induzione nell’opinione pubblica di parole d’ordine che spontaneamente, come in Toscana, stentavano a nascere con la dovuta propulsione.
Ma torniamo ai fatti. Sul finire degli anni cinquanta, mentre si stanno coagulando le forze che daranno sostegno e nerbo al processo unificatore, l’autore ricostruisce già una compromissione tra forze dell’ordine e criminalità più o meno organizzata. L’obiettivo è l’infiltrazione, la sobillazione e l’implosione delle istituzioni che governano gli stati italiani, dai Borbone del Regno delle due Sicilie al Ducato di Parma dove effettivamente inizia il libro.
Qui incontriamo il primo personaggio importante e rivelatore. Si chiama Luigi Carlo Farini, patriota, medico e giornalista, dopo la cacciata di Maria Luisa D’Austria dittatore dell’Emilia. Per sua volontà viene organizzata una vasta rete spionistica nelle cui maglie finiscono quei mazziniani che ancora speravano in un corso diverso della storia.
Le strategie di controinformazione che erano servite allo scopo di cacciare via gli occupanti stranieri dalle regioni italiani, non spariscono con loro ma sopravvivono si allungano anche sul giovanissimo stato unitario. La zona grigia si allunga per tutti gli anni del governo della destra storica, quando a più riprese verrà a riproporsi all’attenzione dell’opinione pubblica il problema della mafia, della camorra, e così via.
La mala setta è un libro importante, in sé ma anche in prospettiva, da cui si spera che altri studiosi possano partire per approfondire e magari anche proseguire lo studio sul rapporto tra crimine organizzato e Stato ma anche per tenerne fermo l’assunto implicito, che sembra sorreggerlo e magari applicarlo in altre epoche e in altri contesti.
Nel leggere infatti di tutti questi personaggi che si appalesano in queste pagine non si può non pensare ad altre storie a noi più contemporanee e ad altre zone grigie di cui sembra affollata la nostra parabola sin dai primordi dell’Unità d’Italia.
Quanti sono stati gli agenti del doppio, triplo gioco in grado di infiltrarsi nello Stato non smettendo di essere quello che si è sempre stati, ovvero dei malandrini? E quante volte lo Stato è venuto a patti con queste entità servendosene e poi mollandole, in un tragico balletto macabro?
Poi c’è l’aspetto per così dire metodologico. Compito dello storico è certo quello di mettere assieme i fatti, ricomporre un racconto secondo un ordine logico. Ma forse oggi, dopo decenni in cui si è insistito nella specializzazione, è necessario riunire nuovamente i saperi e dare alla storia un respiro più ampio e ambizioso.
È questo uno dei «messaggi» che si intravvedono in un libro tanto godibile dal punto di vista della lettura quanto profondo dal punto di vista dell’indagine, dimostrando che si può scrivere dei libri da far leggere ad un pubblico al di fuori delle accademie, mantenendo serietà e rigore.
La camorra? Nasce come settaIn un libro densissimo Franco Benigno racconta le origini del fenomeno mafioso in Sicilia e a Napoli, partendo da testimonianze che ricalcano i narratori francesi dell’800Pedullà Domenicale 3 1 2016
Il termine “andrangheta” deriva dal greco aner, andros (uomo) e testimonia, con la forza inoppugnabile delle etimologie, come la criminalità organizzata calabrese abbia origine negli antichi simposi dei liberi cittadini della Magna Grecia; analogamente, la parola “mafia” non è altro che la trascrizione del grido “ Ma fille” (figlia mia) con cui, di fronte alle reiterate violenze sulle ragazze del luogo, un padre chiamò i palermitani alla rivolta contro gli occupanti francesi nella celebre insurrezione dei Vespri siciliani del 1282... Pure leggende: come ben sanno gli storici. Ma siccome si tratta di temi scottanti per la nostra attualità e non di rado capita di sentire ancora raccontare in pubblico amenità del genere, persino da qualche magistrato antimafia, conviene ripeterlo una volta di più: la criminalità organizzata che oggi contende allo stato italiano il controllo di ampie porzioni della penisola non affonda tanto lontano le sue radici. E proprio per questo non è imbattibile.
Tuttavia la domanda mantiene intatto il suo fascino. Quando? E soprattutto: perché? Vogliamo, dobbiamo sapere. E ottimi studiosi si sono dedicati a questo tema in tempi recenti. Non è però direttamente da questi interrogativi che muove uno dei libri di storia più importanti degli ultimi anni: La mala setta. Alle origini di mafia e camorra (1859-1878), scritto da uno studioso sino a oggi internazionalmente apprezzato per i suoi lavori sulla politica barocca e sulle rivoluzioni di età moderna (Masaniello, il 1649 inglese e il 1789 francese). In quattrocento densissime pagine Franco Benigno sovverte gran parte delle nostre convinzioni sulla fase aurorale della criminalità organizzata, e lo fa con una mossa interpretativa che – sinteticamente – si può definire come il rifiuto dell’eccezionalismo siciliano e napoletano. Nella prospettiva di Benigno, infatti, gli inafferrabili primordi di mafia e camorra si lasciano mettere a fuoco solo a patto di allargare lo sguardo oltre i confini del Mezzogiorno d’Italia.
Gli storici che lavorano su questi argomenti hanno notato da tempo l’improvviso moltiplicarsi delle testimonianze su camorra e mafia negli anni immediatamente successivi alla Unità: reportage dalle tinte spesso assai fosche nei quali gli autori narrano la discesa nei bassifondi della città e la scoperta, grazie alla confessione di un “pentito”, delle regole con cui si autogoverna il mondo parallelo dei delinquenti, con le sue gerarchie, i suoi giuramenti e rituali, la sua suddivisione in arti e corporazioni secondo il modello delle professioni legali. Prove della esistenza di una setta dal potere tentacolare che arriverebbe a inquadrare decine di migliaia di persone e a controllare ogni snodo della vita di Napoli e Palermo.
Anche Benigno parte da questi testi, ma opera un duplice scarto. Anzitutto ha gioco facile a mostrare come simili coloritissime testimonianze ricalchino in maniera inequivocabile i racconti dei grandi narratori francesi del primo Ottocento sul mondo del crimine, dai romanzi di Balzac, Victor Hugo ed Eugene Sue (I misteri di Parigi) alle famose memorie dell’ex galeotto e poi commissario di polizia Vidocq. La rappresentazione di un mondo popolare al confine tra accattonaggio e delinquenza offerta da queste opere ha goduto di un successo considerevolissimo in Europa, al punto di sentire ancora nel cinema degli anni Trenta, da René Clair (Il milione) a Fritz Lang (M. il mostro di Dusseldorf). Ora, nota Benigno, situazioni, atmosfere e singoli dettagli corrispondono troppo perfettamente perché non si riconosca anche nelle prime testimonianze su camorra e mafia il segno inequivocabile di un simile immaginario romanzesco.
Il passo davvero decisivo de La mala setta è però quello successivo. Benigno mostra come il rapido imporsi della nuova interpretazione del mondo del crimine napoletano all’indomani del 1860 non sia affatto casuale. Se in pochi anni la tradizionale immagine dell’indolente “lazzarone” napoletano è stata cancellata da quella del “camorrista” è perché il modello romanzesco importato dalla Francia si rivelava particolarmente funzionale alla politica repressiva della Destra storica. Le plebi di Napoli e Palermo avevano dato un contributo militare straordinario all’impresa garibaldina e i reduci della spedizione, animati da sentimenti democratici e spesso repubblicani, costituivano un tenace focolaio di opposizione alla piega moderata che il movimento risorgimentale aveva preso dopo l’annessione al regno dei Savoia. Di fronte all’obiettivo pericolo che queste masse cittadine incarnavano per la monarchia, i modelli romanzeschi francesi potevano servire a due scopi intrecciati tra loro: vale a dire a derubricare gli attivisti politici e in particolare i membri della (disciolta) Guardia nazionale di Garibaldi a semplici delinquenti comuni, e a creare il consenso per una politica di repressione urbana analoga a quella contro il brigantaggio nelle campagne, adombrando lo spauracchio di un’oscura minaccia politico-criminale. Come infatti nota Benigno (da ottimo conoscitore dei trompe-l’oeil barocchi), a seconda della lente adoperata gli stessi personaggi ci vengono incontro come eroici patrioti in camicia rossa non ancora rassegnati alla involuzione del 1861 o come pericolosi delinquenti comuni.
Benigno mostra facilmente come in questa prima fase le medesime retoriche messe in campo contro camorra e mafia siano adoperate dalla stampa governativa e dalle forze di polizia per descrivere e contrastare anche le presunte associazioni a delinquere attive nelle altre parti d’Italia dove più forte era la tradizione repubblicana, come nel caso della “Balla” di Bologna (una ipotetica associazione di malfattori accusata dei più diversi delitti). Rileggendo le prime testimonianze su mafiosi e camorristi alla luce della riflessione sull’oggetto sicuramente più incandescente della scienza sociale ottocentesca – le così dette “classi pericolose”, vale a dire quei settori miserabili del popolo presso i quali più facilmente poteva trovare ascolto la propaganda radicale – Benigno reintegra così la storia del crimine organizzato nella storia politica e sociale europea alla luce della “grande paura” scatenata in tutto il continente dall’avanzata del movimento socialista (particolarmente dopo gli eventi della Comune parigina del 1870).
Le tesi di Benigno traggono ovviamente forza dall’imponente scavo archivistico che le sorregge. I lettori si divertiranno a scoprire, per esempio, che all’origine della rappresentazione della camorra come società segreta dalla ramificazione tentacolare incontriamo niente meno che Alexandre Dumas figlio: in una prima fase sostenitore dei garibaldini, ma presto destinato a spostare su posizioni sempre più filogovernative il quotidiano da lui fondato a Napoli, «L’Indipendente» (è a lui che dobbiamo infatti, nel marzo del 1862, la prima descrizione dettagliata della setta della camorra). E la pagina in cui Benigno estrae dall’Archivio di Stato di Napoli la “pistola fumante” che lega le prime ricostruzioni leggendarie della “mala setta” all’attività di “disinformazione” della polizia di Silvio Spaventa e del ministro degli Interni Marco Minghetti è senza dubbio una delle più esplosive dell’intero libro.
Se Benigno ha ragione, solo successivamente camorra e mafia si sono date l’organizzazione verticistica per cui oggi risultano così temibili. La mala setta non ci dice come e quando ciò è avvenuto (e, sbagliando, qualche lettore potrebbe esserne deluso). Questo non vuol dire però che il libro manchi di una pars costruens, ma solo che – significativamente – questa non riguarda tanto la nascita della criminalità organizzata quanto il difficile processo di formazione dello stato nazionale contro alcuni dei suoi propugnatori. La mala setta ci chiede insomma di fare i conti con la criminalizzazione delle “classi pericolose” (non solo meridionali) come tassello essenziale di una strategia di controllo dei ceti popolari, in una fase di instancabile attivismo garibaldino, repubblicano e anarchico. In cambio però ci dà moltissimo: perché alla fine, anche da questo punto di vista, la Napoli di Spaventa e Minghetti si rivela assai meno distante dalla Parigi del barone Haussmann di quanto non continui a ripetere un discorso pubblico troppo spesso incapace, ancora oggi, di affrancarsi del tutto dal mito della costitutiva diversità meridionale.
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