sabato 31 ottobre 2015

Alle origini della criminalità organizzata mafiosa in Italia nell'Ottocento: il libro di Francesco Benigno

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Francesco Benigno: La Mala setta. Alle origini di mafia e camorra 1859-1878, di Einaudi, pagg. 403, 35 euro

Risvolto
La storia dell'intreccio tra Stato e criminalità organizzata nei primi vent'anni dell'Italia unita non è mai stata raccontata cosí: l'organizzazione di mafia e camorra immaginate sul modello delle sette segrete si mescola alle pratiche delle autorità, inclini ad usare i criminali nella repressione contro sovversivi e oppositori.
Questo libro si propone di affrontare in modo nuovo la questione del crimine organizzato italiano nella seconda metà del XIX secolo, utilizzando la categoria di «classi pericolose». Questa impostazione è diversa dalla prospettiva, comunemente adottata, che punta viceversa a studiare il crimine organizzato ottocentesco ex post, per cosí dire, «dall'oggi», e cioè a partire dalle forme e dalle strutture che la criminalità organizzata si è data durante il secondo dopoguerra. Vi è al fondo di questa prospettiva un residuo di un pregiudizio di stampo romantico, l'idea per cui vi siano dei soggetti separati, «i criminali», intesi come un popolo a parte, portatore di inequivocabili stigmate comportamentali e attitudinali che li rendono sempre uguali a sé stessi malgrado il tempo trascorso. L'adozione del modello delle «classi pericolose» consente invece di muoversi in direzione opposta, basandosi sulla concezione del crimine condivisa nell'Ottocento. Tutto ciò ha conseguenze importanti. Piuttosto che considerare, ad esempio, l'analisi della mafia delle origini come una sorta di premessa utile a sceverare le radici lunghe di pratiche criminali che daranno poi luogo nel XX secolo a «Cosa nostra», esso invita invece a immergersi nella confusione dei discorsi e delle pratiche di quell'epoca. Inoltre, una prospettiva del genere obbliga a riunire ciò che è stato artificialmente separato, vale a dire l'indagine sulla camorra a quella sulla mafia. Vi è infine il bisogno di uscire da una certa concezione ristretta della storia del crimine come storia sociale intesa alla vecchia maniera, reintroducendovi le urgenze della politica e le forme dell'immaginario collettivo.

Lo sviluppo del crimine organizzato nei primi due decenni dell'Italia unita, e in particolare la crescente popolarità di mafia e camorra considerate alla stregua di sette segrete, è strettamente legato alla lotta dello Stato contro gli eversori, repubblicani prima e socialisti internazionalisti poi. In questo dirompente e innovativo libro, Francesco Benigno illustra il rapporto tra il neonato Stato italiano e la criminalità organizzata, avvalendosi di fonti d'epoca poliziesche e giudiziarie oltre che delle fonti giornalistiche coeve. Il risultato dell'indagine mostra come attorno al nodo dell'ordine pubblico la società italiana si divida e si ricomponga lungo linee di frattura che oppongono - a Nord come a Sud - svariate opzioni ideali e politiche e differenti concezioni della pubblica sicurezza. Il libro mostra anche la genesi di pratiche poliziesche di manipolazione, infiltrazione e diversione comuni in epoca liberale e che, attraverso il fascismo, sono poi transitate nell'Italia repubblicana.


Un saggio di Francesco Benigno, in uscita da Einaudi, ricostruisce i rapporti occulti che la classe dirigente, di destra e di sinistra, intratteneva con i gruppi dediti ad attività delittuose che già infestavano vaste zone del Suddi Paolo Mieli Corriere 2 settembre 2015

Lo storico Francesco Benigno e il suo «La mala setta», documenti ineditiche riscrivono la storia dal 1859 al 1878 della criminalità organizzataVincenzo Esposito Corriere del mezzogiorno 9 settembre 2015

Dalle sette alla zona grigia c’era una volta in Italia la mafia prima della mafia 

Lo storico Francesco Benigno ricostruisce le radici ottocentesche delle organizzazioni criminali

ATTILIO BOLZONI Repubblica 31 10 2015
Per comprendere sino in fondo le nostre mafie non basta tornare indietro di un secolo e mezzo e, anno dopo anno o patto o dopo patto, rintracciare le loro radici. Si può anche partire da prima e riscriverla sottosopra la storia dell’intreccio fra Stato e criminalità, prima di Garibaldi e dell’Unità, prima di quando siamo sempre stati abituati a fare.

L’Italia si stava faticosamente formando e già esistevano quelle che, cambiando di volta in volta vestito, si sarebbero trascinate fino a oggi: le “classi pericolose”. Lo storico Francesco Benigno si avventura in un’esplorazione fra gli avi dei boss e dei loro complici in un saggio, La mala setta, alle origini di mafia e camorra 1859-1878 , che non solo ci obbliga «a riunire ciò che è stato artificialmente separato, vale a dire l’indagine sulla camorra a quella sulla mafia», ma — secondo l’autore — tutto ciò che è accaduto in Sicilia o in Campania ancora prima del 1861, «non può essere studiato indipendentemente da ciò che succedeva nel resto del Paese».

Già dalle prime pagine, rileggendo attentamente le pratiche poliziesche e giudiziarie del tempo, ci si accorge che il potere ha sempre usato i suoi sgherri contro ribelli e disubbidienti, “alta polizia” e “intendenti” in epoca borbonica “co-gestivano” l’ordine pubblico utilizzando “soggetti pericolosi” per salvaguardare l’integrità del regime. Così pure in epoca liberale, durante il fascismo e anche dopo. Ce l’avete presente Catania o Palermo fra il 1960 e il 1970? Forse credete che prefetti e questori si affidassero solo alle forze di polizia ufficiali per “garantire” la sicurezza nelle loro città?
Scrive Benigno: «Lo sviluppo del crimine organizzato e la crescente popolarità di mafia e camorra considerate alla stregua di sette segrete, è strettamente legato alla lotta dello Stato contro gli eversori, repubblicani prima e socialisti internazionali poi».
L’indagine dell’autore della Mala setta — palermitano che insegna Metodologia della ricerca storica all’Università di Teramo — viene sviluppata girovagando anche per l’Europa settecentesca e ottocentesca, analizzando sistemi di spionaggio, infiltrazione e provocazione delle varie polizie politiche ai danni di gruppi di oppositori o più in generale della pubblica opinione, destabilizzazione e disinformazione.


Un po’ come è avvenuto in Italia anche nella stagione del terrorismo nero e rosso. E in quella più recente delle mafie. Poi si torna inevitabilmente dalle solite parti, Napoli e Palermo, camorra e mafia, “accoltellatori”, “pugnalatori”, miti e leggende, Beati Paoli e garibaldini. Avvalendosi di fonti sbirresche e atti governativi (e seguendo un filo sostenuto da preziosi riferimenti letterari), il libro di Benigno affronta in modo sicuramente inedito la questione del crimine organizzato nella seconda metà del XIX secolo per approdare, naturalmente, quasi alla cronaca. Nella nostra società i criminali non rappresentano “un popolo a parte” sempre uguale a se stesso, non ci sono loro e — divisi, lontani — ci siamo noi. E soprattutto quelle “classi pericolose”, sempre servono al potere. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


La mala setta, alle origini di mafia e camorra 
Libri. Il libro di Francesco Benigno è importante anche in prospettiva, da cui si spera che altri studiosi possano proseguire lo studio sul rapporto tra crimine organizzato e Stato 

Giancarlo Mancini Manifesto 31.10.2015, 1:48 

Mag­gio 1858, Torino, Vin­cenzo Cibolla, di pro­fes­sione nastraio, viene arre­stato per il furto di un pastrano. Una cosa di poco conto, anche nell’Italia di allora. Ma una volta den­tro Cibolla ini­zia a par­lare e svela una serie di intrecci tra delin­quenza e pub­blica sicu­rezza che costi­tui­ranno la trama di uno dei più grossi scan­dali dell’Italia a cavallo dell’Unità d’Italia. 
È lo spunto da cui parte il libro di Fran­ce­sco Beni­gno La mala setta (Einaudi, pp. 403, euro 35), dal sot­to­ti­tolo tanto roboante quanto forse fuor­viante: Alle ori­gini di mafia e camorra 1859–1876. 
Per Beni­gno non si tratta infatti di cer­care una data di nascita o delle ragioni par­ti­co­lari posi­zio­nate alla metà del secolo XIX per spie­gare realtà cri­mi­no­gene a noi con­tem­po­ra­nee. Quanto piut­to­sto di rac­con­tare il quin­di­cen­nio fon­dante la nostra nazione dal punto di vista del rap­porto tra cri­mine orga­niz­zato e Stato. 
La cesura, secondo l’autore, avviene nel 1876, anno in cui, con la vit­to­ria della sini­stra sto­rica, lo scet­tro del potere sta­tuale passa di mano a una nuova classe diri­gente. Ma, soprat­tutto per noi, si pale­sano due nuovi tipi di inter­pre­ta­zioni desti­nate a una certa fortuna. 
Da un lato quelle deri­vanti da L’inchiesta sulla Sici­lia di Fran­chetti e Son­nino, in cui la spie­ga­zione del malaf­fare viene fatta ricor­rere al tra­di­zio­nale stato di arre­tra­tezza eco­no­mica del meri­dione. «La cri­mi­na­lità orga­niz­zata è assunta in que­sto qua­dro come una malat­tia sociale che, affer­man­dosi, è a sua volta causa di un ritardo nello sviluppo».” 
Poi ci sono gli argo­menti evo­lu­zio­ni­stici, deri­vanti dall’applicazione delle teo­rie lom­bro­siane al corpo sociale inte­res­sato. «L’anomalia della fos­setta mediana» riscon­trata nel cra­nio del bri­gante Vil­lella diviene infatti il fon­da­mento di una teo­ria della diver­sità del cri­mi­nale e del fon­da­mento bio­lo­gico della devianza: la sco­perta dell’esistenza, in mezzo alla fio­rente civiltà euro­pea” di «sel­vaggi” con abi­tu­dini e istinti pecu­liari, che par­lano diver­sa­mente per­ché diver­sa­mente sen­tono: i criminali».” 
Il periodo trat­tato non deli­mita dun­que una data uffi­ciale di nascita della mafia e della camorra (per­ché nate assieme poi?), quanto invece è stato rite­nuto pro­pi­zio dall’autore per rac­con­tare la con­fu­sione, il caos, gli slit­ta­menti con­ti­nui tra chi sta dalla parte della lega­lità e chi no. E pro­prio que­sti limiti è inte­res­sante vedere come si spo­stino verso altri nemici con una incre­di­bile rapidità. 
Dai bor­bo­nici si passa infatti nel giro di pochis­simi anni ai maz­zi­niani, ai gari­bal­dini, agli anar­chici e così via. Sono loro i mem­bri delle cosid­dette «classi peri­co­lose», la cate­go­ria uti­liz­zata da Beni­gno per defi­nire i can­gianti nemici dello stato post-unitario. Una nozione deri­vante da altre poli­zie, quella fran­cese anzi­tutto, con cui molti per­so­naggi di que­sta sto­ria hanno avuto a che fare. Uti­liz­zando una note­vole mole di fonti di prima mano ma anche alcuni grandi capo­la­vori del secolo d’oro del romanzo, per­so­naggi come quelli della Com­me­dia umana di Bal­zac o la galas­sia dei pro­ta­go­ni­sti dei sob­bor­ghi pari­gini in I misteri di Parigi di Eugene Sue, si rico­strui­scono una serie di sto­rie cri­mi­nali e sette segrete impa­ren­tate in qual­che modo con lo Stato poli­zie­sco francese. 
Figura più che mai capace di assur­gere ad emblema di tutta la vicenda è infatti quella di Vau­trin, lo spie­tato, impren­di­bile cri­mi­nale bal­zac­chiano che diventa alla fine di Splen­dori e mise­rie delle cor­ti­giane nien­te­meno che un agente di poli­zia. Vicenda che potrebbe incon­trare molti emuli tra i per­so­naggi dis­se­mi­nati in que­sto libro. Uno su tutti potrebbe essere Filippo Cur­letti, uomo di molte sta­gioni e pochi scru­poli, pro­ta­go­ni­sta dei moti che costrin­gono alla desti­tu­zione dei Lorena dal Gran­du­cato d’Austria. È lui, come rive­lerà anni dopo quando la sua sorte si sarà rove­sciata, a orga­niz­zare quelle dimo­stra­zioni popo­lari i cui pro­ta­go­ni­sti erano cara­bi­nieri tra­ve­stiti. Una guerra segreta, fon­data sulla con­tro­in­for­ma­zione, sull’induzione nell’opinione pub­blica di parole d’ordine che spon­ta­nea­mente, come in Toscana, sten­ta­vano a nascere con la dovuta propulsione. 
Ma tor­niamo ai fatti. Sul finire degli anni cin­quanta, men­tre si stanno coa­gu­lando le forze che daranno soste­gno e nerbo al pro­cesso uni­fi­ca­tore, l’autore rico­strui­sce già una com­pro­mis­sione tra forze dell’ordine e cri­mi­na­lità più o meno orga­niz­zata. L’obiettivo è l’infiltrazione, la sobil­la­zione e l’implosione delle isti­tu­zioni che gover­nano gli stati ita­liani, dai Bor­bone del Regno delle due Sici­lie al Ducato di Parma dove effet­ti­va­mente ini­zia il libro. 
Qui incon­triamo il primo per­so­nag­gio impor­tante e rive­la­tore. Si chiama Luigi Carlo Farini, patriota, medico e gior­na­li­sta, dopo la cac­ciata di Maria Luisa D’Austria dit­ta­tore dell’Emilia. Per sua volontà viene orga­niz­zata una vasta rete spio­ni­stica nelle cui maglie fini­scono quei maz­zi­niani che ancora spe­ra­vano in un corso diverso della storia. 
Le stra­te­gie di con­tro­in­for­ma­zione che erano ser­vite allo scopo di cac­ciare via gli occu­panti stra­nieri dalle regioni ita­liani, non spa­ri­scono con loro ma soprav­vi­vono si allun­gano anche sul gio­va­nis­simo stato uni­ta­rio. La zona gri­gia si allunga per tutti gli anni del governo della destra sto­rica, quando a più riprese verrà a ripro­porsi all’attenzione dell’opinione pub­blica il pro­blema della mafia, della camorra, e così via. 
La mala setta è un libro impor­tante, in sé ma anche in pro­spet­tiva, da cui si spera che altri stu­diosi pos­sano par­tire per appro­fon­dire e magari anche pro­se­guire lo stu­dio sul rap­porto tra cri­mine orga­niz­zato e Stato ma anche per tenerne fermo l’assunto impli­cito, che sem­bra sor­reg­gerlo e magari appli­carlo in altre epo­che e in altri contesti. 
Nel leg­gere infatti di tutti que­sti per­so­naggi che si appa­le­sano in que­ste pagine non si può non pen­sare ad altre sto­rie a noi più con­tem­po­ra­nee e ad altre zone gri­gie di cui sem­bra affol­lata la nostra para­bola sin dai pri­mordi dell’Unità d’Italia. 
Quanti sono stati gli agenti del dop­pio, tri­plo gioco in grado di infil­trarsi nello Stato non smet­tendo di essere quello che si è sem­pre stati, ovvero dei malan­drini? E quante volte lo Stato è venuto a patti con que­ste entità ser­ven­do­sene e poi mol­lan­dole, in un tra­gico bal­letto macabro? 
Poi c’è l’aspetto per così dire meto­do­lo­gico. Com­pito dello sto­rico è certo quello di met­tere assieme i fatti, ricom­porre un rac­conto secondo un ordine logico. Ma forse oggi, dopo decenni in cui si è insi­stito nella spe­cia­liz­za­zione, è neces­sa­rio riu­nire nuo­va­mente i saperi e dare alla sto­ria un respiro più ampio e ambizioso. 
È que­sto uno dei «mes­saggi»” che si intrav­ve­dono in un libro tanto godi­bile dal punto di vista della let­tura quanto pro­fondo dal punto di vista dell’indagine, dimo­strando che si può scri­vere dei libri da far leg­gere ad un pub­blico al di fuori delle acca­de­mie, man­te­nendo serietà e rigore.

La camorra? Nasce come settaIn un libro densissimo Franco Benigno racconta le origini del fenomeno mafioso in Sicilia e a Napoli, partendo da testimonianze che ricalcano i narratori francesi dell’800Pedullà Domenicale 3 1 2016
Il termine “andrangheta” deriva dal greco aner, andros (uomo) e testimonia, con la forza inoppugnabile delle etimologie, come la criminalità organizzata calabrese abbia origine negli antichi simposi dei liberi cittadini della Magna Grecia; analogamente, la parola “mafia” non è altro che la trascrizione del grido “ Ma fille” (figlia mia) con cui, di fronte alle reiterate violenze sulle ragazze del luogo, un padre chiamò i palermitani alla rivolta contro gli occupanti francesi nella celebre insurrezione dei Vespri siciliani del 1282... Pure leggende: come ben sanno gli storici. Ma siccome si tratta di temi scottanti per la nostra attualità e non di rado capita di sentire ancora raccontare in pubblico amenità del genere, persino da qualche magistrato antimafia, conviene ripeterlo una volta di più: la criminalità organizzata che oggi contende allo stato italiano il controllo di ampie porzioni della penisola non affonda tanto lontano le sue radici. E proprio per questo non è imbattibile.
Tuttavia la domanda mantiene intatto il suo fascino. Quando? E soprattutto: perché? Vogliamo, dobbiamo sapere. E ottimi studiosi si sono dedicati a questo tema in tempi recenti. Non è però direttamente da questi interrogativi che muove uno dei libri di storia più importanti degli ultimi anni: La mala setta. Alle origini di mafia e camorra (1859-1878), scritto da uno studioso sino a oggi internazionalmente apprezzato per i suoi lavori sulla politica barocca e sulle rivoluzioni di età moderna (Masaniello, il 1649 inglese e il 1789 francese). In quattrocento densissime pagine Franco Benigno sovverte gran parte delle nostre convinzioni sulla fase aurorale della criminalità organizzata, e lo fa con una mossa interpretativa che – sinteticamente – si può definire come il rifiuto dell’eccezionalismo siciliano e napoletano. Nella prospettiva di Benigno, infatti, gli inafferrabili primordi di mafia e camorra si lasciano mettere a fuoco solo a patto di allargare lo sguardo oltre i confini del Mezzogiorno d’Italia.
Gli storici che lavorano su questi argomenti hanno notato da tempo l’improvviso moltiplicarsi delle testimonianze su camorra e mafia negli anni immediatamente successivi alla Unità: reportage dalle tinte spesso assai fosche nei quali gli autori narrano la discesa nei bassifondi della città e la scoperta, grazie alla confessione di un “pentito”, delle regole con cui si autogoverna il mondo parallelo dei delinquenti, con le sue gerarchie, i suoi giuramenti e rituali, la sua suddivisione in arti e corporazioni secondo il modello delle professioni legali. Prove della esistenza di una setta dal potere tentacolare che arriverebbe a inquadrare decine di migliaia di persone e a controllare ogni snodo della vita di Napoli e Palermo.
Anche Benigno parte da questi testi, ma opera un duplice scarto. Anzitutto ha gioco facile a mostrare come simili coloritissime testimonianze ricalchino in maniera inequivocabile i racconti dei grandi narratori francesi del primo Ottocento sul mondo del crimine, dai romanzi di Balzac, Victor Hugo ed Eugene Sue (I misteri di Parigi) alle famose memorie dell’ex galeotto e poi commissario di polizia Vidocq. La rappresentazione di un mondo popolare al confine tra accattonaggio e delinquenza offerta da queste opere ha goduto di un successo considerevolissimo in Europa, al punto di sentire ancora nel cinema degli anni Trenta, da René Clair (Il milione) a Fritz Lang (M. il mostro di Dusseldorf). Ora, nota Benigno, situazioni, atmosfere e singoli dettagli corrispondono troppo perfettamente perché non si riconosca anche nelle prime testimonianze su camorra e mafia il segno inequivocabile di un simile immaginario romanzesco.
Il passo davvero decisivo de La mala setta è però quello successivo. Benigno mostra come il rapido imporsi della nuova interpretazione del mondo del crimine napoletano all’indomani del 1860 non sia affatto casuale. Se in pochi anni la tradizionale immagine dell’indolente “lazzarone” napoletano è stata cancellata da quella del “camorrista” è perché il modello romanzesco importato dalla Francia si rivelava particolarmente funzionale alla politica repressiva della Destra storica. Le plebi di Napoli e Palermo avevano dato un contributo militare straordinario all’impresa garibaldina e i reduci della spedizione, animati da sentimenti democratici e spesso repubblicani, costituivano un tenace focolaio di opposizione alla piega moderata che il movimento risorgimentale aveva preso dopo l’annessione al regno dei Savoia. Di fronte all’obiettivo pericolo che queste masse cittadine incarnavano per la monarchia, i modelli romanzeschi francesi potevano servire a due scopi intrecciati tra loro: vale a dire a derubricare gli attivisti politici e in particolare i membri della (disciolta) Guardia nazionale di Garibaldi a semplici delinquenti comuni, e a creare il consenso per una politica di repressione urbana analoga a quella contro il brigantaggio nelle campagne, adombrando lo spauracchio di un’oscura minaccia politico-criminale. Come infatti nota Benigno (da ottimo conoscitore dei trompe-l’oeil barocchi), a seconda della lente adoperata gli stessi personaggi ci vengono incontro come eroici patrioti in camicia rossa non ancora rassegnati alla involuzione del 1861 o come pericolosi delinquenti comuni.
Benigno mostra facilmente come in questa prima fase le medesime retoriche messe in campo contro camorra e mafia siano adoperate dalla stampa governativa e dalle forze di polizia per descrivere e contrastare anche le presunte associazioni a delinquere attive nelle altre parti d’Italia dove più forte era la tradizione repubblicana, come nel caso della “Balla” di Bologna (una ipotetica associazione di malfattori accusata dei più diversi delitti). Rileggendo le prime testimonianze su mafiosi e camorristi alla luce della riflessione sull’oggetto sicuramente più incandescente della scienza sociale ottocentesca – le così dette “classi pericolose”, vale a dire quei settori miserabili del popolo presso i quali più facilmente poteva trovare ascolto la propaganda radicale – Benigno reintegra così la storia del crimine organizzato nella storia politica e sociale europea alla luce della “grande paura” scatenata in tutto il continente dall’avanzata del movimento socialista (particolarmente dopo gli eventi della Comune parigina del 1870).
Le tesi di Benigno traggono ovviamente forza dall’imponente scavo archivistico che le sorregge. I lettori si divertiranno a scoprire, per esempio, che all’origine della rappresentazione della camorra come società segreta dalla ramificazione tentacolare incontriamo niente meno che Alexandre Dumas figlio: in una prima fase sostenitore dei garibaldini, ma presto destinato a spostare su posizioni sempre più filogovernative il quotidiano da lui fondato a Napoli, «L’Indipendente» (è a lui che dobbiamo infatti, nel marzo del 1862, la prima descrizione dettagliata della setta della camorra). E la pagina in cui Benigno estrae dall’Archivio di Stato di Napoli la “pistola fumante” che lega le prime ricostruzioni leggendarie della “mala setta” all’attività di “disinformazione” della polizia di Silvio Spaventa e del ministro degli Interni Marco Minghetti è senza dubbio una delle più esplosive dell’intero libro.
Se Benigno ha ragione, solo successivamente camorra e mafia si sono date l’organizzazione verticistica per cui oggi risultano così temibili. La mala setta non ci dice come e quando ciò è avvenuto (e, sbagliando, qualche lettore potrebbe esserne deluso). Questo non vuol dire però che il libro manchi di una pars costruens, ma solo che – significativamente – questa non riguarda tanto la nascita della criminalità organizzata quanto il difficile processo di formazione dello stato nazionale contro alcuni dei suoi propugnatori. La mala setta ci chiede insomma di fare i conti con la criminalizzazione delle “classi pericolose” (non solo meridionali) come tassello essenziale di una strategia di controllo dei ceti popolari, in una fase di instancabile attivismo garibaldino, repubblicano e anarchico. In cambio però ci dà moltissimo: perché alla fine, anche da questo punto di vista, la Napoli di Spaventa e Minghetti si rivela assai meno distante dalla Parigi del barone Haussmann di quanto non continui a ripetere un discorso pubblico troppo spesso incapace, ancora oggi, di affrancarsi del tutto dal mito della costitutiva diversità meridionale.

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