Sull’altro piatto, Renzi continua la riforma Gelmini con gli stessi mezzi e con una retorica molto aggressiva. «Dobbiamo togliere l’Università dal perimetro della pubblica amministrazione perché non si governa l’università con gli stessi criteri con cui si fa appalto in una Asl o un comune — ha detto — È necessario scommettere su criteri dove il modello universitario possa essere Boston o università inglesi o in Oriente».
***La storia: E se Renzi assumesse 500 ricercatori per farli fuggire dall’Italia?***
Che cosa, in realtà, significhi “togliere università dal perimetro pubblica amministrazione” non è affatto chiaro, dato che l’università non è governata come una Asl o un comune, ma dall’autonomia degli organi eletti dalla comunità accademica e dai lavoratori e studenti che un governo come quello di Renzi si presuma conosca. L’illusione «americana» degli spaghetto-liberisti che dominano la scena universitaria è di respiro corto. Esiste una differenza sostanziale tra l’Italia e gli Usa. Il fondo dei nostri atenei ammonta a meno di 7 miliardi di euro. Solo il Mit di Boston riceve 2,5 miliardi di fondi pubblici. Quello che manca in Italia non sono gli investimenti dei privati, ma l’intervento statale come negli Usa.
In queste condizioni, uscire dal diritto amministrativo per gli atenei significa privatizzare il sistema universitario» sostiene Alberto Campailla, portavoce degli studenti di Link. Altro esempio: Harvard University ha un bilancio di 36,4 miliardi di dollari, quella di Bologna ha entrate da 750 milioni e uscite per 736. È come se Giannini avesse scoperto oggi la bicicletta mentre gli altri viaggiano in aereo, a proposito di alta velocità della conoscenza» ironizza Domenico Pantaleo, segretario della Flc-Cgil. Con una costante: la legge di stabilità non mette un euro sul diritto allo studio. «L’uscita dalla pubblica amministrazione completa il quadro — continua il sindacalista — Renzi non sa che il problema dell’università non è l’essere soggetto pubblico. Sono tutte le norme introdotte dal 2008 in poi e in particolare la riforma Gelmini ad aver ingessato gli atenei». «Il governo toglie l’Imu anche sulle grandi proprietà, contrae il diritto allo studio e destina risorse esigue a scuola e università. Tutt’altro che andare orgogliosi» sostengono Alberto Irone della Rete Studenti Medi e Jacopo Dionisio dell’Udu.
Nel paese che in dieci anni ha perso 100 mila studenti immatricolati, studia chi se lo può permettere. E chi fa ricerca? Deve pagare per lavorare, come i dottorati senza borsa. «Comprendiamo il legittimo orgoglio con cui il Ministro Giannini rivendica l’aumento del numero dei contratti di formazione specialistica dei medici, grazie a un incremento di 429 milioni di euro, dal 2016 al 2020, delle risorse destinate — sostengono i dottorandi dell’Adi — Riteniamo tuttavia che tale orgoglio sarebbe potuto essere più pieno e giustificato se si fosse risolto anche l’annoso problema del dottorato senza borsa. Oltre 2.000 colleghi per ogni ciclo non percepiscono alcun sostegno economico per il loro percorso e sono costretti a pagare tasse che possono arrivare fino a 2.000 euro l’anno». Vuoi fare ricerca in Italia? Paga.
Lo spot di Renzi sui 500 prof dall’estero: e tutti gli altri?
“Nella legge di stabilità – ha detto il premier – ci sarà una misura ad hoc per portare in Italia 500 professori universitari anche italiani. Un modo per attrarre i cervelli con un concorso nazionale basato sul merito e gli diamo un gruzzolo per progetti di ricerca”.
L’annuncio è sembrato una pagliacciata, una gaffe, un pannicello. «Confonde il rientro degli studiosi dall’estero con la tornata dei concorsi nazionali e crea l’ennesimo pasticcio di cui non c’è bisogno» spiega Mimmo Pantaleo (Flc-Cgil). «Renzi manca totalmente di consapevolezza sulle priorità dell’università» afferma Dionisio (Udu). «Sono chiacchiere — sostiene Campailla (link) — Serve un intervento di risorse sull’Ffo, sul diritto allo studio ee la questione dell’Isee che esclude il 30% degli studenti aventi diritto, sul reclutamento di ricercatori e docenti, il rinnovo del contratto dei tecnici amministrativi». «Il rientro dei ricercatori era una misura contenuta nel piano nazionale delle riforme nel Def, ma non basta: bisogna prevedere un piano straordinario di reclutamento che rimedi ai 10 mila pensionamenti che non sono stati sostituiti». Gaetano Manfredi, presidente della Crui denuncia il cronico sottofinanziamento degli atenei e il blocco del turn-over. Forza Italia boccia la proposta: «Ci sono oltre mille abilitati in attesa del concorso. Renzi pensi a loro».
Il 97% dei ricercatori è stato tagliato (In Italia)
Reazioni giustificate alla luce dei dati. In Italia le assunzioni sono bloccate dal 2007, il sistema è al collasso con una riduzione dal 2009 del 22% dei professori universitari, negli ultimi dieci anni è stato tagliato il 97% dei precari e le immatricolazioni sono diminuite dalle 340mila del 2003–2004 alle 260mila del 2013–2014. Secondo alcuni dati ricavati dall’indagine in corso «Ricercarsi», gli assunti sono stati solo il 6,7%. Non solo: nel 2014 l’università italiana è «dimagrita» di 2183 docenti e ricercatori. A fronte di 2324 pensionamenti sono stati attivati solo 141 ricercatori «di tipo B». Centoquarantuno. Nel frattempo sono aumentati i precari, le figure che permettono alle facoltà di sopravvivere. Gli assegni di ricerca attivati annualmente sono passati da circa 6 mila nel 2004 a oltre 14 mila nel 2014. Quest’anno la legge Gelmini provvederà a tagliarli: quelli attivati nel 2011 hanno infatti un limite massimo di 4 anni. Tra poco niente altri ricercatori diventeranno disoccupati. Stessa sorte toccherà nel 2015 per i contratti da ricercatori a tempo determinato di «tipo A». Anche loro sono in scadenza secondo i parametri della legge 240 del 2010.
Vuoi fare il dottorato? Paga!
Vogliamo parlare dei dottorandi? I giovani di cui tanto si parla, e tanto stringono il cuore? Ecco i dati. Nove atenei (sui 59 censiti) hanno aumentato tasse e contributi ai dottorandi che hanno vinto una borsa di studio. Al primo posto della classifica stilata dall’Adi risulta l’università della Basilicata con 1072,48 euro, segue l’università Politecnica delle Marche con 1051,38 euro (+743%), poi Parma (880), Ferrara (600), Bergamo (500), Siena (440) Sassari (379), Piemonte Orientale (346), Palermo (345) e Pavia (293). C’è poi lo scandalo dei «vincitori senza borsa». Oltre alla paralisi burocratica, e alla morte per asfissia da tagli, la riforma Gelmini ha peggiorato l’esistenza dei dottorandi che pagano per fare ricerca. Secondo l’Anvur, tra il 2003 e il 2013 queste figure erano più della metà dei dottorandi: tra il 55 e il 57%. Il boom è stato provocato dalla riforma che ha eliminato il limite massimo dei «senza borsa». Per fermare il ricorso a questi bandi il Ministero dell’Istruzione e dell’università è stato costretto a tornare sui suoi passi fissando al 75% il numero minimo di borse di studio pagate per ogni corso di dottorato.
Per l’Adi questa misura non ha cambiato la situazione. L’università di Salerno, ad esempio, chiede ai ricercatori senza borsa 1875 euro all’anno per i tre anni della durata del dottorato. Seguono Roma Tre con 1763 euro, il Politecnico di Milano con 1640 euro, lo Iuav a Venezia con 1608 euro, La Sapienza (1543), il Politecnico di Torino (1459), l’università mediterranea di Reggio Calabria (1418), la Magna Grecia di Catanzaro (1277), Pisa (1241) e Firenze (1209). L’Adi registra anche casi in cui la tassazione per i senza borsa è diminuta come a Sassari (-78,49%, da 520,75 nel 2012/13 a 112 euro nel 2013–4).
I 500 prof? E’ il neoliberismo, baby.
In attesa della “Buona Università” annunciata, tra mille dubbi e altrettante incertezze, le parole di Renzi non dovrebbero stupire. Se stupisce, allora conviene ribadire il piano politico sul quale si muove. Nel discorso al Politecnico di Torino, tenuto nel febbraio 2015, Renzi ha chiarito cosa intende fare: 1) distinguere università di serie A e B 2) gestione delle università come aziende sul mercato; 3) fare come la Germania.
A parte quest’ultimo punto, insensato e rivelatore del provincialismo di Renzi e della “classe dirigente” che si specchia in lui, in questo progetto è normale chiamare dall’estero 500 persone senza concorso, mediante una selezione “meritocratica” che non sarà tale e nemmeno efficiente (tutti i programmi di rientro dei cervelli sono falliti). Ed è normale mandare al macero i ricercatori, precari e abilitati, che resistono in Italia.
E’ la fotografia del mercato globale del lavoro della ricerca. Esiste ormai un mondo che vive di fondi milionari europei, e anche italiani, che vincono progetti e portano le risorse in Italia. negli atenei ormai morti e desertificati. La vittoria dei bandi, pochi ma ricchissimi di risorse, permette a questa classe globale di scegliere il paese e l’ateneo dove insediarsi e sviluppare la loro ricerca. Gli atenei non possono che ringraziare, perché quelle risorse per loro sono una manna che non riceveranno mai dallo Stato. E che Renzi non può, e non vuole, dargli. Sono i ricercatori, inseriti nelle reti globali, a finanziare gli atenei con il loro lavoro. Sono manager che lavorano da interfaccia con i miliardi di euro e dollari che circolano nel mondo e la miseria degli atenei — soprattutto italiani.
Il battaglione dei 500 che Renzi vuole arruolare appartengono a questo nuovo mondo della ricerca? Non è dato, al momento, saperlo. Ma ammettiamo che lo siano. Rifiuteranno la proposta di Renzi. Non c’è alcuna convenienza, nè razionalità, nell’accettare una simile proposta per tornare in un paese dove l’università agonizzante, burocratica, baronale. Con un po’ di fortuna, e competenza, questi ricercatori si fermeranno in altri paesi capaci di assicurargli un destino più che dignitoso. Nel caso in cui, invece, il progetto renziano sia rivolto a queste persone? Si sta pensando di realizzare un ricco fondo destinato solo al mercato globale — e non ai ricercatori precari autoctoni? Potrebbe essere una traccia, che invererebbe le velleità neoliberiste del premier. Con un certezza: una volta terminati i fondi, i 500 andranno via dall’Italia. E all’università non resterà nulla. Un’ideona: ma conforme alla divisione mondiale del mercato della ricerca. In questo mercato, l’Italia è assolutamente periferica.
In questo caso due generazioni di ricercatori precari, e con essi la riforma gelmini che li ha resi “abilitati” saranno bruciati. C’è anche un’altra soluzione: che Renzi stanzi le stesse risorse per mandare all’estero i precari e gli abilitati. A pensarci bene, potrebbero essere ambasciatori del Made in Italy nel mondo. Come farinetti di Eataly
Il Resto Del Carlino Bologna - Pagina: 14
23 ottobre 2015
«Atenei convertiti in fondazioni» Puglisi: così tagliamo la burocrazia
ROMA
«PER L’UNIVERSITÀ non serve una riforma strutturale come avvenuto per la scuola. Ci sono da fare interventi urgenti, alcuni dei quali già contenuti nella Legge di Stabilità, poi ci vorrà una visione di sistema complessiva». Francesca Puglisi, responsabile della Scuola del Pd, sta lavorando al progetto di Nuova Università.
Il premier ha parlato di 500 cervelli da assumere al volo...
«Non ci sono soltanto loro, i cosiddetti superdocenti. C’è anche un piano, già previsto nella Legge di Stabilità, per l’assunzione di 1.000 ricercatori. È un bel segnale dopo anni e anni di tagli».
Entreranno per concorso?
«Secondo le normative attualmente vigenti. È un’importante iniezione di risorse. Poi c’è da lavorare sulla visione d’insieme e per questo ci incontreremo a Udine».
Cioè?
«Il 23 e il 24 (oggi e domani per chi legge ndr) due giorni di confronto con tutti gli attori del sistema, dal ministro Giannini ai sottosegretari ai rettori, ai ricercatori. Tutti divisi in gruppi di lavoro per disegnare la strada».
Argomenti clou?
«Per esempio quello sul sistema di reclutamento che deve essere semplificato. Attualmente il percorso pre-ruolo dei ricercatori è pieno di ostacoli».
Parla dell’introduzione della figura unica del ricercatore?
«Forse, ma vogliamo capire che cosa porterà il confronto».
Sui 500 si deciderà a Udine?
«Si tratta di figure che dovranno valorizzare i nostri atenei, italiani o stranieri non ha importanza».
Assunti a chiamata diretta?
«Si sta studiando. Le modalità sono ancora da stabilire».
Autonomia degli atenei?
«Mi piace chiamare tutto questo piano Sblocca Università, proprio per dare il senso di quanto sia stata ‘fermata’ negli ultimi anni. Gli atenei del futuro obbediranno a regole di budget con relativi controlli. E basta».
È l’idea di privatizzazione?
«Ci sono due scuole di pensiero: una che prevede di tramutare immediatamente tutte le università in Fondazioni. Lo potremmo fare domattina. L’altra che vuole arrivare allo stesso risultato, abrogare tutti i vincoli legati alla pubblica amministrazione, e presuppone un intervento legislativo di ‘esclusione’. Ogni norma riferita alla p.a. se non cita università e ricerca non vale».
Quanto pesano gli studenti in questo piano?
«Ne sono il fulcro. Si dovrà rivedere il sistema relativo al diritto allo studio. Non tutte le regioni si comportano allo stesso modo nella gestione dei fondi statali destinati a sostenere i meritevoli».
E i prof?
«Negli atenei c’è la necessità dell’innovazione didattica e di una maggiore integrazione con il mondo del lavoro».
Cioè i docenti saranno valutati?
«Saranno valutati docenti e atenei e di queste valutazioni si terrà conto nell’assegnazione dei fondi di finanziamento ordinario. Anche i professori non potranno più basarsi solo sulla produzione scientifica. Dovranno dimostrare capacità di rinnovare la didattica. E il loro rendimento sarà stabilito anche dall’indice di occupazione degli studenti una volta laureati».
Il Resto Del Carlino Bologna - Pagina: 14
23 ottobre 2015
Più soldi alle facoltà migliori. E il Governo assume mille ricercatori
Silvia Mastrantonio
ROMA
«BARONI» sotto schiaffo. La nuova università, quella Buona di Renzi&Co, non andrà troppo per il sottile nei confronti dei docenti che dovranno assicurare, tra cattedra e laboratorio, almeno 120 ore di didattica l’anno. E la valutazione degli atenei passerà anche da loro, gli insegnanti, e dalla capacità di innovare la didattica. Saranno giudicati per quanto fanno e anche per il tasso di occupazione dei giovani usciti con il famoso «pezzo di carta», a un anno, due o tre di distanza.
Renzi l’aveva promesso: il fitto calendario delle riforme non lascerà fuori l’università. «Che – aveva detto il premier parlando a Ca’ Foscari – non si può governare con gli stessi criteri con cui si fa un appalto per una Asl o un Comune». «Bisogna scommettere – aveva aggiunto – su criteri dove il modello universitario possa essere Boston, le università inglesi o alcune d’Oriente».
Idee e ipotesi che stanno per diventare realtà e che oggi e domani saranno al centro di un vertice a Udine. Tutto dedicato agli atenei del futuro.
AL MOMENTO il valore legale del titolo di studio non è argomento all’ordine del giorno ma la bozza della rivoluzione universitaria tiene la barra dritta sugli «indicatori premiali», ovvero il metro secondo il quale lo Stato sgancerà soldi per ogni singolo ateneo. Funzioni: prendi finanziamenti. Stenti: ti vengono ridotti. In quegli «indicatori» avranno un peso specifico la qualità della didattica, l’innovazione, i servizi per gli studenti. In più, per dare un’iniezione di ottimismo, il governo ha deciso di inserire nella Legge di Stabilità i fondi per l’assunzione di 1.000 ricercatori ai quali si aggiungeranno i 500 cervelli – italiani o stranieri, senza distinzioni – che il premier vuole sistemare in cattedra per dare lustro e consistenza all’offerta. Probabilmente a «chiamata diretta».
Per arrivare al nuovo impianto, però, occorreranno alcuni aggiustamenti legislativi. Se per i 1.000 la Legge di Stabilità impegna i soldi e altrettanto fa per i 500 – con criteri normativi ancora da scrivere – il problema vero sarà quello di sradicare le università e i loro docenti dal recinto della pubblica amministrazione. Le strade possibili sono due: la trasformazione degli atenei in Fondazioni, oppure un intervento normativo che svincoli il settore dai lacciuoli amministrativi che non ne prevedano espressamente il coinvolgimento. E, ancora, diritto allo studio e nuove norme sugli aiuti agli studenti (borse di studio); semplificazioni della professione con l’introduzione di una figura unica di ricercatore (ora gli inquadramenti sono 5) con un contratto a tutele crescenti in atto con il Jobs Act.
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