Forse perché sono esposte tutte insieme, non tanto per l’ovvio valore artistico, quanto per il soggetto, nella grande prima mostra dedicata agli anni del trionfo mondano del meretricio e poi del suo oscurarsi nel disprezzo di una società sempre più misogina, moralista e spaventata dalla sifilide. Titolo ispirato a uno dei romanzi della
Commedia Umana di Honoré de Balzac, Splendeurs et misères des courtisanes , col sottotitolo Images de la prostitution 1850-1910 , il periodo in cui raddoppiando la popolazione parigina, aumentarono le ragazze che non potevano sopravvivere con i miserabili guadagni di lavandaia o fioraia e di notte scendevano in strada, nella luce dei lampioni a gas o ai tavoli dei caffè, e gli uomini che potevano pagare come un maschio trofeo il corpo stanco di quelle donne e soprattutto di quelle fanciulle.
Le cocotte erano una parte importante della società, tollerate o addirittura ritenute necessarie per consentire all’irrefrenabile lussuria maschile una sfogo fuori casa, dove la famiglia era santificata e la moglie relegata al ruolo procreativo e mondano, salvandola dal peccato del piacere. Il responsabile della ricca e puntigliosa selezione è Richard Thomson dell’Edinburgh College of Art, mentre la sua spettacolarità l’ha curata Robert Carsen, celebre regista d’opera, che è riuscito a trasformare la mostra in un racconto di umanità inquieta e sfrenata svelata dall’arte: con una stanza proibita ai minorenni, invasa da drappi di velluto rosso, tappezzata da foto d’epoca davvero oscene, e un’altra molto ammirata dove troneggia la “poltrona dell’amore”, un congegno ricoperto di broccato per fare l’amore con due donne contemporaneamente.
Era stato costruito da brillanti artigiani francesi alla fine dell’Ottocento, appositamente per il principe di Galles, figlio della Regina Vittoria e futuro re Edoardo VII. La mostra è interessante e impudica, e lascia molti visitatori turbati: non per l’esibizionismo sessuale, ma perché tutte quelle donne nude, troppo grasse o troppo magre, talvolta segnate dalla sifilide, quasi sempre a gambe spalancate e gettate sul fianco del letto, non emanano piacere ma sfinimento e desolazione. Non è il moralismo a turbare, ma quella folla di donne spogliate di abiti e dignità, di quegli uomini mai svestiti, sempre difesi dal nero abbigliamento: monotone immagini di potere e sottomissione, di incolmabile lontananza tra l’essere uomo e l’essere donna; ma anche tra l’essere una “femme soumise”, registrata dalla polizia e sottoposta a continue visite mediche, o una “femme insoumise”, che vaga illegalmente per le strade; e una “grande horizontale”, una cortigiana che si prostituisce nello sfarzo, mantenuta da importanti protettori, ma esclusa dalla rispettabilità. Le più celebri di quegli anni erano Valtesse de la Bigne che proteggeva Liane de Pougy, Apollonie Sabatier, che Clésinger ritrasse in una statua molto impudica, La Païva che viveva in un palazzo di marmo decorato di onice e oro, Aglae-Josephine Savatier, amata dagli intellettuali come Baudelaire, Flaubert, Delacroix, Sainte-Beuve, Marie Duplessis, adorata da Liszt e da Dumas fils che la immortalò come Marguerite Gautier. Nella realtà queste sublimi cortigiane sposavano spesso duchi e banchieri, oppure morivano giovanissime, come preferivano i moralismi e i romanzieri, di tisi, come la Duplessis o di va- iolo,come la Nanà di Émile Zola; che dà il titolo anche a un quadro di Manet in cui una deliziosa fanciulla con addosso solo biancheria candida, si guarda in un piccolo specchio mentre un omone seduto, ovviamente vestito, la scruta. Nessun uomo importante si negava una grande horizontale da mantenere sontuosamente, quella di Napoleone III era Marguerite Bellanger.
La prostituta di ogni livello era diventata a metà Ottocento il soggetto femminile più “moderno” e persino romantico, per scrittori e artisti e pure per i caricaturisti. C’era la curiosità di capire, per le strade e nei caffè, quali dame erano per bene e quali no; trascurate le prime, gli artisti privilegiavano ritrarre belle signore elegantemente vestite, che sollevavano impercettibilmente la gonna per mostrare gli stivaletti abbottonati, che avevano uno sguardo invitante, che sedevano sole nei caffè. Fondamentale fu l’ Olympia di Manet che risplende in questa mostra, quel bianco corpo invitante (che apparteneva all’amante dell’artista, la diciassettenne Victorine Meuret), fu rifiutato dal Salon del 1865 non per la nudità quanto per lo sguardo insolente, di sfida della ragazza e per i vistosi simboli del mestiere, un fiore tra i capelli, una gatta sul letto (chatte, è un sinonimo del sesso femminile).
Scivolando verso il nuovo secolo, gli artisti idealizzano sempre meno le cocotte: il Picasso dei primi anni del Nivecento dipinge in blu una donna ripiegata su se stessa, Toulouse-Lutrec sceglie una ragazza che salendo le scale mostra il sederone nudo, Munch racconta un Natale in un bordello, Forain riprende un cliente che deve scegliere fra tre nude pancione che sventolano dei marabu, Rouault e Van Gogh dipingono volti femminili stremati e disperati: non più fascino, grazia, mistero, ma disperazione, solitudine, violenza. Forse in quegli anni a cavallo dei due secoli gli artisti cominciavano a percepire la condizione tragica delle donne in vendita, ma ciò che eccitava la loro virilità erano soprattutto quelle calze nere o cremisi che si fermavano sopra il ginocchio di un corpo nudo e sfatto, quella moltitudine di folto pelo pubico che tutti dipingevano con una passione (artistica) assatanata.
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