Angus Deaton: La grande fuga. Salute, ricchezza e le origini della disuguaglianz, Il Mulino, Bologna, pagg.384, € 28,00
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La disuguaglianza? Un carburante necessario
L’Accademia reale svedese delle scienze ha assegnato il premio Nobel 2015 per l’Economia allo scozzese Angus Deaton, docente negli Stati Uniti presso l’Università di Princeton, per i suoi studi dedicati all’analisi dei consumi, della povertà e del benessere.
Lo scozzese che ha scoperto di quanti soldi è fatta la felicità Premiato Deaton per gli studi su consumi e povertà. Il suo celebre «paradosso»: la diseguaglianza aiuta lo sviluppo ma guai a guadagnare più di 75mila dollari 13 ott 2015 Libero UGO BERTONE
Troppi soldi, si sa, non fanno la felicità. Ma la povertà nemmeno. Nel 2010 l’economista Angus Deaton, scozzese trapiantato all’americana Princeton University, avvalorò questa pillola di comune buon senso con un accurato esame microeconomico: un migliaio di americani per due anni si sottopose a un sondaggio quotidiano fondato sulle aspettative di reddito e la felicità. Al termine dell’esame Deaton, assieme al collega Daniel Kahneman, il padre della finanza comportamentale, individuò la soglia della felicità in 75 mila dollari annui: sotto quella cifra gli individui erano alle prese con la difficoltà di far quadrare i bilanci familiari. Ma, una volta varcata la soglia, diminuiva progressivamente la felicità dei soggetti. Nasce così il «paradosso di Deaton»: oltre una certa soglia di reddito l’attitudine al consumo non cambia.
Non è cero solo questa la ragione che ha spinto l’Accademia delle Scienze di Stoccolma a tributare ieri a Deaton il premio Nobel per l’Economia che, tra l’altro, gli frutterà 860 mila euro (speriamo non gli provochino un attacco di infelicità). Ma è un buon esempio del metodo e dei risultati raggiunti dallo studioso, 69 anni, con un formidabile lavoro di ricerca sul campo concentrato la sua analisi su tre aspetti: come i consumatori distribuiscono la loro spesa su prodotti diversi, quanto di ciò che si guadagna viene speso e quanto risparmiato, qual è il modo migliore, infine, per valutare e analizzare il benessere e la povertà. Un lavoro di fino, condotto con l’obiettivo di individuare un modello di domanda «quasi ideale» per i consumi. Deaton si è spinto così a misurare «il rapporto tra il reddito e le calorie consumate» o le dimensioni della discriminazione sessuale nelle famiglie. La ragione di questi sforzi? Solo una volta capite le ragioni delle scelte individuali di consumo, sarà possibile elaborare una politica adeguata per lottare contro la povertà.
Nel suo libro La grande fuga Deaton affronta il tema della povertà e dei limiti delle varie strategie per combatterla. Lo studioso, che non appartiene al partito dei catastrofisti («Le cose stanno migliorando», sottolinea in più passaggi), avanza alcune proposte: le aziende farmaceutiche dovrebbero essere incentivate in vari modi a concentrare gli sforzi su malattie dei Paesi poveri, come la malaria. E sarebbe necessario un grande piano per finanziare gli studi in Europa e negli Stati Uniti dei giovani dei Paesi emergenti. In sintesi, basta con le politiche di assistenza che servono solo a calmare la coscienza dei Paesi più ricchi.
Deaton non trascura il tema dell’ineguaglianza all’interno delle società ricche. Ma, a differenza di quel che sostiene Thomas Piketty, lo studioso scozzese è convinto che, così come è accaduto negli ultimi decenni, il progresso tecnico e il miglioramento delle economie permetteranno di affrontare e risolvere il problema.
Insomma, Stoccolma ha voluto premiare uno scienziato pratico, rigoroso e non ideologico, che da sempre si occupa del problema della povertà. A partire dall’atteggiamento degli individui verso i consumi. Una ricerca “laica”, condotta senza pregiudizi ideologici o la presunzione di imporre regole dall’esterno, ma frutto di un approccio rispettoso degli individui. Il che, in tempi di migrazioni bibliche, può servire ad affrontare l’emergenza con più metodo e meno paure. «Più di chiunque altro», recita la motivazione del Nobel, «Deaton ci aiuta a capire: legando scelte individuali e risultati collettivi, la sua ricerca ha allargato gli orizzonti della microeconomia, della macroeconomia e dell’economia dello sviluppo». Una ricetta che non produrrà miracoli, ma che sembra andare nella giusta direzione. O almeno così si spera.
Riconoscimento allo scozzese Angus Deaton, esperto di welfare, consumi e diseguaglianze sociali
“Ho passato la vita per fare del mondo un posto migliore. L’economia deve rispondere ai bisogni della gente” “Le leggi le fanno spesso i ricchi e tutti gli altri debbono obbedire”intervista di Eugenio Occorsio Repubblica 13.10.15
ROMA «È tutta la vita che rifletto sul modo per fare del mondo un posto migliore. La ricca America che riesce ad azzerare le spaventose diseguaglianze al suo interno. La grande Europa che risolve il problema dei migranti. Paesi immensi come l’India che riescono a trasferire sulla loro popolazione che muore di fame le mirabolanti cifre di aumento del Pil ogni anno. E devo dirvi che c’è ancora tanto, tanto da fare». Angus Deaton, economista scozzese formatosi a Cambridge, docente di Affari internazionali a Princeton, New Jersey, insignito ieri del premio Nobel per l’economia, accoglie mite e timido la folla di cronisti e studenti accorsi ad ascoltare il suo pensiero. Che era già noto e rispettato perché il suo ultimo libro,
The great escape (uscito da poco in Italia dal Mulino con il titolo La grande fuga ) illustra gli studi sui consumi, sulla povertà, sul welfare, sulle diseguaglianze, che gli hanno dato grande popolarità e infine gli sono valsi il Nobel a 71 anni. Ma Deaton non si stanca con orgoglio e passione di ribadire quanti sforzi ancora servono. Ecco alcune risposte alle domande della conferenza stampa.
Professore, dopo tanti studiosi dei mercati e delle delle variabili macroeconomiche, con lei viene premiato uno studioso delle diseguaglianze attento alle dinamiche sociali. Che effetto le fa?
«Dopo che alle 6 mi aveva svegliato una voce dall’inconfondibile accento svedese, ho ricevuto tantissime telefonate di congratulazioni. E io rispondevo: per cosa? Ancora devo darmi dei pizzicotti per realizzare che non è un sogno. Vedete, è la dimostrazione che in un istituto in gran parte pubblico (Deaton insegna alla Woodrow Wilson School che ha un regime speciale rispetto all’intera Princeton che invece è privata,
ndr) è possibile raggiungere livelli d’eccellenza, che il Nobel non si vince solo nella grandi università. Con me ha vinto tutto l’istituto, e di una cosa sono felice più di tutte: sembrava che l’economia con la sua freddezza avesse soppiantato la filosofia, la storia, la cultura, la sociologia, la demografia, e invece no. Ecco la dimostrazione che è esattamente il contrario. L’economia non deve essere mai una scienza fredda, deve essere prima di tutto attenta ai bisogni della gente. Noi nel nostro istituto ci ispiriamo a questo principio».
Nell’anno di papa Francesco, dopo che è stato attribuito il Nobel a tre medici (Campbell, Omura e Youyou Tu) che lottano contro le malattie causate dalla povertà, viene premiato lei che ha fatto della lotta alla povertà una missione. Servirà a qualcosa?
«Me lo auguro con tutto il cuore. Forse ora ci metterei meno tempo a convincere la Banca Mondiale che non aveva senso tenere il livello per definire la povertà a 1,25 dollari al giorno. L’hanno portato a 1,90: certo, così ci sono più poveri ma è più realistico. Settecento milioni di persone lottano ogni giorno per sopravvivere, è inaccettabile. Così come non smetterò mai di battermi contro il fatto che in America, in Europa, in terre di apparente democrazia, le leggi le fanno molto spesso i ricchi e tutti gli altri debbono obbedire».
Lei non viene da una famiglia ricca, questo l’ha aiutato a sviluppare una particolare sensibilità?
«Mio padre era un minatore che non era andato più a scuola dopo i 12 anni. Io ero l’unico di tutta la famiglia che leggeva un libro a casa, ma lui mi ha sempre appoggiato. Sono riuscito a studiare a forza di borse di studio. Non dico che ognuno debba fare un’esperienza di povertà per migliorare, ma forse, chissà, un contributo alla volontà c’è stato».
Il premio Nobel per l’Economia allo scozzese Deaton, esperto di consumi e povertàintervista di Paolo Mastrolilli La Stampa 13.10.15
«Il rallentamento della crescita economica nel mondo ricco, a partire dall’Europa anche prima della crisi finanziaria, è una delle minacce più gravi che abbiamo davanti». E’ l’allarme che lancia il professore della Princeton University Angus Deaton, poco dopo aver ricevuto il premio Nobel per l’economia. Deaton parla via streaming dall’auditorium della sua università, e la prima domanda a cui risponde è quella che gli abbiamo inviato noi via mail. Di recente lei ha detto: «Il mio messaggio generale, le mie misurazioni, tendono a mostrare che le cose stanno migliorando, ma c’è ancora molto lavoro da fare».
Questo miglioramento è vero anche per l’Europa, e qual è il lavoro che il Vecchio continente deve ancora fare per ottenere una crescita economica più forte?
«E’ vero che ho passato parecchio tempo a dimostrare come il mondo stia diventando un luogo migliore. Durante gli ultimi 250 anni l’umanità si è trasformata dall’essere una entità vicina alla povertà estrema, a una società dove molti di noi vivono vite più ricche e possono esprimere al meglio i propri talenti e le proprie capacità. Però enfatizzo anche che c’è ancora molto da fare. La Banca mondiale ha annunciato pochi giorni fa gli ultimi dati economici, e la povertà è scesa ormai al 10% della popolazione globale. Ciò è magnifico, ma ci sono ancora 700 milioni di persone che vivono in questa condizione, e il loro stato ha serie conseguenze per ognuno di noi. Ci sono minacce, e una delle più gravi per tutti è il rallentamento della crescita economica nel mondo ricco, decennio dopo decennio, anche prima della crisi finanziaria del 2008. Questa crisi però ha reso la situazione ancora più dura».
Perché?
«Il rallentamento rende tutto più difficile, complica le scelte della politica, abbassa la qualità della vita delle persone, soprattutto per la gente in fondo alla scala sociale. Se sommi questo fatto alla crescente diseguaglianza, ti rendi conto che molta gente nel mondo ricco sta soffrendo. Le loro vite peggiorano, e parecchi vedono il peggioramento come una conseguenza delle buone cose che invece stanno accadendo nel resto del mondo. Questo è un sentimento davvero difficile da affrontare».
Come mai fatichiamo a capirlo?
«I dati che esistono, ma molti non vogliono vederli o svilupparli, perché vanno contro i loro interessi».
Lei è cresciuto in condizioni economiche difficili: quanto l’ha influenzata questo fatto nella scelta dei temi da studiare?
«Ho avuto pochi soldi almeno fino a quando ho fatto il dottorato. Non dico che essere povero aiuta, però ti dà una prospettiva più chiara del mondo. Ho capito soprattutto quanto conta la fortuna: se mio padre non si fosse ammalato di tubercolosi durante la Seconda Guerra Mondiale, io non sarei neanche nato, perché lui sarebbe morto in un’operazione militare a cui era stato destinato dove tutti i soldati persero la vita. Poi fu lui, minatore del carbone, a spingermi verso l’accademia».
A cosa si sta dedicando ora?
«Studio soprattutto l’impressionante aumento della mortalità fra gli americani di mezza età. Persone che si tolgono la vita, o muoiono di overdose. Ritengo che la diseguaglianza sia una delle minacce più gravi della nostra società, perché influenza tutto. Ha un effetto sulla politica, ma anche sulle scelte riguardo i cambiamenti climatici, che molti rifiutano di affrontare perché vanno contro i loro interessi. Temo un mondo dove i ricchi fanno le regole, e gli altri devono obbedire. C’è molta gente che sta soffrendo, a causa della globalizzazione. Persone di mezza età, istruite e non, che vedono svanire le promesse di benessere con cui erano cresciute e crollare i loro redditi. Sono le persone che muoiono di overdose o si suicidano, e stanno cambiando l’intero profilo della mortalità negli Stati Uniti. Non dico che tutto questo sia provocato in maniera diretta dalla diseguaglianza, ma certamente l’estrema diseguaglianza sta peggiorando le cose, creando questa emergenza che ora studio».
di Stefano Lepri La Stampa 13.10.15
Una decina d’anni fa Angus Deaton, premiato ieri con il Nobel per l’economia, apprese dall’amico Jean Drèze, belga trapiantato in India, dati sorprendenti: benché le condizioni di vita degli indiani andassero rapidamente migliorando, la spesa in generi alimentari non aumentava. Anzi, l’apporto di calorie medio diminuiva. Strano, in un Paese dove la malnutrizione è diffusa.
Altri studiosi avrebbero fatto finta di non accorgersi di dati che contraddicevano la teoria. In India, all’opposto, alcuni proclamavano che la globalizzazione in realtà immiseriva.
Deaton no, si mise con pazienza a studiare, cercando di capirci qualcosa: perché questa è stata negli anni la sua dote, indagare, non smettere di avere dubbi, provare le teorie sul concreto e se non funzionano cambiarle.
Scozzese povero, arrivato a Cambridge grazie ai sacrifici del padre, all’aiuto generoso di alcuni insegnanti, infine a borse di studio, racconta di sé che fu tutt’altro che un secchione. Approdò all’economia un po’ per caso, annoiato dalla matematica, per breve tempo incuriosito dalla filosofia della scienza.
Una settimana prima di compiere i 70 anni corona la carriera con il premio più ambito; i colleghi dicono che se lo merita in pieno. Negli ultimi anni era comparso spesso nella lista dei favoriti. Chi lo conosce ne apprezza la libertà di pensiero, lo humour, la vasta cultura. Scrive bene, riuscendo a farsi capire anche dai non iniziati.
Da oltre un trentennio insegna negli Usa, a Princeton, dove si trasferì anche a causa dei tagli del governo Thatcher alla spesa per l’istruzione. Ma degli Stati Uniti è critico, come spiega nel libro «La grande fuga. Salute, ricchezza e origini della disuguaglianza», che Il Mulino ha appena pubblicato: contrariamente al mito, è uno dei Paesi dove ai figli di poveri è più difficile diventare ricchi.
Non rispetta mai gli schemi. La sua ipotesi sull’India, che i redditi crescenti non vengano spesi in alimentari perché meno persone fanno lavori faticosi, fa ancora discutere. Calcola che per eliminare la povertà nel mondo in teoria basterebbe pochissimo, «chiedere 15 centesimi di dollaro al giorno a ogni abitante dei Paesi ricchi», però suscita polemiche dicendosi contrario agli aiuti.
Spiega che quando ha cominciato a studiare il problema degli aiuti allo sviluppo era convinto che funzionassero. Invece è arrivato a concludere che nei Paesi poveri dove i politici sono corrotti, le istituzioni inadeguate, i burocrati incapaci, i soldi vanno sprecati, fanno più male che bene; mentre i Paesi capaci di governarsi decentemente di soccorso non hanno un gran bisogno.
Deaton cita con favore gli studi di Thomas Piketty sulle disuguaglianze crescenti, tuttavia è contrario alla sua proposta di elevatissime aliquote fiscali per i ricchi. Si indigna di quanto i soldi influenzano la politica americana e nello stesso tempo ritiene che lo stimolo a guadagnare più degli altri sia un fattore positivo.
Sulle sorti del pianeta si dichiara «prudentemente ottimista». Se non altro, dice, la scienza funziona: «Oggi i bambini dell’Africa subsahariana hanno più probabilità di sopravvivere fino ai 5 anni di età di quante ne avessero i bambini inglesi nati nel 1918». Proprio lui che ne conosce i dati insiste che la povertà non è solo questione di denaro, più importante è che migliorino salute e istruzione.
Nella motivazione del premio l’Accademia delle scienze svedese menziona tre campi di ricerca, sistema di analisi della domanda, collegamenti tra consumi e reddito, misurazione della povertà. Tra tante cose si è anche occupato di capire quanto il denaro dia la felicità, assieme all’amico Daniel Kahneman, Nobel 2002. E allora? «La risposta è molto complicata» riassume con ironia.
La grande fuga da Malthus
Alberto Mingardi Domenicale 18 10 2015«L’errata diagnosi dell’esplosione della popolazione da parte della stragrande maggioranza degli economisti e degli scienziati sociali, insieme alle calamità causate dalle politiche sbagliate che ne sono conseguite, hanno rappresentato i più gravi fallimenti intellettuali ed etici di un secolo che, di fallimenti, non è certo stato avaro». La citazione viene da La grande fuga. Salute, ricchezza e origini della disuguaglianza (pubblicato in Italia dal Mulino con prefazione di Giovanni Vecchi), il libro di Angus Deaton, Premio Nobel per l’Economia 2015. Sin dal titolo, è evidente il richiamo a Fuga dalla fame. Europa, America e Terzo Mondo (1700-2100), un aureo saggio di Robert Fogel, Premio Nobel per l’Economia 1993. Fogel, uno dei pionieri della cliometria (la storia economica fatta coi numeri), ha dato conto del miglioramento parallelo di salute e standard di vita. Aspettativa di vita alla nascita, altezza e peso tendono a progredire assieme. Gli esseri umani sono diventati più ricchi e più grossi perché hanno cominciato a mangiare di più. Ciò a sua volta esige una maggiore produzione di cibo. Che è possibile solo quando la rivoluzione industriale cambia radicalmente le tecniche produttive.
Deaton non è uno storico dell’economia, le motivazioni del Premio Nobel segnalano i suoi studi sui comportamenti di consumo, ma sulla scia del lavoro di Fogel ha scelto di allargare le maglie del concetto di “benessere”. Così facendo, è riuscito ad offrire un quadro più completo della “grande fuga” dalla condizione “normale” dell’umanità: la miseria. Dal 1850 al 2000, nel Regno Unito la speranza di vita alla nascita è praticamente raddoppiata. Nei sei decenni che ormai ci separano dalla seconda guerra mondiale, possiamo osservare riduzioni senza precedenti nei tassi di mortalità e una rapida crescita del reddito medio, ovunque nel mondo. Anche le diseguaglianze vanno “lette” guardando anzitutto alla salute degli individui. Nei Paesi poveri, ogni anno un terzo dei morti sono bambini sotto i cinque anni. In quelli ricchi, più dell’80% dei decessi riguardano individui oltre i sessant’anni. Sono queste le dimensioni della diseguaglianza che ci debbono allarmare (anche se Deaton è allarmato da come, in Occidente, la concentrazione delle ricchezze potrebbe determinare meccanismi di cattura del potere politico). È la crescita economica il fatto cruciale: «la crescita pone più denaro nelle tasche delle famiglie, che sono maggiormente in grado di nutrire i loro figli, così come nelle tasche dei governi, mettendoli in condizione di migliorare acquedotti, fognature e di eliminare gli animali nocivi».
Proprio l’attenzione alle diverse determinanti del benessere ha portato Deaton a prendere posizioni eterodosse. Egli ritiene, dando ragione a Peter Bauer, a lungo tempo profeta inascoltato, che gli aiuti allo sviluppo possano fare più male che bene, consolidando leadership politiche per nulla illuminate. E, come già ricordato, ha preso di petto l’idea che la diminuzione dei tassi di incremento della popolazione sia un viatico verso un maggiore benessere (riduciamo le bocche da sfamare, ce ne sarà di più per tutti). Per Deaton, ci possono essere buone ragioni per provare a limitare la dimensione dei gruppi familiari ma esclude ve ne siano per una forma di «controllo delle nascite da parte di soggetti estranei, quali governi stranieri e istituzioni internazionali».
I chierici del mondo ricco hanno tradito i dannati della terra, pensando che una dimensione tanto privata e tanto importante del loro essere uomini e donne fosse “pianificabile” da altri. Ma prima ancora che la prognosi, era la diagnosi ad essere sbagliata. «A dispetto dei profeti di sventura, l’esplosione della popolazione non ha precipitato il mondo nella carestia e nella miseria più nera. Anzi, l’ultimo mezzo secolo ha visto non solo la riduzione della mortalità che ha prodotto l’esplosione, ma anche una fuga di massa proprio da quella povertà e quelle privazioni che avrebbero dovuto essere causate dall’aumento della popolazione stessa». La grande fuga è per l’appunto quella dalla trappola malthusiana.
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