giovedì 29 ottobre 2015

La Russia si è rimessa in piedi, l'Occidente e i suoi funzionari ideologici ne sono infastiditi

La Nato pronta a dispiegare nuove truppe vicino alla Russia
Corriere 29.10.15
La Nato starebbe considerando il dispiegamento di ulteriori truppe negli Stati dell’Alleanza che confinano con la Russia. Lo riferisce il W all Street Journal citando fonti militari e diplomatiche. In base al piano, ci sarebbe un battaglione in Polonia e in ognuno dei tre Paesi baltici, con mille soldati per ogni unità. Mentre gli Usa e gli alleati approvano, la Germania ha espresso alcune riserve: sarebbe sbagliato trattare Mosca come un nemico permanente o tagliarlo fuori dall’Europa.

Nelle vie di Mosca le guerre di Putin fanno rivivere i sogni dell’Impero 
Valori cristiani esaltati, vecchi filosofi conservatori riesumati. Così il leader del Cremlino lancia una “nuova idea” euroasiatica E sferra il primo pugno per sorprendere il mondo e dimostrare che la “Grande Russia” non è defunta con l’implosione dell’Urss

BERNARDO VALLI Repubblica 29 10 2015
MOSCA SUL PARABREZZA c’è la scura faccia di Obama inquadrata in un bersaglio.

Come in un tirassegno. L’automobile è parcheggiata ai margini dell’Arbat, l’isola pedonale, a due passi dal Cremlino. È frequente trovare il presidente americano raffigurato in quel modo poco rispettoso. E non è il solo a essere preso di mira. Chi mi accompagna nella passeggiata sulla Piazza Rossa era un collaboratore di Boris Eltsin, il defunto predecessore di Vladimir Putin. È scandalizzato. Nell’epoca sovietica, quando non si usavano le buone maniere, mi dice, i popoli venivano risparmiati. La propaganda sparava sui dirigenti del mondo capitalista, ma ai proletariati, come si diceva allora, venivano aggiudicate aspirazioni più nobili. Adesso la propaganda nazionalista investe le intere società occidentali: sono descritte in preda a una decadenza inarrestabile, in particolare quella europea che rinuncia alle sue radici cristiane e non sa difendersi dall’islamismo, impegnata com’è in un consumismo senza ritegno. Nella Mosca di oggi ti lasci portare da una vecchia passione. E non sei deluso. Alla prima occhiata la trovo scintillante, dinamica, curata. Non sento nostalgia per la disadorna, rigida, eppure intensa, metropoli dei miei ricordi giovanili che affondano in un passato lontano. Hai l’impressione di essere in una Mosca ritrovata, che esisteva prima di quella che hai nella memoria. Forse le letture incantate dell’Ottocento russo l’avevano fissata nella tua immaginazione. Cancelli gli sfacciati grattacieli che sfidano il panorama in cui si involano i personaggi di Bulgakov e la città diventa accogliente, decifrabile. Direi amica. I contatti quotidiani non sono ispidi come il linguaggio ufficiale.
Il desiderio di Europa è palpabile. Non solo per i numerosi negozi rigurgitanti di moda maschile e femminile proveniente dall’Occidente. Chi dispone di un passaporto, al quale tutti hanno diritto, e ha i mezzi per viaggiare, vale a dire un russo su dieci se ci si basa sui passaporti richiesti, sceglie spesso come destinazione le nostre vecchie città. Ma stando ai sondaggi, o comunque secondo le intenzioni di chi li promuove, la reputazione degli americani e degli europei sarebbe in netto ribasso. Sia perché l’accerchiano e minacciano con l’Alleanza atlantica, sia perché con le sanzioni rivelano la loro ostilità alla Russia impegnata a recuperare il prestigio di super potenza, cui aspira per naturale diritto. Sia per motivi morali: autorizzare i matrimoni gay, sentenzia l’ascoltata, riverita Chiesa ortodossa equivale a preferire la fede in Satana alla fede in Dio. È un sentimento schizofrenico: spaccato in due: attrazione e avversione per l’Occidente. Non è certo nuovo nella cultura, come nel sentire popolare.
La Russia di Putin promette un’educazione fondata sui valori cristiani, sulla cultura classica, sull’amore per la vita militare dedicata alla patria, sul rispetto della gerarchia. Di fatto, commenta l’ex collaboratore di Eltsin, Putin fa l’apologia della guerra ed esalta l’idea dell’impero. Non so quanto rancore ci sia in questo giudizio. Lo riferisco come l’ho raccolto.
I vecchi filosofi conservatori vengono riesumati. Tra questi Constantin Leontiev. Alla fine dell’Ottocento Leontiev sosteneva che dopo il Rinascimento l’Europa non aveva più dato né santi né geni. E quindi la Russia, allora zarista, doveva contare su se stessa. Ne aveva la forza e il dovere. I consiglieri di Putin hanno recuperato Leontiev ed altri filosofi a lungo dimenticati nelle biblioteche o ritrovati nei cimiteri degli esuli “bianchi”. Ed essi animano i discorsi del presidente. Il quale, come noto, non è un intellettuale, ma rispettando la tradizione russa gli capita di esaltare i pensatori adeguati al momento politico. E suggeritigli dai consiglieri. Tu hai l’impressione che Pushkin, Cechov, Tolstoj abbiano ceduto il passo a scrittori di cui si erano perdute le tracce, o si conoscevano appena le opere. A noi ignote e spesso tali anche per la stragrande maggioranza dei russi. Ritroveremo i filosofi dissepolti, i cui fantasmi popolano le sale del Cremlino.
Lo scrittore, un oppositore tollerato, è al tempo stesso lusingato e indignato. Poche ore fa era di fronte a Vladimir Putin e lo sottolinea più volte. Era un invitato di rilievo a un appuntamento ufficiale nonostante le sue critiche al regime. Non è indifferente al riguardo riservatogli dal presidente, ma nel descriverlo lo definisce un “ragazzaccio”, ricordando quel che lui stesso ha raccontato. Da giovane, vivendo per le strade di San Pietroburgo (allora Leningrado), Putin ha imparato che spesso bisogna essere pronti a sferrare il primo pugno. È un principio che non ha mai dimenticato. Sorprendere. Così ha fatto, mezzo secolo dopo, in Georgia, poi in Crimea e adesso in Siria. Equivalgono a un cazzotto dato senza preavviso anche quei missili lanciati dal Mar Caspio, ed esplosi a millecinquecento chilometri sui ribelli che assediano Damasco. Non solo sorprendere, ma stupire con un’impresa di alta tecnologia, più di mezzo secolo dopo il primo uomo nello spazio, che fu Gagarin, un russo. La Russia postsovietica compiva, dopo 25 anni, la prima operazione militare fuori dalla sua ex zona tradizionale di influenza. E il lancio dei missili, il 7 ottobre, ha coinciso con il 62esimo compleanno di Putin.
I dettagli della grande cronaca politica e militare, forse destinata a diventare storia, possono essere casuali, insignificanti, intimi, folcloristici, ma sono quelli che colpiscono l’immaginazione popolare. Se poi hanno un carattere personale (la rinascita della potenza russa simultanea al genetliaco di Putin) enfatizzano la figura del capo. Il leader carismatico sorprende il mondo, e l’Occidente in particolare, dimostrando che la grande Russia non è defunta con l’implosione dell’Unione sovietica. E piace alla sua gente che egli accosti l’evento militare di portata internazionale alle sue bravate di ragazzo per le strade di Leningrado. La tribù, dice lo scrittore critico ma tollerato, non è indifferente al capo che mostra i muscoli. I consensi, già altissimi, hanno raggiunto negli ultimi giorni quasi il novanta per cento. Nove russi su dieci approvano l’azione militare di Putin. Anche se per eccessivo zelo i sondaggi possono essere gonfiati, l’assenso popolare è comunque alto. Fa impallidire i responsabili delle società democratiche.
La ricerca per definire, nelle sue sfumature, il regime di Vladimir Putin è impegnativa. Ricorro a un altro filosofo riesumato, Nicolaj Danilevskj (1822-1875), slavofilo e panslavista, il quale parlava di “entusiasmo disciplinato”. La formula va a genio all’attuale capo del Cremlino. Il quale è conservatore, espansionista e non è avaro di iniziative spettacolari, politiche e militari, capaci di attirare l’attenzione e l’adesione del paese. Tutti i leader di sistemi autoritari hanno questa ambizione. Ci provano. Oltre a suscitare un “entusiasmo disciplinato”, Putin applica una democrazia protetta, che è un surrogato di quella vera. Non esiste censura in Russia, né giornalistica né letteraria. Ma sulla stampa agisce una forte autocensura, favorita dalle proprietà e dalla vigilanza politica. Questo non esclude la discreta libertà concessa a pubblicazioni secondarie. Le quali servono da alibi. Lo stesso vale per la televisione, totalmente addomesticata, ma con qualche canale e stazione radio marginali che fanno eccezione. Idem per le case editrici. Non ci sono interdizioni ma i saggi o i romanzi troppo scomodi per il regime finiscono da editori secondari. La vita privata usufruisce di una larga libertà. Una libertà nella sicurezza dopo il caos degli anni Novanta, quando dalle ceneri dell’Urss spuntavano gli oligarchi, che si spartivano i beni dello Stato, e nelle strade non mancavano i delinquenti. Oggi puoi usare senza restrizioni Internet e i suoi più moderni derivati. Se hai i soldi puoi viaggiare dove vuoi nel mondo. Sbatti contro la cappa autoritaria se alzi la testa al livello del potere politico.
Una superspia, un celebre regista, un filosofo riesumato. È un trio di rilievo nella Russia di Putin. Jurij Vladimirovic Andropov (1914-1984) è stato assai più di una superspia. Ha diretto per quindici anni il Kgb. E Putin, nel mezzo degli anni Settanta, è entrato come recluta in quel corpo di élite, l’agenzia di spionaggio dell’Unione Sovietica, mentre lui, Andropov, ne era il capo. In quanto tale Andropov ha contribuito a formare la classe dirigente postsovietica, poiché non pochi ex membri del Kgb (dal 1991 Fsb) ne hanno fatto o ne fanno parte. Per il novantesimo anniversario della nascita, Putin ha inaugurato una statua di Andropov a Petrozavodsk, a Nord di San Pietroburgo. Non è stato un gesto di devozione a un capo comunista. Chi lo conosce bene sostiene che Putin non ha mai creduto nel comunismo, né in un sistema economico controllato dallo Stato, o in una società senza classi.
Dimitri G. si è convertito alla pittura in tarda età. Un tempo era uno scriba del regime sovietico. Forse (lo sospetto) era anche un collega subalterno di Putin nell’intelligence. Adesso, ritiratosi in un atelier alla periferia di Mosca, mi spiega che l’aver fatto parte del Kgb è come avere appartenuto a una setta. O a un’organizzazione estesa ma elitaria in cui bisognava avere una mentalità particolare, un preciso rapporto col potere e con il prossimo, un modo di agire e di pensare ricco di sfumature. Per certi e non trascurabili aspetti, Andropov resta per Putin un punto di riferimento. Gli ha voluto comunque dedicare un omaggio che appare un atto di fedeltà.
Il regista, il celebre ed esuberante Nikita Michalkov, ha cercato di conciliare le due Russie: quella “bianca” e quella “rossa”, l’impero zarista e l’impero sovietico. Vicino a Putin, suo assiduo consigliere, Michalkov si è prodigato nel tentare di rucucire lo strappo storico. Innamorato della Russia zarista ha contribuito con slancio al recupero delle salme degli esuli “bianchi” disperse nei cimiteri occidentali, e adesso sepolte in patria. Tra quest’ultime c’è quella di Ivan Ilin (1883-1954).
Lui, Iljin, è il filosofo. Michalkov l’ha fatto scoprire a Putin. Era semisconosciuto o dimenticato ed è diventato il pensatore al quale il presidente si riferisce puntualmente. Promuovendolo “grande filosofo”. Iljin era un accanito nemico della rivoluzione d’ottobre, era l’ideologo dei “bianchi” durante la guerra civile, era interessato (ma rifiutando di implicarsi direttamente) al nazionalsocialismo tedesco e al fascismo italiano, e dopo la sconfitta dei due regimi, rivolgeva uno sguardo benevolo a Franco e a Salazar. Ma Ivan Iljin ha conquistato Putin soprattutto per quel che ha scritto della Russia post-comunista. Il filosofo in esilio (prima in Germania, poi in Svizzera) insiste sulla necessità, quando l’Urss sarà fallita, di lanciare una nuova «idea russa, religiosa per le sue origini e nazionale nel senso spirituale». La scelta del leader che dovrà portare a compimento il progetto sarà decisiva. Il presidente si sente come investito da quel filosofo riesumato e promosso a una fama postuma, per iniziativa di un geniale specialista dello spettacolo, qual è Nikita Michalkov.
Vladimir Putin invoca la nostalgia dell’Unione Sovietica, ma anche dei principi religiosi, della Russia zarista, dell’identità russa, della lingua nazionale, del progetto euroasiatico, dell’ispirazione slovofila (che l’ha spinto a incontrare Alexander Solgenitsyn). Il suo impero in gestazione si muove in tante direzioni, zigzagando tra le due correnti opposte, in cui si divide il pensiero russo: quella slavofila e quella filo- occidentale. Il sistema imperiale che si disegna è più pragmatico di quel che appare. Vuol essere efficace, moderno, capace di usufruire degli spazi internazionali, politici e militari, che si presentano. Un sistema basato sull’economia di mercato, in cui le tradizioni religiose e nazionali sono elementi essenziali per l’unità del paese. Molto resta imprevedibile.

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LA FEDERAZIONE STA SCALANDO LE CLASSIFICHE INTERNAZIONALI
SOPRATTUTTO QUELLE RELATIVE AGLI INVESTIMENTI DALL'ESTERO
UN PRIMO PASSO PER SUPERARE LA CONGIUNTURA NEGATIVA

RISCHI SOTTO CONTROLLO E MENO BUROCRAZIA PER USCIRE DALLA CRISI 

La ricetta passa attraverso una fiscalità di vantaggio e vincoli meno stretti. Così la Federazione punta ad attrarre maggiore liquidità e convincere gli operatori esteri.
LUCIA BELLINELLO, EVGENY UTKIN

RBTH Vanta una delle più grosse economie del mondo, con un Pil a parità di potere d'acquisto di 553 miliardi di dollari. Ed è considerata la porta d'accesso al mercato russo e dei paesi Csi, attraverso cui raggiungere oltre 200 milioni di potenziali clienti. Nonostante il periodo turbolento, Mosca continua a sedurre gli investitori stranieri, attratti da una metropoli dove ogni anno si spendono 217 miliardi di dollari in beni di consumo. E oggi più che mai preme sull'acceleratore per incrementare il fusso di investimenti. «Con i suoi 12 milioni di abitanti, Mosca è un enorme mercato di vendita. Nonché il più grande polo commerciale del paese», ha affermato il sindaco della capitale russa Sergei Sobyanin, volato di recente all'Expo di Milano per incontrare aziende e businessman italiani. «La nostra città offre agevolazioni fscali e grandi opportunità di investimento», ha detto.

Oltre all'elaborazione di un sistema di agevolazioni, le istituzioni locali stanno lavorando alla realizzazione di tecnoparchi, parchi e zone industriali, alla creazione di meccanismi di sviluppo integrale delle zone industriali e alla concessione di garanzie supplementari per gli investitori. Oltre alle agevolazioni fscali con riduzione del carico tributario in un range compreso fra il 10 ed il 25%, i vantaggi concorrenziali della città sembrano evidenti: basti pensare al costo dell'energia elettrica, calato in un solo anno del 40% (da 0,095 dollari per kWh a 0,057); o al costo della benzina, diminuito del 31% (dai 0,93 dollari al litro del 2014 si è passati a 0,64 dollari al litro del 2015). Registrano segni 'meno' anche i canoni d'affitto per gli uffici, passati da 754 a 509 dollari annui al metro quadro (-32%), così come il costo del traff co internet, sceso da 0,8 a 0,63 dollari per megabit al secondo (-21%). «In queste condizioni e grazie alle nostre misure - garantisce Oleg Bocharov,capo dipartimento per la scienza, le politiche industriali e l'imprenditoria della città di Mosca - , una startup può sviluppare un business profcuo in soli due mesi». A facilitare questo processo contribuiscono la ftta rete di trasporti, il personale qualifcato e il grosso potenziale scientifco ed educativo. «I nostri istituti tecnici conferiscono ogni anno il diploma a oltre 160mila giovani specialisti - dice Bocharov - . In queste condizioni non è difficile trovare tecnici altamente specializzati in qualsiasi settore».
Gli occhi degli investitori restano comunque puntati non solo su Mosca, bensì sull'intero paese, dove stanno nascendo interessanti iniziative imprenditoriali di produzioni italiane realizzate in Russia. Made with Russia, lo chiamano.
«Si sente ripetere spesso quanto sia antico e profondo il legame tra Russia e Italia - ha dichiarato Riccardo Monti dell'Ice - . Ovviamente le relazioni commerciali stanno soffrendo: nella Federazione abbiamo perso circa tre miliardi di euro. Ma sono comunque convinto che da adesso in poi possiamo solo risalire la china».
E, nonostante alcune aziende stiano facendo fatica a pagare i debiti contratti con l'estero per via del rublo debole, la Federazione sta ugualmente scalando le classifche nei rating internazionali per gli investimenti. «Comunque non lottiamo solo per la posizione nelle classifche di rating - ha detto al IV Forum Eurasiatico Andrei Nikitin, dell'Agenzia delle iniziative Strategiche e Comitato per il Forum Economico Internazionale di San Pietroburgo - , ma facciamo di tutto affinché le persone si sentano a proprio agio a investire nel nostro paese». Secondo Nikitin, sono molti gli accordi che spianano la strada agli investitori: basti pensare, ad esempio, al porto di Vladivostok, dove verrà introdotto un regime senza visti.
«Vogliamo ridurre le barriere per incrementare gli scambi commerciali, ma non solo: il governo russo sta lavorando a misure supplementari per favorire gli investimenti esteri - ha detto Denis Manturov, ministro russo per il Commercio e l'Industria - . E l'Italia, con le sue 400 aziende che producono nel nostro paese volumi pari a oltre 3,3 miliardi di dollari, per noi è un partner molto importante».
Che dire però della tanto chiacchierata corruzione russa? «C'era anche nel 2005, quando crescevamo del 7% - ha commentatoViktor Ivanter di Rosneft, intervenuto al Forum di Verona - . Per quanto riguarda la burocrazia, non è realistico pensare di liberarsene dall'oggi al domani: vivere in un paese con troppe riforme è come vivere in un appartamento con i lavori in corso. Quando torneremo davvero a una grande crescita? Semplicemente, quando verranno tolte le sanzioni». E anche se le sanzioni hanno limato la fducia reciproca, causando ritardi nell'attuazione di alcuni progetti, gli ultimi movimenti politici tra Est e Ovest, supportati dal continuo dialogo tra i leader russi e italiani, appaiono positivi. Antonio Fallico, presidente di Banca Intesa Russia, è infatti convinto che «le sanzioni, almeno a livello psicologico, appartengano ormai al passato»: ora servono indipendenza e maggior «coraggio da parte delle aziende» per poter rimettere in moto gli investimenti.
Mosca è il più grande polo commerciale del paese e offre grandi opportunità. Per dare maggiori garanzie alle imprese, abbiamo varato una legge con la quale riduciamo i rischi per chi investe'


Fucilati o sopravvissuti? Il mistero dei Romanov 

Presentiamo ai lettori italiani un'inchiesta, tra passato e presente che ha appassionato e diviso intere generazioni
ALLA ASTANINA RBTH
Nel marzo del 1917 lo zar russo Nicola II abdicava al trono. La sua fgura e quella della sua famiglia sarebbero state spezzate un anno e mezzo dopo. In quel momento fece la sua comparsa sulla scena della storia l'inquirente Nikolai Sokolov. Grazie al lavoro da lui svolto, siamo ora in grado di conoscere la sorte della famiglia imperiale. Sokolov si occupò del caso fno alla fne dei suoi giorni e i suoi documenti sono stati oggi raccolti dalle autorità russe in tutto il mondo.
Nikolai Sokolov non è certo uno dei personaggi più noti della storia russa. Tuttavia, grazie a lui, il mondo ora può essere sicuro di conoscere la storia della morte dell'ultimo zar russo. Sokolov aveva una laurea in diritto e prima della rivoluzione aveva esercitato la professione di giudice istruttore. Nel 1917 era stato promosso procuratore speciale al tribunale distrettuale di Penza. Dopo la rivoluzione e il rovesciamento della monarchia era rimasto fedele al vecchio governo. «Dopo aver preso un congedo per ferie, Sokolov andò in Siberia», racconta il giudice Vladimir Solovyov, direttore del Dipartimento centrale di criminologia della Commissione investigativa russa, nonché successore di Sokolov: dal 1993 al 2011, dopo che il caso venne riaperto, è stato a capo dell'inchiesta sui Romanov, risolvendola. Senza la sua testimonianza sarebbe stato difficile per i contemporanei orientarsi nelle vicende dell'epoca. «Il principale merito di Sokolov fu quello di riuscire a dimostrare che la famiglia imperiale era stata effettivamente fucilata», sostiene oggi Vladimir Solovev.
L'inchiesta in Russia
Testimonianze e prove tangibili hanno condotto a un unico esito, vale a dire che «l'assassinio è avvenuto il 17 luglio », scrisse in seguito Sokolov. Come si sa oggi, da casa Ipatiev i cekisti che avevano fretta perché attendevano l'arrivo in città dei Bianchi - trasferirono i cadaveri dei Romanov nel villaggio di Ganina Yama dove si trovava una miniera abbandonata. «Laggiù l'inquirente ha scoperto una signif cativa quantità di frammenti di ossa bruciate e di materiali e oggetti che sono stati riconosciuti come appartenenti a persone vicine alla famiglia imperiale», spiega la storica Ludmila Lykova. Allora Sokolov avanzò l'ipotesi che i corpi fossero stati bruciati, teoria che venne in seguito smentita. Risultò che dopo alcuni tentativi fallimentari di bruciare i corpi, i cekisti li avevano poi sotterrati.
L'emigrazione e la morte
I Bianchi furono sconftti e ripararono a Est, mentre Sokolov continuava a condurre la sua indagine, riuscendo a raccogliere documenti preziosi che conservò e portò con sé fuori dal paese, racconta la Lykova. I parenti dei Romanov non credettero all'inquirente dal momento che ritenevano la famiglia imperiale ancora in vita. Negli ultimi anni della sua vita, Sokolov stilò un rapporto completo sull'inchiesta per l'imperatrice vedova Maria Fedorovna, madre di Nicola II, e scrisse un libro dal titolo 'L'assassinio della famiglia imperiale' sulla base dei materiali raccolti. Morì nel 1924 in Francia all'età di 43 anni.
I nuovi dettagli
Si cominciò ad approfondire i dettagli dell'inchiesta solo dopo la dissoluzione dell'Urss, nel 1993, quando i documenti raccolti da Sokolov furono rinvenuti in tutto il mondo e trasmessi in Russia. Gli archivi di Sokolov furono acquistati a un'asta di Sotheby's dal principe del Liechtenstein e inviati nella Federazione. Una parte cospicua dei materiali dell'inchiesta e delle prove indiziarie si trovava a Jordanville, negli Stati Uniti, a Bruxelles e in altre chiese ortodosse russe all'estero.

Obama, il guerriero riluttante

Truppe speciali verso Siria e Iraq, prolungamento della missione in Afghanistan e il ritorno in agenda degli interventi di terra Il presidente americano Obama è obbligato a rivedere la propria strategia militare a causa della natura dei conflitti in corsodi Maurizio Molinari La Stampa 29.10.15
Per comprendere l’entità del ripensamento che tiene banco a Washington bisogna partire da quanto sta avvenendo sui campi di battaglia, da dove si originano fatti che aggrediscono le convinzioni dell’amministrazione. In Siria Obama ha puntato sulla combinazione fra guerra aerea e Cia per sconfiggere Isis e far cadere Assad ma il risultato è il collasso dei gruppi di ribelli addestrati da Langley e la carenza di obiettivi per i raid in quanto i jihadisti vivono sotto le tende e operano a piccoli gruppi. In Iraq è andata peggio perché Isis si è rafforzato, estendendo il controllo dei territori fino a Ramadi, a 100 km da Baghdad. Non sono errori tattici ma strategici: Obama ha scelto di combattere Isis applicando il modello di guerra formulato da John Brennan, attuale capo della Cia, ovvero intelligence hi-tech per individuare il nemico e poi eliminarlo con droni, aerei e, se indispensabile, truppe speciali. È in questa maniera che nella notte del 1 maggio 2011 è stato eliminato Osama bin Laden, evidenziando il successo della «guerra segreta» ad Al Qaeda iniziata nel 2009. Tale «guerra segreta» è stata teorizzata e realizzata da Brennan per andare incontro all’esigenza di Obama di combattere i terroristi senza più impiegare l’esercito convenzionale, come invece aveva fatto George W. Bush in Iraq ed Afghanistan. È stata una formula vincente contro Al Qaeda ma nei confronti di Isis ha fatto flop perché il nemico è tornato a combattere in maniera convenzionale, che in questa regione significa tribale. Isis occupa città, riscuote tasse, gestisce confini, dispone di tribunali e polizia urbana. Se Al Qaeda l’11 settembre 2001 lanciò una guerra «asimmetrica» contro gli Usa, basata su attentati, Isis oggi controlla un territorio esteso quanto la Gran Bretagna. È un avversario convenzionale ed ha innescato un conflitto tribale con quasi 5000 gruppi armati che si combattono villaggio per villaggio. L’errore commesso da Obama è stato di combattere contro Isis la guerra precedente, vinta contro Al Qaeda, ignorando chi - al Pentagono ed al Congresso - da tempo gli chiede di adattarsi al nuovo nemico. A ben vedere anche il presidente russo, Vladimir Putin, si scontra con un conflitto più difficile del previsto. I suoi comandi avevano immaginato di usare raid massicci per far avanzare i siriani, sostenuti da iraniani ed Hezbollah, travolgendo i ribelli. Ma a quattro settimane dall’inizio dei raid ben quattro offensive di terra siriane non sono bastate perché i ribelli - sostenuti da Turchia, Arabia Saudita e Qatar - applicano la stessa tattica di Isis usando però armi più moderne, come i missili anti-tank Tow. Avanzare è arduo perché si combatte ovunque, in maniera feroce e senza un linea del fronte. Come fanno le tribù del deserto. Il volume di informazioni raccolte dalla sala operazioni di Tampa, sede del Comando Centrale Usa, ha convinto il generale Joseph Dunford, capo degli Stati Maggiori Congiunti, che la svolta non è più rinviabile: bisogna combattere a terra. Un veterano della Guerra Fredda come John McCain, ex prigioniero in Vietnam, sostiene che «servono 10 mila marines» per battere Isis. Se i generali del Pentagono hanno convinto il Segretario alla Difesa, Ashton Carter, ad informare il Congresso sulla necessità di «rafforzare lo schieramento a ridosso della prima linea» è perché l’errore del tandem Obama-Brennan sta causando un domino di cocenti sconfitte. Nelle ultime 12 settimane prima la resa dei ribelli Cia, poi l’intervento russo e infine la scelta di Baghdad di aprire ai raid russi hanno disegnato un indebolimento americano in accelerazione, trasformando Putin nel regista regionale. L’Afghanistan rafforza tale lettura perché i taleban nel blitz di Kunduz hanno dimostrato di voler anch’essi controllare aree territoriali: non fuggono nelle caverne, vogliono riprendersi le città. Dunque anche qui servono truppe di terra.
Il presidente si trova così, controvoglia, a pianificare con i generali interventi - più o meno estesi - che non condivide. È uno scenario che lo espone a rischi ed errori. Anche perché i generali del Pentagono diventeranno sempre più loquaci e determinati: per candidarsi a guidare le scelte militari che spetteranno al prossimo presidente degli Stati Uniti.

La resa di Obama ai generali “Azioni di terra contro Isis”
Dopo l’Afghanistan gli Usa rivedono la loro strategia anche in Siria Il Pentagono: “Ci baseremo sulle tre R: raid aerei, Raqqa e Ramadi”di Paolo Mastrolilli La Stampa 29.10.15
La conferma è arrivata direttamente dal capo del Pentagono, Ashton Carter. Durante l’audizione di martedì al Senate Armed Services Committee ha detto: «Sosterremo i nostri partner negli attacchi contro l’Isis, oppure condurremo queste missioni direttamente, con bombardamenti dall’aria o azioni sul terreno».
Con queste parole il segretario alla Difesa ha confermato le anticipazioni del Washington Post, secondo cui i militari stavano premendo sul presidente Obama per mandare le truppe speciali sul terreno in Siria e Iraq, e cambiare la dinamica dell’intervento contro l’Isis. Carter ha spiegato che la nuova strategia si basa su tre «R»: Raqqa, la capitale dello Stato islamico che dovrebbe essere attaccata dai curdi con l’aiuto degli americani; Ramadi, la città sunnita nella provincia irachena di al Anbar, che le forze locali devono riprendere col supporto degli Usa e degli elicotteri Apache, entrati in azione domenica; Raid, cioè le operazioni mirate contro l’Isis e la sua leadership, che verranno condotte direttamente dalle forze speciali sul terreno.
Questa nuova strategia muscolare risponde all’intervento russo in Siria, e si accompagna al filone diplomatico, che riprenderà con i colloqui di domani a Vienna. Però rappresenta anche un nuovo capitolo del complicato rapporto fra Obama e i suoi generali.
La promessa di Obama
Il presidente era entrato alla Casa Bianca con l’obiettivo dichiarato di mettere fine alle guerre avviate dal suo predecessore, la riluttanza culturale ad usare la forza, e lo scetticismo fisiologico verso i militari. I soldati, a loro volta, erano prevenuti verso Obama, che tra i suoi primi atti aveva rifiutato la richiesta dell’allora comandante a Kabul, David McKiernan, di inviare altri 30.000 uomini. Lo scontro aperto era avvenuto nel giugno del 2010, quando il generale McChrystal era stato costretto a dimettersi dal comando delle forze in Afghanistan, per le critiche lanciate contro l’amministrazione in un profilo scritto da Michael Hastings su Rolling Stone. Il suo posto lo aveva preso David Petraeus, che nel settembre del 2011 era stato nominato direttore della Cia, secondo i maligni per evitare che si candidasse alle presidenziali. Petraeus era saltato poi per una relazione extraconiugale, e la sua disavventura aveva travolto anche John Allen, leader delle truppe a Kabul dal 2011 al 2013. James Mattis, capo del Comando Centrale, aveva invece perso il posto per divergenze sulla strategia del dialogo con l’Iran, mentre il leader di Africom Carter Ham aveva pagato con la pensione accelerata l’assalto al consolato di Bengasi.
Strategia fallimentare
Obama aveva colto al volo l’opposizione del premier iracheno al Maliki alla presenza di truppe americane in Iraq, per ritirarle tutte, lasciando così lo spazio dove era rinata l’Isis, dalle ceneri del gruppo terroristico di Zarqawi. In Siria invece aveva rinunciato ad un intervento che sembrava deciso, dopo l’uso delle armi chimiche da parte di Assad, stupendo i militari e favorendo tanto il regime, quanto l’Isis. Poi aveva nominato proprio Allen per gestire la coalizione anti Isis, ma pochi giorni fa lo ha sostituito col diplomatico Brett McGurk, dopo che l’ex generale si è dimesso per impazienza verso il modo in cui veniva applicata la strategia contro lo Stato Islamico.
La realtà sul terreno ora sta cambiando questa dinamica. Il segretario alla Difesa Hagel, forse ancora più riluttante di Obama ad usare la forza, era stato sostituito da Carter proprio per immaginare una strategia più efficace. Il successo dell’Isis, e il rischio che la stessa disfatta si replichi in Afghanistan, hanno costretto il presidente a rimandare il ritiro da Kabul. Il caos in Siria ed Iraq ora lo spingono a mettere gli «stivali sul terreno». Sembra la rivincita dei generali, ammesso che adesso possa bastare. 

1 commento:

bla78 ha detto...

Ottimo post! Stasera puntata imperdibile di "Muro" su Sky Arte, dedicata a Gary Baseman e al suo intervento a Giffoni Valle Piana: http://arte.sky.it/temi/programmi-tv-10-novembre-serie-street-art-gary-baseman-giffoni-valle-piana/