«Non è stato un incidente»
La reazione di Gabriele Eminente, direttore generale di Msf Italiaintervista di Emanuele Giordana il manifesto 4.10.15
«Danni collaterali? Inaccettabile, semplicemente inaccettabile. Incidente? Non è stato un incidente: l’ospedale è stato colpito ripetutamente per più di un’ora». Non è una reazione rabbiosa quella di Gabriele Eminente, direttore generale di Msf Italia. Al telefono da Ferrara, dove partecipa con la sua organizzazione al Festival di Internazionale, risponde con una freddezza e un distacco che non lasciano spazio a commenti o arzigogoli.
Msf ha iniziato a lavorare in Afghanistan nel 1980 e lo fa a Kunduz, Kabul, Lashkar Gah, Khost; riceve esclusivamente fondi privati e non accetta finanziamenti dai governi.
Ci tiene ai principi «E c’è un principio umanitario chiarissimo e condiviso per cui non solo le strutture sanitarie non dovrebbero essere oggetto di attacco ma anzi andrebbero protette».
Anche se ci sono dei feriti dalla parte del torto?
Noi non facciamo distinzioni, non le abbiamo mai fatte. Chiunque ha bisogno di cure viene curato
L’ospedale adesso è distrutto.
E devo purtroppo confermare che, a ora (le 20 di ieri, ndr), ci sono 12 vittime tra il personale e 7 tra i pazienti, tra cui 3 bambini. I feriti sono 37, 19 dei quali fanno parte del nostro staff. 5 casi sono critici. Abbiamo dovuto trasferirli tutti a Pol-iCharki, a due ore di macchina da Kunduz.
Come spiega che l’errore di cui parla la Nato sia durato tanto.
Questo è davvero il punto che va assolutamente chiarito. E non si può parlare di «incidente»: tutti sapevano le nostre coordinate che erano state reiterate all’inizio della battaglia. L’ultima comunicazione è del 29 settembre. Questa per noi è una prassi: tutti devono sapere dove operiamo e cosa facciamo. Sia per potersi curare, sia perché – sapendo dove sono le nostre strutture – si eviti di colpirle. Tutti sapevano non solo dell’ospedale ma anche delle residenze, degli uffici e della nostra unità di stabilizzazione a Chardara (a nord di Kunduz, ndr).
Però i raid vi hanno colpito. E per oltre un’ora…
Purtroppo non è la prima volta che accade: è successo in Sud Sudan, Ucraina, Repubblica Centroafricana. Per questo comunichiamo sempre a a tutti la nostra posizione
L’ipotesi di un atto deliberato?
È quel che andrà chiarito nel dettaglio perché siamo stati colpiti più volte e per oltre mezz’ora dopo che avevamo avvisato l’autorità militare che eravamo stati bombardati a partire dalle 2 di venerdi notte. Gravissimo. Chiediamo un’indagine approfondita e trasparente proprio perché l’ospedale è stato colpito più volte, a differenza degli edifici vicini. L’aereo colpiva, spariva e ritornava a bombardare.
La Nato non vi ha fatto una comunicazione diretta? Si è limitata al comunicato dove si parla di errore e di danni collaterali?
Per quel che mi risulta non c’è stata nessuna comunicazione diretta che vada oltre quel comunicato.
L’ospedale era sovraffollato…
Dai 90 posti letto che abbiamo normalmente eravamo arrivati a 110, utilizzando corridoi e uffici. Al momento c’erano 105 pazienti e 80 membri dello staff.
Un rapporto di quasi uno a uno?
L’ospedale è una struttura chirurgico ortopedica specializzata: un centro complesso che si è trovato la settimana scorsa sotto forte pressione perché le altre strutture sanitarie cittadine sono collassate. È diventato l’unico punto di riferimento.
Quanta gente avete curato?
Da lunedì scorso quasi 400 persone. Vorrei sottolineare che tra questi c’erano anche molti bambini. Voglio dire che noi non facciamo distinzioni nelle cure, ma che è indubbio che la maggior parte dei nostri pazienti sono civili.
Abbiamo letto di 89 pazienti arrivati in gravi condizioni, 44 dei quali sono morti al loro arrivo.
La maggioranza dei pazienti aveva subito ferite da arma da fuoco: gravi lesioni addominali, degli arti, della testa. Poi bisogna mettere in conto la distanza: quando il conflitto è divampato è diventato difficile raggiungere l’ospedale se si proveniva da un’altra zona della città. Pazienti che avevano bisogno di cure immediate hanno magari dovuto aspettare ore prima di poter raggiungere la struttura.
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