giovedì 8 ottobre 2015

Miti della sinistra italiana 1. Tra palingenesi dell'autogoverno migrante e decrescita mediterranea

La politica dei subalterniDa qualunque parte si afferri la questione, c'è solo da sbattersi la testa al muro [SGA].

Fran­ce­sco Caruso: La poli­tica dei subal­terni, Derive Approdi, pp. 192, euro 17

Risvolto
Come possono i poveri, i disoccupati, gli ultimi, far sentire la propria voce nel declino odierno dei regimi democratici? In diversi paesi del sud del mondo, i gruppi subalterni hanno costruito percorsi di governamentalità dal basso, vera e propria «politica popolare», oltre le forme della democrazia liberale. Il libro intende analizzare l’irruzione della «politica popolare» nel meridione del Vecchio continente, presentando i risultati di una ricerca svolta nelle campagne dell’Italia meridionale e dell’Andalusia. L’autore riparte dalle «schiene curve» nei campi per rintracciare le forme più estreme dello sfruttamento, e le esperienze più innovative di autorganizzazione di soggetti la cui apparente invisibilità supporrebbe come unica risorsa la generosità umanitaria. Piuttosto che attendere silenti la compassione altrui, questi invisibili li ritroviamo a occupare le terre, le piazze e le strade delle città, a contrattare e discutere con ministri e multinazionali, a imporre politiche «eccezionali», a ridisegnare in profondità i territori nei quali vivono. L’esperienza del «Sindicato Obreros del Campo» nella provincia di Almerìa e del «Movimento Migranti e Rifugiati di Caserta» nell’area di Castel Volturno, vera e propria capitale nella geografia delle migrazioni, sono i contesti e le esperienze di autorganizzazione del bracciantato migrante sulle quali il libro si sofferma, con l’intento di evidenziare lo spazio crescente della società politica dei subalterni nella postdemocrazia contemporanea.


Il valore d’uso del meridionalismo 
Tempi presenti. Un’inchiesta sulle lotte dei braccianti in Campania e in Andalusia pone con forza la necessità di sciogliere i nodi di una «politica popolare», che non può limitarsi all’angusto orizzonte dei diritti. Per affermare la centralità dell’autogoverno e della democrazia diretta 

Franco Piperno il Manifesto 8.10.2015
Fran­ce­sco Caruso — mili­tante dei Cen­tri sociali, por­ta­voce degli invi­si­bili, poi depu­tato indi­pen­dente di Rifon­da­zione Comu­ni­sta, e oggi docente uni­ver­si­ta­rio di socio­lo­gia — si ripro­pone nel suo ultimo libro (La poli­tica dei subal­terni, Derive Approdi, pp. 192, euro 17) una opera buona: ripor­tare a casa Anto­nio Gram­sci, dopo che gli intel­let­tuali post-colonial ne ave­vano tra­fu­gata la salma tra­spor­tan­dola nei mari del Sud fino alla Ame­rica Latina e all’India lontana. 

L’impresa pre­senta aspetti teme­rari dal momento che la rifles­sione gram­sciana si svolge, a detta dello stesso Gram­sci, al modo di uno adat­ta­mento del pen­siero di Marx alle cir­co­stanze spe­ci­fi­che della vita morale e civile dell’Italia nei primi decenni del secolo appena tra­scorso, una sorta di «tra­du­zione con­cet­tuale» dal tede­sco all’italiano, ad imi­ta­zione di quanto Gen­tile e Croce erano venuti facendo con l’idealismo di Hegel. 
Risulta poco pro­ba­bile che lo sforzo di pen­siero di Gram­sci, quasi del tutto sce­vro di gene­ri­cità e astra­zioni inde­ter­mi­nate, così legato alla sto­ria sin­go­lare del nostro paese, possa quindi costi­tuire una gri­glia effi­cace per inter­pre­tare le rivolte, i tumulti, le lotte delle mol­ti­tu­dini indiane o sud americane. 
Ed ancora più impro­ba­bile appare la per­ti­nenza di que­sto «Gram­sci di ritorno», fil­trato dalle cate­go­rie etico-politiche post-colonial, alla feno­me­no­lo­gia sociale dell’Italia odierna. 
Ma, come qual­che volta accade, si è veri­fi­cato l’improbabile. L’impresa di Caruso, ripor­tare Gram­sci a casa, si può dire riu­scita; almeno par­zial­mente e, qual­che volta, biso­gna pur dirlo, a dispetto del suo stesso autore. 
Una comune sentimentalità 
Il libro ha il suo punto di con­ver­genza nel raf­fronto tra i risul­tati di due inchie­ste, svolte con lo sguardo dell’osservatore par­te­ci­pante, sui moti brac­cian­tili nell’Europa medi­ter­ra­nea, pre­ci­sa­mente in Cam­pa­nia a Castel Vol­turno e in Anda­lu­sia ad Alme­ría — detto per inciso, que­sta parte del libro è quella più ricca d’informazioni, almeno per il let­tore italiano. 
Il pro­getto dell’autore è ten­tare di rin­trac­ciare que­gli ele­menti di una sen­ti­men­ta­lità comune, di natura ad un tempo con­cet­tuale ed emo­tiva, ragione e cuore, che con­cor­rono a fon­dare una sorta di auto­no­mia sociale e cul­tu­rale del movi­mento brac­cian­tile nell’Europa mediterranea. 
All’esposizione delle sue ricer­che sul campo, ai casi stu­dio cam­pano ed anda­luso, l’autore pre­mette due capi­toli intro­dut­tivi. Il primo rico­strui­sce, tra­mite un robu­sto appa­rato biblio­gra­fico, le tra­ver­sie della cate­go­ria di subal­ter­nità» ela­bo­rata in ori­gine da Gram­sci, rat­trap­pita fino ad este­nuarla a mero arnese cul­tu­rale da Pal­miro Togliatti, e ripresa poi nella sua pie­nezza seman­tica pro­prio dagli intel­let­tuali degli «studi post coloniali». 
Il secondo capi­tolo intro­dut­tivo è un pro­logo sto­rico nel senso che viene posta a fronte della lotta brac­cian­tile odierna nell’Europa medi­ter­ra­nea, con quel suo carat­tere ibrido tra movi­mento e sin­da­cato, una espe­rienza sociale in qual­che misura simile a quella mitica degli Iww ame­ri­cani, all’inizio del ven­te­simo secolo.
Que­sta irru­zione della sto­ria in una inchie­sta sull’attualità nel corso del suo farsi testi­mo­nia la distanza tra il pen­siero cri­tico — del quale par­te­cipa Caruso — e l’ordinaria ricerca socio­lo­gica, affo­gata nei numeri e spe­cia­liz­zata fino all’idiozia. 
Il pen­siero cri­tico infatti si eser­cita a par­tire da inva­rianze, come accade nei saperi scien­ti­fici. Un feno­meno sociale signi­fi­ca­tivo è com­pren­si­bile nella misura in cui non è mai il total­mente nuovo, l’inedito asso­luto. Per dirla con Wal­ter Ben­ja­min: se qual­cosa di uma­na­mente impor­tante accade oggi, allora è già acca­duta almeno una altra volta. Per capire il feno­meno nella sua essenza occorre dun­que rin­trac­ciare nella sto­ria, nella memo­ria col­let­tiva, la forma con la quale si è già pre­ce­den­te­mente manifestata. 

Per­corsi mediterranei 

Nel libro di Caruso, il richiamo sto­rico a quei wob­blies ita­liani negli Usa lascia affio­rare gli ele­menti costanti delle lotte dei subal­terni quando esse assu­mono dimen­sioni di massa, ele­menti che si ritro­vano in buona sostanza nei movi­menti brac­cian­tili in Anda­lu­sia o in Campania. 
Il nostro autore sot­to­li­nea minu­zio­sa­mente ed in modo con­vin­cente que­ste ana­lo­gie che vanno dalla ter­ri­to­ria­liz­za­zione dei movi­menti al loro adat­ta­mento ai luo­ghi; dalla strut­tura per assem­blee e dele­gati con man­dato vin­co­lante alle «con­dotte clien­te­lari», cioè all’impiego astuto e disin­can­tato dei difetti siste­mici delle isti­tu­zioni; da una prassi di diritto ine­guale impo­sto con­tro voglia alla demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva alla pro­du­zione di «pre­senza totale» — uomini, donne, bam­bini — capace d’ipotecare seria­mente l’ordine pubblico. 
Un appunto che si può muo­vere all’esposizione nel libro di que­ste ana­lo­gie forti è l’assenza di con­si­de­ra­zioni in paral­lelo sulle dif­fe­renze spe­ci­fi­che; manca del tutto, ad esem­pio, il con­fronto tra la ripro­du­zione allar­gata del mer­cato ame­ri­cano all’inizio del secolo scorso — ripro­du­zione che com­por­tava un rigon­fia­mento smi­su­rato della domanda di lavoro sala­riato — con l’attuale fase di uni­fi­ca­zione del mer­cato glo­bale, una fase di accu­mu­la­zione ori­gi­na­ria che nel set­tore agri­colo si svolge con le tec­no­lo­gie dell’automazione; e che ha quindi una ten­denza seco­lare ed irre­ver­si­bile a con­trarre dra­sti­ca­mente il lavoro sala­riato. In breve i wob­blies ame­ri­cani gode­vano di un van­tag­gio stra­te­gico di cui risul­tano del tutto privi i migranti di Castel Vol­turno o di Almería. 

Nell’ultima parte del libro, Caruso affronta due que­stioni cru­ciali per com­pren­dere la fase che attra­versa il feno­meno delle migra­zioni in Occi­dente.
La prima è il dile­guarsi del sin­da­cato in quanto gestore della ven­dita a livello nazio­nale della forza-lavoro; e quindi della per­dita di auto­no­mia, dei legami di classe, e non solo di quelli ideo­lo­gici ma anche di quelli sola­mente siste­mici e spesso inconsapevoli. 

Il sin­da­cato tra­di­zio­nale, quello di tipo con­fe­de­rale, ha mutato defi­ni­ti­va­mente la sua natura, si è tra­sfor­mato in una sorta d’agenzia che for­ni­sce ser­vizi al pub­blico per conto e a spese dello Stato — il luogo che solo ieri era fre­quen­tato da mili­tanti si ritrova oggi affol­lato da clienti. Quando va bene è un punto d’incontro e di ristoro per pen­sio­nati in dif­fi­coltà, che avver­tono un certo impac­cio nel com­pi­lare i moduli fiscali. 

Caruso, dopo aver con­sta­tato la morte del sin­da­cato ne for­ni­sce una rico­gni­zione cri­tica, o meglio una recen­sione esau­riente, del cada­vere; e passa a chie­dersi come possa darsi un pro­cesso di sog­get­ti­va­zione che dia la parola alle mol­ti­tu­dini di subal­terni — sulla mobi­lità dei quali, occorre ricor­darlo, si strut­tura la nuova accu­mu­la­zione pri­mi­tiva del mer­cato glo­bale; per ripro­porre infine, a mó di solu­zione, una cate­go­ria con­cet­tuale ela­bo­rata all’interno degli studi post-coloniali, cate­go­ria che prende il nome di «poli­tica popolare». 

Ras­si­cu­ranti ideologie 

Qui l’autore sgom­bra subito il campo da un equi­voco ingom­brante che il filone degli studi post­co­lo­niali pro­duce e ripro­duce nell’immaginario col­let­tivo degli anta­go­ni­sti a vario titolo: l’idea inge­nua secondo la quale una sog­get­ti­va­zione libe­ra­to­ria, un nuovo sog­getto eman­ci­pa­tivo è in corso d’affioramento in Occi­dente; e que­sto sog­getto si iden­ti­fica con la massa dei migranti e più in gene­rale dei subal­terni che popo­lano le peri­fe­rie spet­trali delle grandi Babi­lo­nie, le mega­lo­poli dei nostri tempi. Si tratta di pura ideo­lo­gia, spe­ranze senza fondamento. 
L’ultimo capi­tolo del libro — per altro il più debole, non già per impe­ri­zia dell’autore ma per il tita­ni­smo impli­cito nell’impresa — è dedi­cato ad uno sce­na­rio di un pos­si­bile rove­scia­mento della poli­tica, intesa fou­col­tia­na­mente come con­ti­nua­zione dei dispo­si­tivi di poli­zia, in «poli­tica popo­lare», defi­nita come la presa di parola dei subal­terni, degli ultimi, di coloro che tra­scor­rono la vita nei bas­si­fondi delle nostre peri­fe­rie, immersi nel rumore senza «logos» della sof­fe­renza.

Caruso sem­bra guar­dare con bene­vo­lenza la pro­spet­tiva che i subal­terni final­mente par­lino; ma se que­sto acca­desse, essi use­reb­bero ine­vi­ta­bil­mente il les­sico ed i nomi della lin­gua occi­den­tale. Detto altri­menti, quando i subal­terni del mondo par­lano non pos­sono che dire le stesse cose che vanno dicendo i poveri in Occi­dente: vogliamo più soldi per poter con­su­mare di più, vogliamo dive­nire ric­chi anche noi. 

Opzioni sovra­na­zio­nali 

A dirla senza ipo­cri­sia, la coscienza comune dei migranti, ancor prima che toc­chino il suolo euro­peo, è stata colo­niz­zata dalla sen­ti­men­ta­lità occi­den­tale, quella del capi­tale finan­zia­rio; una coscienza da con­sumo indotto, volta ad accre­scere il red­dito per con­su­mare e vice­versa; in breve una coscienza che non desi­dera l’uso di qual­cosa di cui avverta il biso­gno, bensì nutre una fidu­cia mal ripo­sta nel nuovo, desi­dera di desi­de­rare, pre­tende un meta-diritto ad aver diritti. In con­se­guenza, la poli­tica popo­lare non può che svol­gersi in ter­mini di riven­di­ca­zione sovra­na­zio­nale che con­ceda libertà di movi­mento ai migranti non­ché una più equa distri­bu­zione della ric­chezza, nel senso del pos­sesso di denaro. 
Così, la «poli­tica popo­lare» sem­bra stin­gere verso la riven­di­ca­zione uni­ver­sale, il ten­ta­tivo di porre un fon­da­mento all’agire poli­tico a livello pla­ne­ta­rio; essa quindi diviene incon­ce­pi­bile se non inte­rio­rizza la geo­po­li­tica, ossia il porsi don­chi­sciot­te­sca­mente nel ruolo di faci­tori di costi­tu­zioni.
Va da sé che, per­fino se la «poli­tica popo­lare» risul­tasse essere solo la riven­di­ca­zione dei subal­terni di miglio­rare le loro con­di­zioni di libertà e di red­dito non solo sarebbe pie­na­mente legit­tima ma andrebbe appog­giata attivamente. 
E tut­ta­via non verrà dai migranti la grande tra­sfor­ma­zione che l’Occidente attende da tempo; grande tra­sfor­ma­zione che non punta alla distri­bu­zione di que­sta ric­chezza, quella finan­zia­ria, del valore di scam­bio, tra­mite scam­bio di equi­va­lenti; essa tende, senza peral­tro riu­scirvi, a pro­durre un altro sen­ti­mento di ric­chezza, un sen­ti­mento in atto ma in stato di latenza: quello del valore d’uso, dove il biso­gno è auten­tico e non pove­ra­mente indotto, la diver­sità è una risorsa e non una disu­gua­glianza; e dove da ognuno si pre­tende ciò di cui è capace e a cia­scuno si dà quel che di cui abbisogna. 
Per chiu­dere senza con­clu­dere: nel nostro paese sono le città a costi­tuire le inva­rianze della nostra sto­ria; e forse i migranti, chi sa, un giorno potreb­bero deci­dere di fon­dare nuove città secondo usi a loro pro­pri col solo vin­colo di com­pa­ti­bi­lità con i nostri. Forse que­ste nuove comu­nità potreb­bero col­lo­carsi in quei luo­ghi oggi abban­do­nati ma che per secoli hanno ospi­tato la vita urbana sulla base di una straor­di­na­ria sovra­nità ali­men­tare, ener­ge­tica, pae­sag­gi­stica. Forse, le città abban­do­nate dell’osso appen­ni­nico — Pen­ta­dat­tilo, Cit­ta­della del Capo e così via — aspet­tano pazien­te­mente i migranti per sot­trarli alla sorte di con­su­ma­tori e ridare loro la pos­si­bi­lità di un ritorno al pri­mi­tivo, la dimen­sione della comu­nità elettiva.

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