mercoledì 28 ottobre 2015

Non ci siamo mai divertiti tanto. My Way: la biografia di Silvio Berluconi scritta da Alan Friedman

My way. Berlusconi si racconta a Friedman
Alan Fried­man: My Way. Berlusconi si racconta a Friedman, Riz­zoli, pp. 400, euro 20.00

Risvolto

In nessun'altra nazione occidentale, negli ultimi vent'anni, un leader politico ha dominato così completamente la scena come ha fatto Silvio Berlusconi in Italia. Nessuno ha scatenato così tante polemiche, nessuno è stato tanto amato e odiato. In questo libro Alan Friedman, dopo un anno e mezzo di interviste e conversazioni con Berlusconi, i suoi amici, i suoi familiari, racconta una vita che non conosce mezze misure. Un ritratto intimo di un uomo sul quale pensavamo di sapere già tutto. Ma rispondendo a Friedman, Berlusconi si confessa come mai prima. Ripercorre le sue tormentate vicende giudiziarie e la lunga guerra con la magistratura, parla della sua passione per le donne, rivive i trionfi e l'amarezza delle sconfitte. Racconta gli anni Sessanta e Settanta, quando le sue città giardino hanno incarnato il sogno di un'Italia che scopriva il benessere. Racconta gli anni Ottanta, quando con la televisione commerciale ha cambiato le abitudini e i gusti degli italiani, inondando l'etere di consumismo yuppie e edonismo all'americana. Racconta il suo amato Milan, la squadra per cui faceva il tifo da bambino e che ha portato sul tetto del mondo. Racconta la politica italiana, parla del suo passato e del suo futuro. Nel vivace ritratto di Friedman assumono un rilievo fondamentale le drammatiche vicende internazionali, perché Berlusconi è stato testimone e protagonista del periodo successivo al crollo del muro di Berlino...


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Le confessioni di un (imbonitore) impolitico Scaffale. «My Way», il libro dove Berlusconi si racconta a Alan Friedman. Nessuna novità, ma una agiografia del Cavaliere di Arcore e un riassunto di ciò che abbiamo vissuto Andrea Colombo Manifesto 27.10.2015, 0:05
La mamma glielo diceva sem­pre: «Sei il più bello della spiag­gia». Le ragazze con­cor­da­vano e asse­dia­vano l’adone: «Più che un gran sedut­tore sono stato un grande sedotto». Quando in gio­ventù ebbe a dis­sen­tire dalle scelte musi­cali del suo lea­der, Felice Con­fa­lo­nieri, pia­ni­sta, Sil­vio il con­trab­bas­si­sta si caricò sulla schiena l’ingombrante stru­mento e tra­slocò in altro club: «Natu­ral­mente dopo poche set­ti­mane il locale dove suo­navo io era pieno e quello di Fedele vuoto». Inu­tile con­ti­nuare: di spa­rate simili nel libro di Alan Fried­man su Sil­vio Ber­lu­sconi My Way, (Riz­zoli, pp. 400, euro 20.00) ce n’è un flo­ri­le­gio.
Facile che qual­che non ita­lico let­tore sgrani gli occhi di fronte a una caso tanto estremo di ego smi­su­rato: «Pos­si­bile che un tipo simile abbia con­di­zio­nato l’Italia in tutto e per tutto lungo due decenni e passa?». Ma per noi ita­liani, invece, non c’è stu­pore alcuno. Sil­vio nella parte di se stesso ce lo siamo sor­biti appunto per vent’anni e passa. Su quella gio­stra abbiamo fatto infi­niti giri. Il libro di Fried­man è un’intervista, oltre­tutto fatta da un gior­na­li­sta che al con­fronto Bruno Vespa è un mastino: chi di inter­vi­ste col magni­fico ne ha cono­sciute a pac­chi non può pre­ten­dere di tro­varci qual­che novità.
Ber­lu­sconi è sem­pre Ber­lu­sconi. Un’idea geniale dopo l’altra, e per for­tuna che c’era lui a tra­durle in pra­tica sennò sai dove si andava a finire. La sini­stra non ha mai smesso di sognare i cavalli cosac­chi a piazza san Pie­tro: senza di lui sta­reb­bero lì ad abbe­ve­rarsi. I togati, in cospi­cua parte, altro non erano che guar­die rosse del bol­sce­vi­smo tri­co­lore. Le decine di pro­cessi che lo hanno visto impu­tato gareg­giano in bugiar­de­ria. Chie­dere al pro­ces­sa­tis­simo di ammet­tere una respon­sa­bi­lità, fosse pure pic­co­lina, è come pre­ten­dere che con­fessi di aver sba­gliato anche una sola cosa nella vita. Mis­sione impossibile.
Per due terzi, il libro di Alan Fried­man è un cata­logo degli show con i quali Sil­vio Ber­lu­sconi ci ha intrat­te­nuti dal 1994 in poi. Ne abbiamo riso spesso, ma pun­tual­mente quei sor­risi sprez­zanti ci si sono con­ge­lati sulle lab­bra sco­prendo che le buf­fo­nate del grande imbo­ni­tore, le sue eterne bar­zel­lette, le tro­vate pac­chiane, l’impunita agio­gra­fia di se stesso, sedu­ce­vano e con­qui­sta­vano milioni di votanti. Adesso che Sil­vio Ber­lu­sconi non è più lo spau­rac­chio di un tempo, sarebbe ora di ini­ziare a con­si­de­rare l’uomo, l’imprenditore e il poli­tico nella loro realtà, lasciando ai tanti Tra­va­glio del Paese il pia­cere dub­bio dell’anatema. My Way non è la bio­gra­fia reale che l’uomo di Arcore ancora attende. Però può essere un’occasione per ini­ziare a misu­rarsi seria­mente con il per­corso di un uomo che è stato dav­vero, da prima ancora di scen­dere in poli­tica, «l’autobiografia della nazione».
Sil­vio Ber­lu­sconi è stato un grande impren­di­tore: né le sue ridi­cole esa­ge­ra­zioni né le evi­denti omis­sioni sulle coper­ture finan­zia­rie che gli hanno faci­li­tato il decollo bastano a negare una realtà palese. Negli scarni com­menti alla con­cione dell’intervistato, Fried­man segnala quanto per l’uomo sia impor­tante pia­cere, quanto grande la sua arte di sedut­tore e ven­di­tore. Sacro­santo, ma non basta a risol­vere il segreto del suo suc­cesso, dovuto pro­ba­bil­mente tanto ai suoi difetti quanto alle sue doti. Ber­lu­sconi è sem­pre stato un tipo capace di sognare in gran­dis­simo e dotato di un senso di sé tanto ampio da cre­dere nella pos­si­bi­lità di rea­liz­zare que­gli obiet­tivi. Ma è anche sem­pre stato un clas­sico ita­liano medio, uno che doveva solo guar­darsi allo spec­chio e scan­da­gliare il pro­prio animo per capire a cosa ambi­vano i con­cit­ta­dini e quali ban­chi del mer­cato erano ancora privi dell’offerta richie­sta. Da Milano 2 a Forza Ita­lia, pas­sando per l’impresa Media­set, Ber­lu­sconi vende al Paese quel che lui stesso com­pre­rebbe, ma, una volta indi­vi­duato l’obiettivo, è instan­ca­bile nel per­se­guirlo. Dif­fi­cile imma­gi­nare una simile miscela di medio­crità ed ecce­zio­na­lità, in que­sto caso non con­flit­tuali ma in stato di per­fetto equi­li­brio e pro­fi­cua siner­gia. E tut­ta­via la lunga cele­bra­zione di se stesso che il mat­ta­tore con­se­gna al gior­na­li­sta yan­kee rivela anche per­ché il grande impren­di­tore non poteva essere altro che un pes­simo politico.
La sua intui­zione, senza dub­bio tem­pe­stiva, è stata capire che la poli­tica è anche una merce, e come una merce può essere pub­bli­ciz­zata e ven­duta. Ma oltre que­sto l’ex con­trab­bas­si­sta non è mai riu­scito ad andare. Non ha mai nep­pure subo­do­rato che ridurre la poli­tica a pura merce equi­vale a farne una merce sca­dente. Sil­vio Ber­lu­sconi ha piaz­zato il suo pro­dotto meglio di chiun­que altro nella sto­ria repub­bli­cana. Dato per poli­ti­ca­mente morto è risorto più e più volte. Ha sov­ver­tito pro­no­stici e rove­sciato pre­vi­sioni che sem­bra­vano cer­tezza. Ma con quelle vit­to­rie, pro­prio per­ché al fondo è sem­pre rima­sto un cam­pione dell’impoliticità, ha poi com­bi­nato pochis­simo. Anche nel male, sia chiaro: in un paio d’anni Mat­teo Renzi ha fatto più danno del men­tore in due decenni. Cul­tu­ral­mente, il ber­lu­sco­ni­smo ha com­por­tato una deva­sta­zione supe­riore a quella pro­vo­cata dallo stesso fasci­smo, pro­prio per­ché ha impo­sto e dif­fuso un’idea della poli­tica tra­sfor­mata in pac­chetto da ven­dere senza pre­oc­cu­parsi affatto del con­te­nuto. Nell’agire con­creto, però, il suo prin­ci­pale limite è stato invece un’inerzia pres­so­ché totale, dia­me­tral­mente oppo­sta all’immagine iper­di­na­mica che il lea­der spac­ciava di se stesso. Della poli­tica, Ber­lu­sconi ha sem­pre saputo vedere solo il tea­trino e in fondo la sem­pre subìta senza mai amarla.
L’eccezione, a cui è dedi­cata la seconda parte del libro, è la poli­tica estera. Quella sì che all’allora Cava­liere andava a genio. Certo la inten­deva a modo suo: come un dia­logo tra sovrani come Ghed­dafi, o Putin, o lo stesso George Bush. Tutti ami­coni con i quali re Sil­vio poteva sfo­de­rare la sua per­so­nale visione della diplo­ma­zia, fatta di inviti in villa, bar­zel­lette e rap­porti per­so­nali. E tut­ta­via anche i più sfe­ga­tati dovreb­bero rico­no­scere che su quel fronte l’impolitico di Arcore aveva ragione più spesso che non i suoi rivali: dalla scia­gu­rata impresa di Libia al ser­vi­li­smo nei con­fronti dei severi tutori del rigore euro­peo. E per­sino sulla folle impresa ira­chena, sem­bra indi­scu­ti­bile che, pur nella piena fedeltà al miliar­da­rio texano che allog­giava alla Casa bianca, Ber­lu­sconi si sia pro­di­gato invano per evi­tare la più disa­strosa tra le guerre recenti.
L’ultima parte del libro abban­dona bru­sca­mente l’intervista per mutarsi in inchie­sta sulla caduta del poten­tis­simo, dovuta a una mano­vra ordita in parte al Qui­ri­nale, in parte a Bru­xel­les, in parte a Parigi e Ber­lino. Se ne è discusso in abbon­danza mesi fa, dun­que se ne par­lerà poco ora che il volume è dav­vero nelle libre­rie. Quella vicenda rap­pre­senta quasi un libro nel libro, Fried­man smette di fin­gersi un regi­stra­tore e fa il gior­na­li­sta. La con­clu­sione è inop­pu­gna­bile: la caduta di Ber­lu­sconi è stata un modello di moderno colpo di Stato, di quelli in cui la finanza sosti­tui­sce i carri armati. Ha abbat­tuto, chissà se per sem­pre, «il Cava­liere nero». Lo ha sosti­tuito con qual­cosa di anche peg­giore, tra gli applausi ebbri di chi scam­biava il pati­bolo per un podio.

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