venerdì 30 ottobre 2015

Pasolini e il Pci: il libro di Anna Tonelli

Anna Tonelli: Per indegnità morale, Laterza pagg. 168 euro 14

Risvolto
Nel 1949 Pier Paolo Pasolini fu espulso dal Partito comunista italiano per ‘indegnità morale’. Il punto di partenza della vicenda sono i ‘fatti di Ramuscello’, che innescano l’accusa di corruzione di minorenni e atti osceni in luogo pubblico. Pasolini diventa così immediatamente un bersaglio politico: per i democristiani l’avversario da colpire, per i comunisti il pericolo da allontanare.


Fondamentale nella biografia e nel percorso artistico di uno dei protagonisti della vita intellettuale del Novecento, questo caso è cruciale per capire il clima culturale e politico del dopoguerra. Due ‘chiese’, Democrazia cristiana e Partito comunista, impongono due pedagogie collettive distinte ma finalizzate entrambe a codificare vere e proprie regole di moralità. Il partito deve orientare le masse nella vita quotidiana, correggere i comportamenti anomali e, di fronte a gravi errori, espellere. La scelta compiuta con Pasolini è, dunque, esemplare della modalità punitiva adottata nei confronti dei ‘compagni’ che trasgrediscono. L’indagine di Anna Tonelli getta finalmente luce su particolari centrali sinora inediti della vicenda, compreso il lungo silenzio del Pci.


La ferita rimasta aperta dell’espulsione dal Pci per “indegnità morale”Il saggio della storica Anna Tonelli ricostruisce la cacciata dello scrittore dal partito in Friuli e la sua fuga a Roma Ma lui continuò a dichiarare: “Io voto comunista”FILIPPO CECCARELLI Repubblica 20 10 2015

«Voto comunista perché ricordo la primavera del 1945, e poi anche quella del 1946 e del 1947». Giusto quarant’anni orsono, al cinema Jolly di Roma, Pier Paolo Pasolini salì sul palco di una manifestazione pre-elettorale e lì con quella voce da eterno adolescente lesse la sua dichiarazione di voto al Pci: «Voto comunista perché al momento del voto, come in quello della lotta, non voglio ricordare altro».

Questo “altro” su cui almeno in quel momento preferiva stendere un velo di oblio, avvenne forse circa due anni dopo quelle memorabili primavere, nell’estate del 1949, ma oggi lo racconta con degno scrupolo documentario la storica Anna Tonelli in questo Per indegnità mora-le , sottotitolo Il caso Pasolini nell’Italia del buon costume (Laterza), in uscita il 5 novembre. Non ancora trentenne, egli fu infatti espulso dal Pci, anche piuttosto frettolosamente: senza potersi discolpare dinanzi agli organi dirigenti del Friuli; e senza che il processo conclusosi con la radiazione per “indegnità morale” lasciasse troppe tracce nei pur ricchi archivi delle federazioni (Udine e Pordenone) cui Pasolini faceva capo; circostanza tale da giustificare l’ipotesi di una possibile “ripulitura”, magari effettuata quando Pasolini era divenuto uno dei più importanti personaggi della cultura italiana.

Al momento dei fatti — avvenuti in un luogo dal poetico nome di Ramuscello — Pasolini insegnava alle scuole medie, ma rivestiva gli incarichi di segretario di sezione, ispettore regionale di un’organizzazione giovanile, e soprattutto era uno dei più promettenti intellettuali del partito. Che forse ignorava, o forse no, come nel vissuto di quel giovane professore l’ardente militanza già conviveva con un’impetuosa omosessualità. Di quell’esito resta solo un trafiletto dell’ Unità . Riletto oggi, spicca per sommaria ristrettezza di vedute, ma anche per l’incapacità di comprendere il senso politico della vicenda e cioè che cosa si nascondeva dietro quello “scandolo” — in tal modo definito nei resoconti dei carabinieri — che a scoppio del tutto ritardato si volle far brillare intorno ai fatti di Ramuscello.

Qui in campagna, durante una sagra di paese (vino, rumba, fisarmonica), il 27enne Pasolini si era portato quattro ragazzetti ( due di 15 e due di 16 anni), tutti un po’ brilli: per fare sesso, come si dice oggi. Erano allora i partiti, entità che si ritenevano non solo in grado, ma pure in diritto di forgiare gli individui, la loro mentalità, il loro stile di vita e i loro comportamenti. In un’Italia nella quale il privato — scrive bene Tonelli — «faceva corpo con la politica».
Sennonché, nell’asprezza della lotta, era proprio l’accusa morale, l’arma privata e personale, quella a suo modo ritenuta risolutiva tanto dai comunisti quanto dalla Dc. Per screditare i reciproci partiti, additandoli come fonti di abiezione, portatori di dissolutezza, mali assoluti.
Per farla breve, diversi ma non troppi giorni dopo la notte brava i ragazzi con cui Pasolini si era divertito litigarono fra loro; qualcosa si venne a sapere in paese; e i dc colsero il destro per vendicarsi del trattamento che i comunisti avevano riservato a uno di loro, omosessuale. E così, pur mancando qualsiasi denuncia, attraverso la classica combinazione di forze di polizia e organi di informazione, fin da allora alla base di qualsiasi manovra di discredito, Pasolini fu fatto per la prima volta carne da macello giudiziario e mediatico; e il partito prese le distanze mollandolo nella trappola.
Alla fine verrà anche assolto, ma troppo tardi: sopraffatto dall’ingiustizia e dalla vergogna, era dovuto scappare con la famiglia a Roma. Comunque non prima di aver scritto ai dirigenti: «Io resto e resterò comunista».


Adesione lacerante, anch’essa a suo modo figlia di quel tempo di terribili passioni. Nel 1960 il Pci lo “recupera” facendolo collaborare in piena libertà a Vie nuove — e anche qui Tonelli ricostruisce, come pure ai tempi de Il Vangelo secondo Matteo , un rapporto nel quale, rispetto allo spessore poetico e perfino profetico del personaggio, quel grande partito appare ora più piccolo, e i suoi orizzonti più poveri, per certi aspetti forse già segnati. Quattro mesi prima di morire, così continua la dichiarazione di voto al Jolly: «La natura ci ha dato la facoltà di ricordare (o sapere) e di dimenticare (o non sapere) ciò che vogliamo. Un’altra volta vi dirò — dirò a voi giovani, soprattutto a quelli di 18 anni — che cosa al momento del voto, come in quello della lotta, non voglio ricordare o sapere». Non ce ne fu il tempo, ma forse riguardava proprio quell’indegnità morale a cui, con la mitezza di un animo unico, aveva cercato di far fronte scrivendo: «Mi meraviglio della vostra disumanità».

Quell’intervista con Pasolini era gravida di morte”
Colombo ricorda lo storico colloquio avvenuto poco prima dell’omicidio: “siamo stati a parlare ore, con lunghe pause, asciutta severità. E timore” Furio Colombo  Tuttolibri 31 10 2015


Non ero mai stato a casa di Pasolini, all’Eur. Ma lui era stato a casa nostra (Alice, Daria molto piccola e io ) molte volte, una casa di affitto sulle dune di Sabaudia, da cui si vedeva «la casa di Moravia» (come dicevamo tutti del quadrato di cemento, tre camere e cucina ) che era da poco la nuova casa di Dacia e Alberto, dopo che avevano lasciato (loro e anche noi) la casa di Fregene. Se non avevano voglia di cucinare, tutti e tre venivano da noi. E poteva accadere che arrivassero Enzo Siciliano, che era già lo «storico» di Pasolini e Flaminia, colta e attivissima. Ma a volte non c’era nessuno, nella casa cubo, e Pier Paolo veniva da solo. 
Due argomenti, mentre si cucinava nella stessa stanza: letteratura ( ricordo un suo discorso affettuoso e limpido su un libro di Ottiero Ottieri, non noto, ma importante scrittore e comune amico ) e vita italiana. Era già iniziata la grande discesa, a cui si arriverà passando dalla sua morte. Ma non era una conversazione di lamenti e sospiri. Eravamo nella Storia, punto e basta. Chi ha detto che la Storia debba essere divertente o «andare nella direzione giusta»? 
Quello di Pasolini era un discorrere di fatti, intuizioni, un allargare all’improvviso lo spazio su cose non ancora viste o capite dagli altri, ma ovvie, secondo lui. E mai raccontate come una scoperta, solo constatazioni. Ah, e c’era un terzo argomento, l’America, ma entrava negli altri due, la letteratura o la vita italiana che cambia. Gli interessava il parere di Alice, fresca di università americane ricche di docenti-scrittori, e coinvolta nei diritti civili e nella pace in Vietnam. Il discorrere di Pasolini con le donne (le donne che gli interessavano ) era forse il solo veramente alla pari, in quegli anni. Del resto avevo conosciuto Pasolini, ritornando da un mio primo periodo in America, quando Silvana Ottieri ( grande intellettuale rimasta deliberatamente in ombra accanto al marito) leggendo una mia recensione, aveva esclamato: «Ma come, non conosci Pasolini?».
Pasolini è entrato nella mia vita già nelle dimensioni che, insieme a tanti nel mondo, gli conosco e gli riconosco adesso. Sapevo prima, e sapevo durante gli anni della nostra amicizia, la traccia profonda del suo lavoro, scrivere, filmare, parlare. S’intende che la scorta di Moravia e di Dacia Maraini, in questo percorso, ha contato moltissimo. Ma quando Arrigo Levi, direttore di questo giornale (del quale sono stato parte per vent’anni) mi ha chiesto di iniziare il nuovo «Tuttolibri» con una intervista a Pasolini (un’idea di Alberto Sinigaglia) mi è sembrato un compito facile e naturale. Il testo dimostra di no. Siamo stati ore insieme, con lunghe pause e una asciutta severità da parte sua, che sembrava isolarlo, come se fossimo parte di una sequenza pubblica, e qualcuno filmasse. Tutto girava intorno alla frase «Noi non sappiamo chi, in questo momento, sta pensando di ucciderci». E la lunga conversazione, che non era con me ma con tanti che lo tenevano d’occhio, con intensa ammirazione o con odio, è rimasta aperta.


“Siamo tutti in pericolo” 
“La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra” Furio Colombo Tuttilibri 31 10 2015

Pasolini, tu hai dato, nei tuoi articoli e nei tuoi scritti, molte versioni di ciò che detesti. Hai aperto una lotta, da solo, contro tante cose, istituzioni, persuasioni, persone, poteri. Per rendere meno complicato il discorso io dirò «la situazione», e tu sai che intendo parlare della scena contro cui, in generale ti batti. Ora ti faccio questa obiezione. La «situazione» con tutti i mali che tu dici, contiene tutto ciò che ti consente di essere Pasolini. Voglio dire: tuo è il merito e il talento. Ma gli strumenti? Gli strumenti sono della «situazione». Editoria, cinema, organizzazione, persino gli oggetti. Mettiamo che il tuo sia un pensiero magico. Fai un gesto e tutto scompare. Tutto ciò che detesti. E tu? Tu non resteresti solo e senza mezzi? Intendo mezzi espressivi, intendo...
«Sì, ho capito. Ma io non solo lo tento, quel pensiero magico, ma ci credo. Non in senso medianico. Ma perché so che battendo sempre sullo stesso chiodo può persino crollare una casa. In piccolo un buon esempio ce lo danno i radicali, quattro gatti che arrivano a smuovere la coscienza di un Paese (e tu sai che non sono sempre d’accordo con loro, ma proprio adesso sto per partire, per andare, al loro congresso). In grande l’esempio ce lo dà la storia. Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, «assurdo », non di buon senso. Eichman, caro mio, aveva una quantità di buon senso. Che cosa gli è mancato? Gli è mancato di dire no su, in cima, al principio, quando quel che faceva era solo ordinaria amministrazione, burocrazia. Magari avrà anche detto agli amici: a me quell’Himmler non mi piace mica tanto. Avrà mormorato, come si mormora nelle case editrici, nei giornali, nel sottogoverno e alla televisione. Oppure si sarà anche ribellato perché questo o quel treno si fermava una volta al giorno per i bisogni e il pane e acqua dei deportati quando sarebbero state più funzionali o più economiche due fermate. Ma non ha mai inceppato la macchina. Allora i discorsi sono tre. Qual è, come tu dici, «la situazione », e perché si dovrebbe fermarla o distruggerla. E in che modo». 
Ecco, descrivi allora la «situazione». Tu sai benissimo che i tuoi interventi e il tuo linguaggio hanno un po’ l’effetto del sole che attraversa la polvere. È un’immagine bella ma si può anche vedere (o capire) poco.
«Grazie per l’immagine del sole, ma io pretendo molto di meno. Pretendo che tu ti guardi intorno e ti accorga della tragedia. Qual è la tragedia? La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra. E noi, gli intellettuali, prendiamo l’orario ferroviario dell’anno scorso, o di dieci anni prima e poi diciamo: ma strano, ma questi due treni non passano di lì, e come mai sono andati a fracassarsi in quel modo? O il macchinista è impazzito o è un criminale isolato o c’è un complotto. Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori. E’ facile, è semplice, è la resistenza. Noi perderemo alcuni compagni e poi ci organizzeremo e faremo fuori loro, o un po’ per uno, ti pare? Eh lo so che quando trasmettono in televisione “Parigi brucia” tutti sono lì con le lacrime agli occhi e una voglia matta che la storia si ripeta, bella, pulita (un frutto del tempo è che «lava» le cose, come la facciata delle case). Semplice, io di qua, tu di là. Non scherziamo sul sangue, il dolore, la fatica che anche allora la gente ha pagato per “scegliere”. Quando stai con la faccia schiacciata contro quell’ora, quel minuto della storia, scegliere è sempre una tragedia. Però, ammettiamolo, era più semplice, il fascista di Salò, il nazista delle SS, l’uomo normale, con l’aiuto del coraggio e della coscienza, riesce a respingerlo, anche dalla sua vita interiore, (dove la rivoluzione sempre comincia). Ma adesso no. Uno ti viene incontro vestito da amico, è gentile, garbato, e «collabora» (mettiamo alla televisione) sia per campare sia perché non è mica un delitto. L’altro — o gli altri, i gruppi — ti vengono incontro o addosso — con i loro ricatti ideologici, con le loro ammonizioni, le loro prediche, i loro anatemi e tu senti che sono anche minacce. Sfilano con bandiere e con slogan, ma che cosa li separa dal “potere”?»
Che cos’è il potere, secondo te, dove è, dove sta, come lo stani?
«Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. Ma attento. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo. Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione o una manovra di Borsa usa quella. Altrimenti una spranga. E quando, uso una spranga faccio la mia violenza per ottenere ciò che voglio. Perché lo voglio? Perché mi hanno detto che è una virtù volerlo. Io esercito il mio diritto-virtù. Sono assassino e sono buono». 
Allora fammi tornare alla domanda iniziale. Tu, magicamente abolisci tutto. Ma tu vivi di libri. e hai bisogno di intelligenze che leggono. Dunque, consumatori educati del prodotto intellettuale. Tu fai del cinema e hai bisogno non solo di grandi platee disponibili (infatti hai in genere molto successo popolare, cioè sei « consumato » avidamente dal tuo pubblico) ma anche di una grande macchina tecnica, organizzativa, industriale, che sta in mezzo. Se togli tutto questo, con una specie di magico monachesimo di tipo paleo-cattolico e neo-cinese, che cosa ti resta?
«A me resta tutto, cioè me stesso, essere vivo, essere al mondo, vedere, lavorare, capire. Ci sono cento modi di raccontare le storie, di ascoltare le lingue, di riprodurre i dialetti, di fare il teatro dei burattini. Agli altri resta molto di più. Possono tenermi testa, colti come me o ignoranti come me. Il mondo diventa gronde, tutto diventa nostro e non dobbiamo usare né la Borsa, né il consiglio di amministrazione, né la spranga, per depredarci. Vedi, nel mondo che molti di noi sognavano (ripeto: leggere l’orario ferroviario dell’anno prima, ma in questo caso diciamo pure di tanti anni prima) c’era il padrone turpe con il cilindro e i dollari che gli colavano dalle tasche e la vedova emaciata che chiedeva giustizia con i suoi pargoli. Il bel mondo di Brecht, insomma. 
Come dire che hai nostalgia di quel mondo.
«No! Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone. Poiché erano esclusi da tutto nessuno li aveva colonizzati. Io ho paura di questi negri in rivolta, uguali al padrone, altrettanti predoni, che vogliono tutto a qualunque costo. Questa cupa ostinazione alla violenza totale non lascia più vedere “di che segno sei”. Chiunque sia portato in fin di vita all’ospedale ha più interesse — se ha ancora un soffio di vita — in quel che gli diranno i dottori sulla sua possibilità dì vivere che in quel che gli diranno i poliziotti sulla meccanica del delitto. Bada bene che io non faccio né un processo alle intenzioni né mi interessa ormai la catena causa-effetto, prima loro, prima-lui, o chi è il capo-colpevole. Mi sembra che abbiamo definito quella che tu chiami la “situazione”. E’ come quando in una città piove e si sono ingorgati i tombini. L’acqua sale, è un’acqua innocente, acqua piovana, non ha né la furia del mare né la cattiveria delle correnti di un fiume. Però, per una ragione qualsiasi non scende ma sale. E’ la stessa acqua piovana di tante poesiole infantili e delle musichette del cantando sotto la pioggia. Ma sale e ti annega. Se siamo a questo punto io dico: non perdiamo tutto il tempo a mettere una etichetta qui e una là. Vediamo dove si sgorga questa maledetta vasca, prima che restiamo tutti annegati».



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