venerdì 30 ottobre 2015

La leadership politica nell'età moderna: Archie Brown


Mi sembra che sia sbagliato assimilare la leadership moderna e quella postmoderna, ma vedremo [SGA].

Archie Brown: The myth of strong lea­der. Poli­ti­cal lea­der­ship in modern age, Vin­tage Books, Lon­don, pp. 466, £. 11.99

Risvolto
In this magisterial and wide-ranging survey of political leadership over the past hundred years, Archie Brown challenges the widespread belief that strong leaders – those who dominate their colleagues and the policy-making process – are the most successful and admirable. 
Within authoritarian regimes, a more collective leadership is a lesser evil compared with personal dictatorship where cultivation of the myth of the strong leader is often a prelude to oppression and carnage. Within democracies, although ‘strong leaders’ are seldom as strong or independent as they purport to be, the idea that one person is entitled to take the big decisions is dangerous nonetheless, and the advantages of a collegial style of leadership are too often overlooked.

In reality, only a minority of political leaders make a big difference, by challenging assumptions about the politically possible or setting in motion systemic change. Yet in a democracy that is rare. It is especially when enlightened leaders acquire power in an authoritarian system that the opportunity for radical transformation occurs.
Franklin D. Roosevelt and Lyndon B. Johnson, Willy Brandt and Mikhail Gorbachev, Deng Xiaoping and Nelson Mandela, Margaret Thatcher and Tony Blair are among the leaders whom Brown examines in this original and illuminating study.

Guardian 
Telegraph
WSJ
Historytoday

L’invenzione della star politica Saggi. La genesi della figura del «leader forte» in un libro dello studioso Archie Brown Francesco Marchianò Manifesto 30.10.2015, 0:25
Molti miti, si sa, sono duri a morire, spe­cial­mente in poli­tica dove il mito spesso supera la realtà e si impone come visione delle cose. Uno dei miti pre­va­lenti, che si è affer­mato negli ultimi tempi, spe­cial­mente nel nostro Paese, è quello che attri­bui­sce al lea­der poli­tico un ruolo essen­ziale per vin­cere le ele­zioni. Un vero lea­der, però, non è tale solo per la capa­cità di rac­colta del con­senso. Il suo valore si misura soprat­tutto nell’incontro con il potere e nelle moda­lità con le quali lo gesti­sce. E’ qui che si può trac­ciare una linea tra i vari lea­der e vedere quanti siano riu­sciti a impri­mere una trac­cia impor­tante nel loro ruolo e quanti no. Per com­piere que­sta ope­ra­zione, occorre però porsi alcune domande: coloro che sono pas­sati alla sto­ria come lea­der forti, sono stati dav­vero tali? Hanno inter­pre­tato sem­pre in maniera per­so­nale il pro­prio ruolo, o devono in realtà gran parte del pro­prio suc­cesso a un’abile azione col­le­giale, sapien­te­mente masche­rata da potere per­so­nale? E, soprat­tutto, la demo­cra­zia ha biso­gno del lea­der forte o que­sto è un ruolo più adatto ad altri regimi?
Un volume apparso nel Regno Unito (The myth of strong lea­der. Poli­ti­cal lea­der­ship in modern age, Vin­tage Books, Lon­don, pp. 466, £. 11.99), e pur­troppo ancora non tra­dotto nel nostro Paese, pene­tra con effi­ca­cia in que­sti inter­ro­ga­tivi e prova ad annul­lare tanta falsa coscienza che si è impo­sta troppo fret­to­lo­sa­mente nel nostro dibat­tito. L’autore, Archie Brown, pro­fes­sore eme­rito all’università di Oxford, parte spie­gando che per com­pren­dere la lea­der­ship è fon­da­men­tale l’analisi del con­te­sto sociale, eco­no­mico e cul­tu­rale. Ciò per­mette di distin­guere diversi ambiti nei quali la lea­der­ship assume signi­fi­cati e valori diversi e aiuta a capire che sono spesso i grandi muta­menti, come le crisi, la povertà o le guerre, a far emer­gere un lea­der e non le sue pre­sunte virtù innate.
Lo stu­dioso si inca­rica di sfa­tare molti miti legati al ruolo del lea­der o, quanto meno, a evi­den­ziare la scarsa scien­ti­fi­cità di alcune tesi a par­tire da quella che ritiene il fat­tore lea­der deci­sivo nell’esito elet­to­rale. Citando molte ricer­che com­pa­rate su diversi paesi, Brown giunge alla con­clu­sione che que­sto assunto «è sem­pli­ce­mente sba­gliato». I dati, infatti, dimo­strano che ben altri fat­tori inter­ven­gono nella scelta degli elet­tori, orien­tan­dola in maniera deter­mi­nante. Certo, per­mane un’influenza del lea­der, ma quel che più conta resta il con­te­sto. Per­sino nei sistemi pre­si­den­ziali, dove per natura il voto è con­cen­trato sulla per­sona, l’enfasi sul lea­der andrebbe con­te­nuta come dimo­stre­reb­bero i casi di Ken­nedy e Obama, rite­nuti vin­ci­tori soprat­tutto per la loro per­so­na­lità. Per l’autore, infatti, il con­te­sto delle ele­zioni del 1960, quando Ken­nedy scon­fisse Nixon, e quello del 2008 nel quale Barack Obama pre­valse su McCain, era for­te­mente sbi­lan­ciato a favore dei Demo­cra­tici che, con ogni pro­ba­bi­lità, avreb­bero vinto anche con un altro candidato.
La parte più cor­posa del volume è dedi­cata alla clas­si­fi­ca­zione dei modelli secondo i quali è pos­si­bile cata­lo­gare la lea­der­ship poli­tica nell’età moderna. Una prima cate­go­ria pre­sen­tata è quella del rede­fi­ning lea­der, cioè di un lea­der in grado di porre in essere cam­bia­menti radi­cali senza però mutare il sistema poli­tico. Si tratta di casi nei quali il lea­der, dispo­nendo di mag­giori risorse poli­ti­che, può essere il motore di que­sto cam­bia­mento; tut­ta­via, spiega Brown, molto spesso il suc­cesso di que­sto tipo di lea­der è il pro­dotto di un’azione col­let­tiva. Rien­trano in que­sta cate­go­ria i casi di Frank­lin D. Roo­sel­vet, Lyn­don B. John­son e Mar­ga­ret Thatcher.
Un modello che spicca nelle pro­po­ste di Brown è quello della «lea­der­ship tra­sfor­ma­zio­nale». Con ciò egli si rife­ri­sce a quel tipo di lea­der­ship in grado di ope­rare un vero e pro­prio cam­bia­mento di sistema, poli­tico o eco­no­mico, sia per il pro­prio paese che, in casi più rari, per il con­te­sto inter­na­zio­nale. L’importante è che que­sto cam­bia­mento non sia vio­lento, come nel caso della lea­der­ship rivo­lu­zio­na­ria, sulla quale l’autore è più scet­tico. I casi pre­sen­tati come para­dig­ma­tici della lea­der­ship tra­sfor­ma­zio­nale sono quello di de Gaulle in Fran­cia, quello di Suá­rez nella Spa­gna post­fran­chi­sta, quello di Gor­ba­chev in Urss, quello di Deng Xiao­ping in Cina e quello di Nel­son Man­dela in Suda­frica. Pur con le varie dif­fe­renze, anche nei casi di lea­der tra­sfor­ma­zio­nali non bastano le qua­lità per­so­nali a spie­gare tutto. Cia­scuno di que­sti lea­der presi in esami si distin­gue, ovvia­mente, per aver messo in rilievo nei pro­cessi di muta­mento alcune carat­te­ri­sti­che per­so­nali più di altre, ma molto è dipeso dalle deter­mi­nate cir­co­stanze che hanno influito sugli esiti della loro azione.
Il modello di lea­der­ship di mag­gior suc­cesso, sostiene Brown, è quello del lea­der «debole» cioè colui il quale media con i suoi col­le­ghi, si con­sulta, ha un atteg­gia­mento aperto e valo­rizza il più pos­si­bile il plu­ra­li­smo. Un modello per­fet­ta­mente demo­cra­tico visto che la lea­der­ship forte è tipica dei regimi auto­ri­tari i cui casi citati, cioè Mus­so­lini, Hitler e Sta­lin, «sono l’apoteosi dell’illusione che ciò di cui l’umanità ha biso­gno sia un lea­der forte».
Il recu­pero di una dimen­sione col­le­giale è auspi­ca­bile, per Brown, non solo nelle sedi isti­tu­zio­nali ma anche nei par­titi che, più che pun­tare sui lea­der, dovreb­bero costruire con­senso su idee, valori e pro­grammi. Al con­tra­rio «i lea­der che cre­dono di avere un diritto per­so­nale a domi­nare il pro­cesso deci­sio­nale in diversi set­tori della poli­tica e che cer­cano di eser­ci­tare tale pre­ro­ga­tiva fanno un cat­tivo ser­vi­zio sia al buon governo che alla demo­cra­zia. Essi non meri­tano seguaci, ma critici».
Una lezione che qui in Ita­lia fati­chiamo a fare nostra.

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