Quando arrivammo, con il freddo che faceva e con il Borsalino grigio in
testa, mi disse soltanto: «Tu sei ancora giovane, ma io sto perdendo
tutti i miei amici, pensa come ci si sente». In effetti, non lo sapevo
ancora come ci sente, l’avrei saputo più tardi.
Nel cortile del Cinquecento, a due passi dal Fondo manoscritti che negli
ultimi anni era stato la creatura più cara di Maria, fu un funerale con
tante persone e insieme molto raccolto: Dante Isella, che aveva avuto
diverse polemiche filologiche con lei (Fenoglio, Montale...), era lì
anche se faceva fatica a camminare, avendo avuto un incidente in casa.
Ricordo che si tolse il cappello per mostrarmi la cicatrice alla testa.
C’era Umberto Eco, che con la Corti, con Paolo Volponi, Antonio Porta e
altri aveva fondato il mensile di battaglia culturale e di critica
«Alfabeta» e che parlò dello spirito da «ragazzina» di Maria, del suo
entusiasmo vitale nella ricerca; c’erano Gianluigi Beccaria e Bice
Mortara Garavelli venuti da Torino, più giovani allievi dello stesso suo
maestro (di Maria Corti, ma anche di Segre): il linguista Benvenuto
Terracini. Non c’era il grande filologo, solitario e fraterno, Cesare
Bozzetti, della stessa scuola pavese, perché era morto tre anni prima:
ma era come se fosse presente, c’erano i suoi tanti fedelissimi allievi,
un paio dei quali erano già in cattedra.
C’erano gli allievi della Corti che lei chiamava ancora «figlioli» e
«figliole» (specialmente quando aveva da sgridarli o da spronarli) e che
già insegnavano a Pavia: Angelo Stella, Maria Antonietta Grignani,
Silvia Isella. E molti altri. Ricordo che la commozione interruppe
Stella quando provò a dire che Maria era spirata serenamente.
C’era anche Mauro Bersani, che si era laureato con lei all’inizio degli
anni Ottanta ed era allora (come oggi) editor einaudiano; c’era il
ticinese Fabio Pusterla, anche lui laureato in Storia della lingua e
tenuto a battesimo dalla Corti come poeta. In un angolo c’era il vecchio
amico Roberto Cerati, storico direttore commerciale dell’Einaudi; c’era
Paolo Mauri della «Repubblica», il quotidiano per cui aveva sempre
collaborato; non c’era Giorgio Orelli perché con Mimma, sua moglie,
sarebbe andato il giorno dopo a Pellio in valle Intelvi (il paese della
madre) per salutare l’amica; c’era Peppo Pontiggia, che avrebbe avuto
ancora soltanto un anno di vita; c’era Giulia Maldifassi, che era più
che un capo ufficio stampa alla Feltrinelli; c’era la Bompiani, con
Elisabetta Sgarbi, Mario Andreose e Benedetta Centovalli: alla Bompiani
Maria curava una collana da anni; c’era Anna Grazia D’Oria della Manni,
editrice della sua Lecce, del suo Salento, terra del padre. Credo che ci
fosse anche Alberto Arbasino, i cui manoscritti Maria volle a Pavia;
c’era l’amico Emilio Tadini: qualche volta ci si trovava a cena tutti
insieme nella sua casa-atelier, in via Jommelli. C’era un mondo.
Era questo l’incantesimo di Maria Corti. Il mondo. Quel mondo. In
fondo non è passato molto tempo: neanche quindici anni, ma è cambiato
tutto, il mondo, appunto. Quel mondo.
Maria Corti non era solo Maria Corti, ma era anche quel mondo di
maestri, di allievi, di vecchi e giovani amici, di affetti, di amici-
nemici, di scrittori amati, di editori ed ex editori, di colleghi temuti
e rispettati.
Negli ultimi anni il suo mondo si era allargato alle ombre: quelle
del Fondo manoscritti, i tanti scrittori le cui carte ha voluto
conservare perché venissero studiate, gli autori «entrati nel passato di
chi li ricorda», quelli che «proiettano la loro assenza sul nostro
presente», diceva, e che con il loro aspetto di ombre appartenevano a
una categoria nuova della realtà. La loro assenza non era dolore e
neanche nostalgia, ma felicità mentale allo stato puro, nuova idea di
tempo proiettata nel futuro: con la stessa felicità mentale Maria Corti
era filologa e semiologa, teorica della letteratura e analista dello
stile, parlava di Cavalcanti e di Fenoglio, dell’Ulisse di Dante,
dell’aristotelismo radicale, del rock demenziale, del Sessantotto
italiano (che si ostinava a pensare precedente a quello francese: una
sera a cena non parlò d’altro, aveva appena trovato documenti per lei
fondamentali che lo provavano), delle lettere di Calvino a Elsa De
Giorgi, che considerava l’epistolario d’amore più bello del Novecento e
riteneva scandaloso il divieto di pubblicarlo imposto dalla famiglia.
Il titolo di Maria Corti che meglio la definisce è quello sotto
cui raccolse i saggi danteschi: La felicità mentale, del 1983, dedicato a
suo padre e a Terracini. Felicità significa illuminazione
dell’intelligenza, passione, gioia e fatica della ricerca, ma anche
«attenzione alla vita in ogni forma», come ha scritto Pusterla in un
ritratto in versi. Questa era Maria Corti. Quando t’incontrava voleva
sapere del lavoro, delle letture, delle ricerche, degli incontri ultimi,
e se ti sapeva in difficoltà ti chiedeva dei figli (lei che non ne
aveva avuti dava consigli su come tirarli su), della moglie o della
compagna, ti dava consigli da zia amorevole e severa. Non per cortesia e
tanto meno per pettegolezzo, ma per autentica curiosità intellettuale e
adesione umana. Il suo era un senso di fiducia nel (suo) mondo,
contagioso, irradiante — talmente positivo che a volte poteva apparire
ingenuo — nella cultura, nella conoscenza, nei rapporti umani. Con tutta
la serietà e il senso del dovere anche arcigno, e con tutta la forza
che questo comportava (specialmente per una donna in un contesto di
uomini).
Negli ultimi tempi era raggiante quando depositava in cataste
sotto la sua casa di via San Vincenzo certi romanzi che non le
interessavano o alcuni doppioni. Diceva con un sorriso: «Pensa,
spariscono quasi subito, significa che la gente ha proprio voglia di
leggere, di imparare, se gliene dai la possibilità...». Poi qualcuno
scoprì che molti di quei libri venivano portati via per essere rivenduti
alle bancarelle, ma ce ne guardammo bene dal dirglielo.
Una mostra celebra a Pavia il centenario della studiosa che risolveva i “casi” della letteratura
Una detective chiamata Maria Corti FRANCESCO ERBANI Reppubblica 7 ottobre 2015
Maria Corti amava la montagna. E soprattutto le sue montagne frondose della Val d’Intelvi, fra i laghi di Como e di Lugano. Per far capire come procedeva in un accertamento filologico usava di frequente metafore montanare. E chi l’ascoltava se la raffigurava, concentrata sulle fonti islamiche di Dante o sui quaderni di Beppe Fenoglio, quasi s’inerpicasse veloce lungo vie ferrate, ma sempre attenta a dove poggiava gli scarponi. Di metafora in metafora, ecco che si parla di Maria Corti come di una Perry Mason della filologia nella mostra che si apre domani a Pavia affidata alla responsabilità di Maria Antonietta Grignani.
La mostra ripercorre, a cent’anni dalla nascita (il 7 settembre del 1915), l’eccezionale carriera di una studiosa che non si chiuse mai in una gabbia
specialistica, pur avendone diritto visti i meriti acquistati. Estese indagini che di solito si limitavano alle carte trecentesche, o giù di lì, agli autori novecenteschi fino ai contemporanei, i cui manoscritti raccolse nel Centro da lei fondato nel 1968. Studiò le parole del Sessantotto e la lingua del gruppo rock degli Skiantos. E scrisse, oltre a una miriade di saggi ( I metodi attuali della critica – insieme a Cesare Segre –, Principi della comunicazione letteraria , Il viaggio testuale , La felicità mentale ), Ombre dal fondo e Catasto magico che definiva «scritture narrative». Nel primo immaginava che gli autori le cui carte aveva conservato a Pavia si rianimassero. Nel secondo raccoglieva quel che l’Etna, un generatore formidabile di erudizione, produceva ancora in termini di storie, alimentando una continua facoltà di fantasticare. Poi nel 1979 fu tra i fondatori di Alfabeta. E ancora, fino alla morte nel 2002, fu collaboratrice di Repubblica . «La sua attività creativa è stata sottovalutata rispetto a quella scientifica », dice Grignani, che ha lavorato con Corti dalla fine degli anni Sessanta. «Ma la creazione del Centro manoscritti è tanto opera di studiosa, quanto di scrittrice: più che la microstilistica, la interessano i percorsi degli autori, le cancellazioni, le contraddizioni prima che si giunga alla versione definitiva di un testo». Ma in che cosa consiste la propensione investigativa che mette Corti al pari del celebre avvocato americano? Nella mostra di Pavia, con tanti materiali e con un video di Paolo Lipari, si ricostruisce una delle sue più laboriose indagini, del genere cold case : individuare l’autore di un poemetto cinquecentesco, il Delphili somnium (dell’indagine Corti ha scritto in un saggio poi raccolto in Nuovi metodi e fantasmi ). Padre Giovanni Pozzi, altro grande filologo, aveva attribuito il poemetto a Francesco Colonna, al quale veniva ascritta anche l’ Hypnerotomachia Poliphili .
Corti inizia a dubitare a prima vista. Il testo, che a Pozzi appariva d’ambiente veneto, ha qualcosa che invece lo fa slittare in Emilia. Ma un dubbio non basta di fronte alla sicurezza d’un esperto detective come Pozzi.
Bisogna inoltrarsi in sentieri impervi. E concentrarsi su un luogo dove l’autore ambienta un amore infantile: secondo Pozzi, è una città veneta. Secondo Corti, un castello. Corti demolisce a colpi di fioretto le ipotesi di Pozzi sul contesto paesaggistico nel quale l’autore colloca la sua storia, sull’età in cui fu colto dalla passione e su chi fosse la creatura amata. Quindi il colpo di scena. «Mi è lecito affermare», sentenzia a un certo punto, che i particolari elencati nel poemetto «trovano esatta rispondenza nel castello di Momeliano», nell’Appennino piacentino. Non è una supposizione topografica. In quel castello Corti si reca di persona, ottiene dai proprietari di perlustrarlo stanza per stanza, usando il poemetto come guida. Corti compulsa poi archivi parrocchiali e risale alla famiglia Ceresa, che possedeva il castello fra la fine del Quattrocento e i primi del Cinquecento. Il cui rampollo, Marco Antonio, è l’autore del Delphili somnium . Il cerchio si chiude. Molti colleghi plaudono all’attribuzione. Ancora per qualche anno l’autore del poemetto rimane solo un nome. Poi una serie di accertamenti compiuti da un altro studioso, Giorgio Fiori, consentono di dargli la paternità di diverse opere. Con soddisfazione del detective Maria Corti, che può esclamare: «Era un’ombra, un fantasma, ora non lo è più».
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