ROMA Il Bomba ne fa un’altra delle sue? «Sarebbe profondamente negativo se il governo intervenisse d’autoritá per scrivere le nuove regole della contrattazione», fa subito sapere Cesare Damiano, dopo aver letto su un quotidiano che l’esecutivo di Matteo Renzi vuole lanciare il salario minimo. Cancellando il contratto nazionale.
Casini: se la sinistra dem si tira fuori e rende Verdini determinante, si suicida davverodi Tommaso Ciriaco Repubblica 7.10.15
ROMA L’elezione del Presidente della Repubblica cambia ancora. Con cento delegati territoriali si allarga la platea dei grandi elettori. Dal sesto scrutinio, però, basterà la maggioranza assoluta - e non più i tre quinti dei votanti per individuare il nuovo inquilino del Colle. Così prevede la bozza d’intesa che ambasciatori del renzismo e bersaniani si scambiano freneticamente alla vigilia del rush finale sulle riforme. Non tutto è ancora deciso, perché pesano pure le virgole. E molto si deciderà stamane in un vertice convocato all’alba per ufficializzare l’ultimo restyling del ddl Boschi.
Nel Partito democratico l’accordo è a un passo. Eppure il diavolo - come al solito - si mimetizza nei dettagli. Si è capito ieri, nel corso di una frenetica giornata di mediazioni, accelerazioni e brusche frenate. Un primo step alle nove, con Luigi Zanda e Anna Finocchiaro, Giorgio Tonini e i bersaniani. Poi un nuovo incontro alle undici, assieme al ministro Boschi. Fino a un summit serale, sconvocato solo all’ultimo a causa di un’influenza del capogruppo. Si tratta a oltranza, nessuno scopre fino in fondo le carte. «Noi vogliamo un’intesa», giura il ministro. «Possiamo siglarla, ma cambi anche la norma transitoria in modo da garantire fin da subito l’elettività diretta dei senatori », replicano i mediatori della sinistra dem Vannino Chiti, Maurizio Vigliavacca e Doris Lo Moro.
Da qualche settimana nel quartier generale del renzismo si è fatta spazio una preoccupazione: il meccanismo per eleggere il Capo dello Stato non funziona. Timori riassunti dal costituzionalista Stefano Ceccanti: «Con la norma attuale servono i tre quinti dei parlamentari a eleggere il Presidente». Vale a dire 438 su 730. «E siccome la maggioranza alla Camera potrà contare su 340 deputati- ricorda sempre Ceccanti - occorerebbe tutti e cento i senatori per scegliere il Capo dello Stato. Impossibile, a meno che non sia l’opposizione a decidere il candidato». Lo spettro, insomma, è la palude. Con decine di scrutini e uno stallo che precipiterebbe il Paese nel caos.
Serve una “norma di chiusura”, si sgola da tempo il sottosegretario Luciano Pizzetti. Ritoccando il quorum, introducendo la maggioranza assoluta dal sesto scrutinio. Il prezzo da pagare con la minoranza, fra l’altro, non sembra poi neanche troppo salato. «Un aumento significativo della platea dei grandi elettori», ha sintetizzato Chiti. Quanto significativa? Per i bersaniani occorre coinvolgere i 58 delegati regionali (cancellati dall’attuale testo) e affiancarli ai 73 eurodeputati. Oppure arruolare alla causa anche un’ulteriore pattuglia di sindaci. Impossibile far votare il Capo dello Stato da chi è stato eletto a Bruxelles, è stata la replica del governo. E meglio sarebbe tenere fuori anche i primi cittadini. Si ragiona allora attorno all’ipotesi dei cento grandi elettori regionali. Con un’obiezione, targata Boschi: in questo schema il peso delle Regioni diventerebbe addirittura eccessivo.
Il vero bersaglio della minoranza è però un altro: la norma transitoria che governa l’elettività diretta dei nuovi senatori. Senza indicazioni costituzionali stringenti ai consigli regionali, a Palazzo Madama planerebbero nuovi nominati. «Dobbiamo metterci mano. È come se avessimo fatto un preliminare di vendita, adesso serve il rogito - è l’immagine offerta da Massimo Mucchetti - Altrimenti significa che ci hanno preso in giro». Anche qui la mediazione è a portata di mano. La modifica, studiata da Lo Moro, prevede che ogni elezione regionale contemporanea o successiva all’insediamento del nuovo Senato si svolga con l’elezione diretta dei senatori. Con sanzioni alle Regioni che non si adeguano.
Bisogna percorrere solo l’ultimo miglio, ma gli ostacoli non mancano. Se qualcosa dovesse andare storto, la rappresaglia della minoranza si consumerebbe proprio sulla norma transitoria. «Se non cambia - giura Mucchetti - noi non la votiamo». Bastone e carota, minacce e carezze. «Se la sinistra democratica si tira fuori - ragiona Pierferdinando Casini- rende Verdini determinante. Di fatto, si tratterebbe di un suicidio». Tutto o quasi dipende dal Pd. Le opposizioni restano a guardare, ma intanto bocciano l’idea di cambiare il meccanismo per il Quirinale. Troppo potere a chi vince le elezioni, attacca Romani. Un colpo di mano, per i grillini. «Quando si limita la democrazia - si infuria il capogruppo pentastelalto Gianluca Castaldi siamo sempre contrari».
In realtà, attaccare il presidente del Senato sembra piuttosto un modo per nascondere la propria debolezza; e per scaricare sulla seconda carica dello Stato la responsabilità della sconfitta che si va delineando. L’ironia amara di Pier Ferdinando Casini prelude ad un esito scontato. «Devo andare a votare il mio suicidio. Siamo i primi al mondo a votare per la nostra abolizione come senatori», ha detto lasciando il Forum Italia-America Latina. Negli scrutini segreti la maggioranza oscilla tra i 150 ed i 160 voti. Pochi, ma lo scarto rispetto agli avversari rimane di una ventina. Troppi, per bloccare la riforma: anche se il metodo sbrigativo del governo crea un precedente discutibile.
Senato, la maggioranza corre da sola
Finito l’ostruzionismo ma il governo non concede nulla
La minoranza Pd cede di schianto. Il nuovo capo dello stato sarà un affare del primo partitodi Andrea Fabozzi il manifesto 8.10.15
Dunque con la nuova Costituzione il governo potrà imporre al parlamento di votare i suoi disegni di legge entro una data fissa e fare decreti anche in materia elettorale; il partito che vincerà le elezioni con la nuova legge Italicum potrà dichiarare in solitudine lo stato di guerra — e nel caso prorogare la durata della legislatura — e persino eleggere da sé il presidente della Repubblica. Lo ha stabilito in un solo giorno di lavoro il senato, respingendo ogni emendamento delle opposizioni alla riforma costituzionale. Il tema del racconto è quello in auge del superamento del bicameralismo paritario. Lo svolgimento, come dimostra la giornata di ieri, è una sostanziale modifica della forma di governo, con più potere all’esecutivo e meno al parlamento. Con la collaborazione decisiva dei senatori di Verdini, l’appoggio tempestivo nell’unico passaggio a rischio di Forza Italia e la resa definitiva della minoranza Pd.
Nel primo voto palese e nei primi due voti segreti lo schieramento che sta cambiando la Costituzione si è confermato lontano dalla maggioranza assoluta, 161 voti, del senato; non è andato oltre i 145. I senatori di Verdini inchiodati a votare ai loro banchi in alto a destra vengono ricompensati: sono stabilmente decisivi per il governo. Tra due sedute rientreranno anche i due gesticolanti espulsi per oscenità, Barani e D’Anna. Sarà la riforma costituzionale ad aspettarli, perché con la rinuncia delle opposizioni all’ostruzionismo — l’unico punto sul quale ha retto il fronte del no da Lega a Sel — il disegno di legge di revisione costituzionale corre. L’esame degli articoli potrebbe concludersi tra oggi e domani. Il voto finale resta in calendario per martedì, una diretta tv senza sorprese.
In aula il governo che giura di essere disponibile a discutere «nel merito» dà parere negativo a tutti gli emendamenti dell’opposizione (tranne a quelli a voto segreto sui quali non vuole correre rischi). La maggioranza che quotidianamente bacchetta le opposizioni perché non fanno proposte «nel merito» si adegua monolitica, nel Pd si segnalano a tratti solo i voti contrari di Mineo e Tocci, e l’astensione di Casson. Gli articoli da 12 a 16 passano senza storia, compresa la novità della legge elettorale che potrà essere sottoposta alla Consulta prima della promulgazione ma solo per iniziativa di una minoranza di parlamentari. La Corte aveva raccomandato di togliere questa connotazione politica alla richiesta, rendendola automatica. La sinistra Pd si era detta d’accordo. Ma l’esigenza del governo di non cambiare niente e fare presto ha prevalso anche qui. Di questo passo sono solo tre, fino a qui, gli articoli che dovranno tornare al senato per completare la prima lettura: 1, 2 e 30 sul quale ieri il governo ha deciso di intervenire. Male, perché ha inserito le politiche sociali e il commercio con l’estero tra le materie che potranno essere devolute alle regioni a statuto ordinario.
Nell’unico punto in cui il governo ha un po’ ballato, c’è stato rapido il sostegno di Forza Italia. Articolo 17, stato di guerra. Anche qui nessun cambio, la dichiarazione di belligeranza resta a disposizione della maggioranza assoluta della camera. Cioè quella che l’Italicum garantisce al primo partito con i suoi 340 seggi (oggi non è così perché deve votare anche il senato). Stavolta l’emendamento per alzare il quorum veniva dalla minoranza Pd, l’unico non ritirato in nome dell’accordo con Renzi, forse perché firmato non da un bersaniano ma dalla bindiana Dirindin. Con 14 senatori Pd a favore e 11 spariti dall’aula poteva passare, non fosse che Forza Italia è tornata a votare con il governo (con l’argomento che se il paese venisse invaso e qualche deputato sequestrato dai nemici, il quorum troppo alto potrebbe essere un problema). Ventinove no decisivi, sommati a qualche astensione, molte assenze e il soccorso delle tre senatrici del gruppo dell’ex leghista Tosi. Dichiarare guerra sarà più facile, ma resta intatto l’articolo 60 in base al quale in caso di guerra una legge ordinaria può prorogare la durata della camera e rimandare le elezioni.
La Lega ha accusato in aula gli alleati berlusconiani di essersi svenduti agli avversari: «È il ritorno del patto del Nazareno». Ma può bastare la comunanza di idee sull’argomento bellico a spiegare la liaison. L’episodio giustifica però la rottura del patto delle opposizioni, durato un solo giorno. Unito a una lettera al presidente della Repubblica che quelli di Forza Italia hanno diffuso alla stampa prima che tutti gli altri gruppi decidessero di firmarla. Alla fine sono stati solo gli azzurri a rivolgersi al Colle. E i grillini, che però hanno spiegato di averlo già fatto due settimane fa. Alle minoranze, penalizzate dal trasformismo e da una conduzione d’aula filo governo del presidente Grasso, non resta che studiare mosse di opposizione visibili e comprensibili per accompagnare l’approvazione della riforma. La Lega ha cominciato ieri pomeriggio il suo Aventino, i 5 stelle hanno sfilato le tessere dai banchi per sventolarle.
La minoranza Pd ha ceduto di schianto sull’articolo 21, quello che prevede quorum per l’elezione del presidente della Repubblica per niente impossibili per chi vincerà con l’Italicum. Fatti i calcoli, dal quarto scrutinio in poi mancherebbero al primo partito non più di 34 voti. Assai facilmente recuperabili, vista la capacità di attrazione dei vincitori. Il successore di Mattarella sarà votato alla fine della prossima legislatura; in questa i gruppi democratici sono già cresciuti di 23 parlamentari. Nemmeno l’articolo 21 è stato cambiato. In cambio della rinuncia ad allargare la platea dei grandi elettori (fino a ieri imprescindibile), la minoranza Pd ha ottenuto una promessa sull’articolo 39, la norma transitoria che di fatto sterilizza la più grande conquista dei bersaniani, l’indicazione dei nuovi senatori da parte degli elettori. Il governo presenterà oggi una sua proposta di modifica. Sarà una mezza soluzione, visto che l’intoppo è al primo comma dell’articolo 39, che non si può più toccare. Il principio della doppia lettura conforme che la fronda dem ha accettato per l’articolo 2 vale anche qui.
L’ipotesi di aumentare gli sconti fiscali sugli integrativi aziendali
di Lorenzo Salvia Corriere 8.10.15
ROMA Dopo la rottura, la metafora calcistica. Sulla riforma dei contratti — che dovrebbe dare maggiore spazio agli accordi aziendali e territoriali rispetto al contratto nazionale — il segretario della Cgil attacca il presidente di Confindustria, che aveva parlato di capitolo chiuso: «Una dichiarazione straniante — dice Susanna Camusso — siccome il pallone non è quello con cui gioco io, non voglio più giocare». Giorgio Squinzi, intervistato da Virus di Raidue, ribatte: «È un po’ come se uno volesse giocare e gli altri no. Allora uno si stufa e se ne va». Dietro il botta e risposta ci sono due novità.
La prima è che Cgil, Cisl e Uil ieri si sono dette pronte a sedersi di nuovo al tavolo, per discutere sia la riforma generale dei contratti sia i rinnovi dei contratti delle singole categorie. Una posizione condivisa ma sulla quale ha spinto soprattutto il segretario della Cisl, Annamaria Furlan. L’apertura, però, è stata accolta dal silenzio di Confindustria. E dalle parole del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che ha confermato la linea del governo: «Aspettiamo, ma non potremo aspettare in eterno». Cioè, senza un accordo tra sindacati e Confindustria il governo interverrà con un disegno di legge che potrebbe riguardare tutto, non solo il potenziamento dei contratti aziendali ma anche la rappresentanza, forse pure gli scioperi e il salario minimo, la misura che i sindacati criticano con più energia. Un segnale, però, potrebbe arrivare molto prima, ed è questa la seconda novità.
Nel disegno di legge di Stabilità, che il governo presenterà la prossima settimana, si studia il potenziamento degli incentivi fiscali proprio per gli accordi aziendali. Finora gli incentivi hanno riguardato chi guadagna fino a 30 mila euro lordi l’anno con un tetto ai benefit defiscalizzati di 2 mila euro l’anno e una spesa per lo Stato di 300 milioni di euro. La soglia di reddito potrebbe essere portata a 40 mila euro, allargando il numero dei lavoratori coinvolti. Sarebbe un potenziamento «di fatto» dei contratti aziendali. Ma la misura costa. E tutto dipende dalle altre infinite voci della Legge di Stabilità.
Poletti: non aspettiamo in eterno, senza intesa interverremo.Vertice tra Cgil, Cisl e Uildi Luisa Grion Repubblica 8.10.15
ROMA Aspetterà, ma non per molto: il governo è pronto ad intervenire sulla riforma del modello contrattuale. Se Confindustria e sindacato non troveranno a breve un accordo sul come scrivere le nuove regole dei rapporti di lavoro, della questione se ne occuperà direttamente Palazzo Chigi.
Dopo le parole pronunciate ieri da Giorgio Squinzi, presidente Confindustria («il capitolo è chiuso, non ci sono margini di trattativa» aveva detto) da Giuliano Poletti, ministro del Lavoro, è arrivato un messaggio chiaro: «Questo è un tema tipico delle parti sociali, noi aspettiamo, ma non potremo aspettare in eterno. O troveranno il modo di far ripartire il confronto, o il governo si prenderà le proprie responsabilità, cercando di interpretare l’interesse generale del Paese». Il pericolo che le norme su contratti aziendali, integrativi e territoriali possano passare sopra la testa delle parti sociali è quindi sempre più serio. E i sindacati sanno che questa, per loro, sarebbe una pesante sconfitta. Il governo , infatti, ha lasciato intendere che la soluzione potrebbe essere quella di introdurre il salario minimo superando così il contratto nazionale. «Sulla questione il governo non ha voluto esercitare la delega - ha detto Poletti - proprio per evitare di aprire un problema a fronte della volontà e della necessità che le parti trovino un’intesa».
Ecco quindi che al di là delle singole posizioni sul caso, Cgil, Cisl e Uil ieri si sono ricompattate per rilanciare la palla dall’altra parte del campo e ribadire che c’è un fronte comune. Sono pronti a portare avanti i rinnovi (7 milioni di lavoratori in attesa, con le piattaforme già presentate) e la riforma su due tavoli, assicurano. Superando le divisioni finora manifestate (all’ultimo incontro con Confindustria si è presentata solo la Cisl) «adesso siamo tutti e tre d’accordo». «Spero che Squinzi domani si svegli e dica di riprendere la discussione - ha commentato Carmelo Barbagallo leader della Uil - ma non perda tempo e non si aspetti sconti». In realtà le diversità di vedute all’interno dal fronte sindacale restano, tanto che Annamaria Furlan fa un appello «ad abbandonare i nervosismi, sarebbe troppo facile rimuovere il problema e affidarlo a terzi».
Il fronte in difesa del contratto nazionale è comunque variegato e va dalla Fiom di Maurizio Landini alla Confcommercio di Carlo Sangalli. «Confindustria sceglie una strada che mette in discussione i contratti nazionali e la contrattazione, secondo me sbagliando. Questo significa non solo aprire lo scontro nel Paese, ma affermare un’idea di impresa fondata su bassi salari e su bassa qualità» ha commentato Landini. Secondo Sangalli: «Per le piccole imprese, la valenza di un contratto nazionale è insostituibile, una legge uguale per tutti sarebbe controproducente».
Quella sfida ai sindacati che riguarda anche il capitale
di Dario Di Vico Corriere 9.10.15
A qualche mese dal suo avvicendamento il leader di Confindustria Squinzi si trova a gestire una fase di straordinaria discontinuità con opportunità e rischi. L’opportunità è di riformulare la pratica della rappresentanza delle imprese e di metterla in sintonia con i mutamenti dell’economia post-crisi; il rischio è di rimanere a metà del guado con imprese scettiche e sindacato ancor più ostile.
La questione chiave è che quello che una volta era il monopolio sindacale della tutela del lavoro oggi è diventato uno spazio contendibile.
In teoria l’ultimo scorcio di una presidenza dovrebbe rappresentare per la Confindustria una stagione di ordinaria navigazione e, invece, a qualche mese dal suo avvicendamento Giorgio Squinzi si trova a gestire una fase di straordinaria discontinuità. Che, come è scontato che sia, contiene opportunità e rischi. L’opportunità è quella di riformulare la pratica della rappresentanza delle imprese e di metterla in sintonia con i mutamenti dell’economia post-crisi, il rischio è di rimanere a metà del guado con imprese scettiche e sindacato ancor più ostile. A spingere il gruppo dirigente confindustriale sulla strada della discontinuità è stato, sul piano della cronaca spicciola, l’atteggiamento irriducibile della coppia Barbagallo-Camusso ma se guardiamo alla sostanza dei problemi troviamo alla radice della svolta una certa insoddisfazione verso il tran tran, cresciuta in questi anni nelle associazioni territoriali più vivaci, in parallelo alla volontà di interpretare il sentimento delle aziende-lepri. Quelle che corrono per il mondo e potrebbero maturare l’idea dell’inutilità della rappresentanza. Quindi voler leggere le ultime mosse di Squinzi con la vecchia metafora della colomba diventata falco — per di più in zona Cesarini — è riduttivo, in gioco c’è un potenziale salto di qualità della cultura associativa d’impresa. Che non può essere più quella di sette anni fa, la Grande Crisi se ha cambiato molti dei meccanismi di funzionamento dell’economia reale non poteva, infatti, lasciare inalterata la rappresentanza.
Un dirigente sindacale leggendo queste parole potrà obiettare che non ci dovrebbe essere bisogno di passare da un azzeramento seppur temporaneo del rapporto con Cgil-Cisl-Uil per costruire un associazionismo di qualità. E invece, nella situazione data, è proprio così ma non per colpa degli industriali. La verità è che quello che una volta era il monopolio sindacale della tutela del lavoro oggi è diventato uno spazio contendibile. Nelle aziende globali è l’imprenditore a farsi avanti e a sfidare Cgil-Cisl-Uil, tra i facchini della logistica sono i Cobas, nel terziario metropolitano delle partite Iva è la Rete. In questa grande trasformazione dell’economia e del lavoro sarebbe un guaio se gli industriali restassero con le mani in mano, caso mai sarebbe auspicabile che anche i sindacati dessero prova di altrettanto coraggio e volontà di innovazione. Quando conosceremo il decalogo delle regole che Squinzi ha annunciato potremo valutare con maggiore precisione quanto la Confindustria sia cosciente di ciò che le sta accadendo intorno e quali sono i percorsi che propone, è chiaro comunque che allontanare la contrattazione da Roma e portarla più vicino al mercato e alle persone è una conditio sine qua non per tentare di armonizzare rappresentanza ed economia post-crisi.
Francamente non credo, come pure è stato scritto, che Squinzi stia facendo tutto questo per portare acqua al mulino di Matteo Renzi. Penso che in Confindustria ci si sia resi conto da tempo che il premier ha messo nel mirino i corpi intermedi (anche) per ampliare la tradizionale constituency elettorale del centrosinistra e di conseguenza si sia maturata in Viale dell’Astronomia la convinzione che star fermi sarebbe, quella sì, una scelta complice. Con rappresentanze giurassiche la comunicazione guizzante del premier va, e andrebbe ancora per lungo tempo, a nozze.
Mettendo in discussione le vecchie relazioni industriali Squinzi però deve sapere che si genera un effetto-domino su altri capitoli del rapporto tra la rappresentanza e gli associati. Prendiamo, ad esempio, un tema altrettanto cruciale: la dimensione delle imprese. E’ possibile continuare a sottovalutare come questo sia uno dei passaggi ineludibili per rimettere in corsa il sistema-Italia nella competizione globale? Un’associazione meno concentrata sulla gestione dei contratti nazionali di lavoro dovrà giocoforza fornire nuovi servizi ai suoi iscritti e non potrà che individuare come prioritari di questa fase quelli destinati a favorire la crescita.
Si potrà non amare la Borsa ma l’apertura dell’azionariato, con gli strumenti più vari, è una scelta che non si può rinviare per troppo tempo. Luigi Zingales tempo fa ne parlò come «l’articolo 18 del capitale» e continua a sembrarmi una sintesi efficace.
Interesse generale Il sindacato e quel prestigio perduto
Quando Giuseppe Di Vittorio morì, stroncato da un infarto, avevo 7 anni e giocavo con il trenino elettrico. Era il 1957, e di lui seppi qualcosa solo molto più tardi, nei primi anni ’70, un po’ per bocca di persone che lo avevano conosciuto, un po’ per averne letto sui libri: una materia come “Storia del movimento sindacale” era considerata fondamentale, e molti di noi leggevamo avidamente i libri che parlavano del sindacato. Il sindacato italiano, infatti, aveva allora un enorme prestigio, un fatto che i sondaggi e le inchieste del tempo certificavano regolarmente. Il prestigio del sindacato, a quel che ricordo, raggiunse il suo apice intorno al 1972, quando Trentin, Carniti e Benvenuto fondarono il sindacato unitario dei metalmeccanici, la mitica Flm (Federazione dei Lavoratori Metalmeccanici). Allora l’idea di un sindacato unico, che superasse Cgil-Cisl-Uil, non era affatto vista come qualcosa di autoritario, ma come un mito positivo (un po’ come l’unità europea negli anni ’90), un progetto da perseguire con pazienza e determinazione. L’idea era di “fare come la Flm”, e unire le sigle sindacali in tutti i settori, non solo fra i metalmeccanici.
Di quegli anni e di quel periodo ho un ricordo personale preciso e diretto, perché il mio primo lavoro, prima di iniziare la carriera universitaria, lo ottenni proprio dalla Flm. Sotto la guida di Ivar Oddone - uno straordinario medico e un indimenticabile maestro che, fin dagli anni ’60, aveva inventato un sistema per descrivere e classificare i fattori di nocività negli ambienti di lavoro - mi occupavo di ricostruire analiticamente i cicli produttivi (verniciatura e lastroferratura, soprattutto) per combattere la nocività e i rischi. Allora i morti sul lavoro erano circa 10 al giorno, e una parte cospicua degli incidenti aveva luogo nel settore metalmeccanico.
Questi ricordi lontani si sono affacciati prepotentemente in questi giorni, in cui tanto si è parlato della Cgil di Di Vittorio. Perché non sono abbastanza vecchio da avere un ricordo diretto della Cgil degli anni ’50, ma di quella degli anni ’70, guidata da uomini come Bruno Trentin e Luciano Lama sì. Ebbene il mio ricordo è molto nitido: il segno distintivo di quella stagione fu, nonostante sbagli e incertezze di vari tipi, il senso profondo dell’interesse nazionale. Ricordo, come fosse ieri, la fase di preparazione della piattaforma rivendicativa dei metalmeccanici nel 1972-73, e quali fossero le cose di cui andavamo fieri: erano il miglioramento delle condizioni di lavoro, le 150 ore per lo studio, gli investimenti per creare occupazione nel Mezzogiorno. Sì, avete letto bene: il cuore dell’industria del Nord, che allora era a Torino, chiedeva investimenti nel Sud.
Ecco, al di là delle polemiche di questi giorni, è questo su cui vorrei attirare l’attenzione: il prestigio del sindacato nei primi anni ’70 si fondava sulla sua capacità di porsi come rappresentante di valori e interessi generali. Una capacità non sempre esercitata al meglio, ma che era visibile e riconoscibile su molti terreni: dalla lotta al terrorismo al contrasto della nocività, dalla politica dell’istruzione allo sviluppo del Mezzogiorno.
Oggi, lo dico con amarezza, di tale capacità di interpretare l’interesse generale si vedono ben poche tracce. Il sindacato ha smarrito la capacità di andare oltre la tutela immediata dei propri iscritti, e questo spiega il crollo del suo prestigio presso l’opinione pubblica.
Eppure, quale sia l’interesse generale oggi in Italia dovrebbe essere sufficientemente chiaro a tutti. L’interesse del Paese è di far ripartire la produttività, ferma da 15 anni, e di portare il tasso di crescita a un livello, il 2-3% annuo, che consenta la formazione di un numero di nuovi posti di lavoro significativo (almeno 2 milioni). Questo obiettivo, però potrà essere raggiunto solo se, dell’interesse generale, sapranno farsi carico tutti e tre i principali attori in campo: sindacato, organizzazioni datoriali, governo. Il sindacato dovrà, prima o poi, rendersi conto che il dilemma salari-occupazione non è aggirabile, e che un ulteriore aumento della quota del reddito nazionale che va ai lavoratori dipendenti non può che rallentare la formazione di nuovi posti di lavoro. Dalle organizzazioni datoriali, d’altro canto, è lecito attendersi che divengano pienamente consapevoli che la ricostituzione dei margini di profitto è nell’interesse generale del Paese solo se i profitti si traducono in investimenti produttivi e si abbandona la risposta “ricardiana” alla crisi messa in atto in questi anni: ridurre gli investimenti e liberarsi dei segmenti meno efficienti della forza lavoro (la strada seguita fin qui, fortunatamente non da tutti) non può essere la via maestra per recuperare competitività.
Quanto al governo, che dell’interesse generale dovrebbe essere il primo interprete, quello di cui più si sente l’esigenza è uno sguardo più lungo, meno ossessionato dalla ricerca immediata del consenso, e più attento a creare le condizioni generali che consentono di generare ricchezza, prima fra tutte un allentamento della pressione fiscale sui produttori. È curioso, ad esempio, che nel recente braccio di ferro fra industriali e sindacati sulle quote distributive, nessuno abbia notato che, nell’ultimo triennio, il peso delle imposte indirette nette abbia toccato il massimo storico, qualcosa come 50 miliardi di prelievo in più rispetto alla metà degli anni ’90. Eppure, la torta che va divisa fra salari e profitti, è quel che resta del Pil dopo il prelievo delle imposte indirette nette (qualcosa come 214 miliardi nel 2014). Forse, se lo Stato si decidesse a fare un passo indietro, anche il fisiologico conflitto fra sindacati e datori di lavoro sui livelli salariali potrebbe svolgersi in termini più costruttivi.
Il senatore Pd: parti sociali spaccate, sulla riforma dei contratti iniziativa del governo “Gli accordi collettivi resteranno come rete di sicurezza su tutto tranne che sulle retribuzioni”intervista di Luisa Grion Repubblica 11.10.15
ROMA. Per Pietro Ichino, senatore Pd e giuslavorista, non vi sono dubbi in proposito: «Se sindacato e imprese non troveranno un accordo sulla riforma del sistema contrattuale il governo dovrà intervenire».
Senatore, non la ritiene una invasione di campo?
«Certo che no. La disciplina legislativa della materia è ormai vecchia di un mezzo secolo nel corso del quale è cambiato tutto: è ovvio che vada riscritta. Meglio se con un avviso comune da parte di sindacati e imprenditori. Purché concordino con il governo almeno sugli obiettivi generali e i vincoli da rispettare».
Non vede rischi in questa soluzione?
«C’è il rischio che accada la stessa cosa che accadde nell’estate 2011, con l’articolo 8 del decreto Sacconi, che consentiva al contratto aziendale di derogare a quello nazionale e anche alla legge. Confindustria, Cgil, Cisl e Uil dichiararono concordemente che non si sarebbero avvalse di quella facoltà. Questo, però, comporterebbe un rischio anche per le stesse confederazioni: cioè che pezzi sempre più numerosi del tessuto produttivo escano dal sistema di relazioni industriali che esse rappresentano».
Cosa accade se il governo decide da solo?
«Accade che, su iniziativa del governo, il Parlamento vara una nuova disciplina legislativa delle rappresentanze sindacali aziendali, con la regola per cui la coalizione sindacale che ne ha i requisiti di rappresentatività è legittimata a stipulare un contratto aziendale anche sostitutivo di quello nazionale. E con l’istituzione di un salario minimo orario universale, al di sotto del quale nessuno può andare».
Per le parti sociali cosa significa?
«I minimi salariali stabiliti dai contratti nazionali perdono la valenza che oggi viene attribuita loro dai giudici, di parametro per l’applicazione del principio di “giusta retribuzione”. E le imprese, staccandosi dall’associazione imprenditoriale, possono sperimentare strutture e livelli della retribuzione diversi da quelli previsti nei contratti nazionali, ovviamente nel rispetto del salario minimo orario».
Susanna Camusso, leader della Cgil, dice che senza il contratto nazionale ci sarà più povertà.
«Ma il contratto nazionale continuerà a costituire la rete di sicurezza, la disciplina standard a cui fare riferimento in tutti i casi in cui manchi un contratto più vicino al luogo di lavoro. Il punto è che deve poter essere derogato o anche sostituito dal contratto aziendale stipulato dalla coalizione sindacale che ne abbia i requisiti».
La Fiom minaccia lo scontro se salta il contratto nazionale. La pace sociale è a rischio?
«Non vedo questo rischio. Il problema di Landini è che i minimi tabellari fissati dai contratti nazionali sono troppo alti per il Sud e troppo bassi per il Nord. Col risultato che al Sud si genera disoccupazione e lavoro nero; mentre al Nord per aumentare le retribuzioni occorre comunque puntare sul contratto aziendale. È anche per questo che i contratti nazionali si rinnovano con tanta difficoltà».
Non pensa che sia rischioso indebolire i sindacati?
«Abbiamo bisogno di un sindacato forte, ma che faccia il mestiere del sindacato. Stabilire il salario orario minimo universale non è compito suo».
E qual è il suo compito allora?
«Nell’era della globalizzazione il sindacato deve essere l’intelligenza collettiva dei lavoratori che consente loro, innanzitutto, di ingaggiare il miglior imprenditore disponibile, da qualsiasi parte del mondo venga. Quindi deve essere capace di guidare i lavoratori nella valutazione del piano industriale e, in caso di valutazione positiva, nella scommessa comune con l’imprenditore».
Scioperi nei servizi pubblici: lei ha proposto una legge che i sindacati contestano. Il governo, secondo lei, deve cercare la mediazione o andare dritto per la sua strada?
«Le confederazioni maggiori dovrebbero, in realtà, essere le prime a rendersi conto della assurdità dello sciopero mensile o bisettimanale dei trasporti pubblici, oppure dell’assemblea sindacale che chiude fuori dal Colosseo migliaia di turisti. Se non se ne rendono conto, fa benissimo il governo a provvedere, nell’interesse della collettività».
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