sabato 17 ottobre 2015
Sbarcare il lunario ancora nel 2015 parlando male del comunismo e avere sempre ottima stampa
Risvolto
L'opera e la
biografia di Herta Müller sono due percorsi paralleli ma inseparabili e
per un autore di questo genere. La scrittura della Müller asciutta,
precisa, lucida - è veramente congeniale a questo genere: le sue
risposte secche ma meditate lasciano spazio a descrizioni che si
trasformano in definizioni lapidarie; della vita quotidiana nella
Romania comunista, dell'ottusità dei contadini e della nullità dei
funzionari. Il suo disprezzo per il regime comunista e i suoi servitori
resiste al tempo, è ancora vivo e risentito. A tratti si potrebbe
perfino leggere come un saggio sulla dittatura romena, con la differenza
che lo stile della Müller è infinitamente più ricco di immagini e
giochi di parole e non si può confondere con un taglio giornalistico. È
lo sguardo di un poeta che sa leggere tra le righe e che parla di ciò
che la dittatura è stata sulla pelle e sotto la pelle, nelle teste e nei
cuori, spezzati, dei suoi cittadini. Come vive un uomo che ha paura,
che è perseguitato da una forza oscura che lo fa sentire impotente e
potenzialmente sempre in balìa dei servizi segreti? Quali piccoli
stratagemmi si inventa l'uomo per sopravvivere in queste condizioni? Non
è solo un atto di accusa contro il comunismo ma diventa una lezione
contro tutti i totalitarismi che privano l'uomo della dignità.
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“Volevano processarmi per un acquisto di noci” Come sopravvivere alle miserie della dittatura romena tra violenze della polizia, fame, follie sanguinarie del socialismo
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Herta Müller, fuga da un regime che uccideva la gioia di vivere
15 dic 2015 Corriere della Sera Di Isabella Bossi Fedrigotti © RIPRODUZIONE RISERVATA
E' probabile che non pochi, pur intenzionati ad avventurarsi nei romanzi di Herta Müller perché attratti dai suoi temi o anche solo dalla sua fama di scrittrice da Nobel, si siano lasciati scoraggiare della sua non facile scrittura: fortemente poetica, tuttavia, a volte, davvero al limite dell’ermetismo. Si sono perdute, così, pagine straordinarie di storia personale, privata dell’autrice stessa, ma anche pubblica, politica del suo Paese, la Romania.
In loro soccorso viene ora La mia patria era un seme di mela, un libro che contiene una lunga intervista alla Müller, curata da Angelika Klammer, giornalista del settimanale tedesco «Spiegel» (Feltrinelli), e realizzata grazie a una serie di conversazioni avvenute a Berlino tra il 2013 e il 2014, nel corso delle quali la scrittrice si è raccontata a ruota libera e in termini perfettamente chiari. Dell’intervistatrice compare il nome soltanto in un discreto sottotitolo, in linea con l’intelligente discrezione delle domande, sempre assai brevi, che non intralciano, che non si sovrappongono, che lasciano tutto lo spazio disponibile alle risposte. Nessunissima ansia di protagonismo da parte della giornalista, e grande generosità da parte della scrittrice, che non si mette limiti, che ricorda e risponde per pagine e pagine.
Il risultato è un compatto racconto autobiografico — dall’infanzia in un minuscolo paese di campagna fino all’emigrazione in Germania alla fine degli anni Ottanta — nel quale ritroviamo le tracce e le trame di tutti i romanzi di Herta Müller; racconto che, però, va bene al di là della sua difficile vicenda personale per allargarsi a quelle della sua famiglia — il padre arruolato con i nazisti, la madre deportata in Russia — degli amici — lo scrittore Oskar Pastior, a sua volta finito in un lager sovietico — e del suo Paese ai tempi della dittatura di Ceausescu.
Di lei si sa che, appartenente all’antica minoranza sassone, fu per anni sorvegliata, vessata, minacciata, per essersi sempre rifiutata di spiare il gruppo di artisti e scrittori che frequentava. «Non è nel mio carattere», rispondeva facendo imbestialire l’inquisitore di turno. In cambio i servizi segreti la tormentarono perfino nell’esilio tedesco, già autrice famosa, pluritradotta e pluripremiata, mandandole, dalla Romania, Jenny, la sua amica del cuore, incaricata di rubarle le chiavi di casa, di modo che la potessero, anche lì, terrorizzare a piacere. La paura — ricorda la scrittrice — si lasciava dominare soltanto attraverso la scrittura. Scrittura senva za intenzioni letterarie, dunque, almeno da principio, ma reazione alla paura e, forse ancora più, alla solitudine, effetto secondario ma molto intenzionale degli uomini del regime, cui bastava mettere in giro la voce che qualcuno era una spia per isolarlo all’istante e, magari, indurlo infine a trasformarsi davvero in delatore.
Herta è sola nel villaggio di campagna della sua infanzia esattamente come è sola, anni dopo, nella fabbrica di componenti meccaniche dove, per tormentarla, le è stata tolta la stanza, la scrivania e finanche la sedia, costringendola a lavorare seduta su un gradino del giroscale. Tranne, ogni tanto, l’amica del cuore, nessuno l’avvicinaLa futura vincitrice del Nobel fu perseguitata in Romania e perfino nell’esilio in Germania perché è noto che ci si infetta anche solo a scambiare due parole con l’appestato; ed è in ricordo di quel tempo, delle chiacchiere sullo scalino assieme a Jenny, che fu felicissima di accoglierla, molti anni dopo, in casa sua in Germania: salvo poi scoprire le chiavi di casa sua ben nascoste in fondo alla valigia dell’ospite.
Paura e solitudine sono, dunque, i suoi pesanti castighi. Cui si aggiunge, terzo, la bruttezza, la diffusa, generale bruttezza di ogni cosa ai tempi del regime: brutte le case, brutte le vetrine dei negozi, brutti i mobili, brutti i vestiti, brutte le aiuole dei parchi, brutti i monumenti, brutti i manifesti, orribile perfino il cibo. Non casuale, bensì intenzionale, anche la bruttezza perché opprime l’animo, rende apatici e privi di pretese: questo voleva lo Stato, attentissimo a reprimere la gioia di vivere originata dalla bellezza che rende gli uomini spontanei e, perciò, pericolosamente imprevedibili.
Lo stile non ha mezze verità
Il premio Nobel Herta Müller ritaglia le parole dai giornali e le ricompone in prose e poesie sulla realtà che le fu negato raccontare durante il regime di Ceausescu
Nicola Gardini Domenicale 3 1 2016
L’opera narrativa di Herta Müller, non diversamente da quella di un Primo Levi o di un Varlam Salamov, ci costringe ad avvertire in tutta la sua spaventosa magnitudine la violenza del mondo e a riflettere sul rapporto atavico tra violenza e letteratura, antico almeno quanto Omero. La letteratura è anche e fondamentalmente “discorso sulla violenza”; e lo è in due modi: come fuga e come memoria. Esprime l’orrore, volgendo lo sguardo altrove, nel linguaggio, per scongiuro dell’annientamento ultimo, e però subisce l’orrore abbastanza a lungo da volerlo registrare, affinché una traccia ne rimanga. La letteratura reinscena la distruzione, avendo costruito un testimone, un giudice; e allungando così la vita alla vittima. Teorici e critici non dedicano mai la dovuta attenzione a questo bisogno primario, anzi istinto che lo scrivere ambisce a soddisfare: resistere fino a che la denuncia sia formulata. Anche l’inno ad Afrodite di Saffo, quel canto d’amore, protesta contro un torto e chiede giustizia.
Herta Müller racconta la bruttezza, le vergogne e i crimini del totalitarismo. Nata in un villaggio del Banato rumeno dove si parla tedesco, è stata nel mirino della Securitate per molti anni. Si era resa colpevole di non collaborazionismo, rifiutando di fare da spia nella fabbrica in cui svolgeva il compito di traduttrice. Quel rifiuto le costò il declassamento, quindi la calunnia (i colleghi furono indotti a credere che fosse davvero una spia), l’emarginazione, il licenziamento e la tortura periodica di umilianti interrogatori, in cui, tra aggressioni fisiche, minacce e intimidazioni, valeva solo l’insensatezza. Nient’altro che menzogne e insulti, per confondere e per spingere al suicidio. Dopo che si traferì a Berlino, ha pagato ancora con la perdita della migliore amica, incaricata di informare la Securitate sulla sua nuova vita.
Questo destino ha ispirato i suoi libri, premiati con il Nobel nel 2009, ed è ripercorso in un recente, bellissimo libro intervista La mia patria era un seme di mela, tradotto da Margherita Carbonaro per Feltrinelli. I golosi di autobiografismo potranno scoprire le radici “reali” di molti passi romanzeschi e di certe ricorrenti immagini: il fazzoletto (che è il tema del discorso del Nobel, poi raccolto in un libro di saggi, Immer derselbe Schnee und immer derselbe Onkel, tradotto in italiano dalla stessa Carbonaro con il titolo La paura non può dormire), l’anonimo dito amputato, la fisarmonica, il fratellino blu, i vestiti. Chi, invece, cerca nel lavoro degli scrittori, come si dovrebbe, il manifestarsi del genio, cioè di un’immaginazione personale, che ha una sua grammatica e una sua retorica e persegue una sua sempre più precisa dimensione umana e artistica, insomma chi cerca uno “stile”, qui ne troverà uno dei più miracolosi.
Consiglio il libro in primo luogo alle persone che non hanno ancora letto un romanzo di Herta Müller. La forma intervista gratifica con la sua immediatezza. L’autrice ci si fa letteralmente avanti; ci parla della miseria del socialismo sovietico e degli echi di nazismo in cui si svolse la sua giovinezza, ma in particolare ci rivela la triste solitudine in cui il suo stile è nato e ha avuto modo di svilupparsi. Questo stesso parlare all’intervistatrice, Angelika Klammer, ne è una stupefacente prova. Una tale sintesi di precisione, metaforicità, ironia, freddezza, disprezzo non si era mai sentita. A volte si entra di colpo nel difficile, nell’astratto: ma ciò è dovuto alla sinteticità dei collegamenti, poiché Herta eccelle nella condensazione. A volte sembra di assistere ai salti pindarici di una bambina: i fiori che si sposano in pieno giorno, gli organi dell’anatomia che si scambiano di posto, i mobili che corrono al buio; il traditore che allo specchio vede due facce.
A parte i ricordi d’infanzia dell’inizio e le pagine finali sull’amico Oskar Pastior, il poeta omosessuale (che le ha fornito materiali preziosi per la composizione dell’Altalena del respiro), trovo particolarmente importanti e felici le osservazioni, sparse un po’ dovunque, sulle parole. Chi ha vissuto nella falsificazione quotidiana vede nelle parole tutto il male (patito) ma anche tutto il bene (negato e, dunque, ancora e sempre inseguibile). Herta dichiara di aver trovato un rifugio nella bellezza delle frasi del tedesco e nel potere di verità che hanno le parole scritte. Nessuno può prevedere quale rivelazione abbiano in serbo le parole prima che siano messe sul foglio. È come se, nonostante le censure e l’idiozia generale, la verità fosse salva da qualche parte e aspettasse solo la mano giusta per saltar fuori. Questo, io credo, vale per ogni scrittore. O la scrittura letteraria, come ritengono gli sbadati e i pettegoli, sarebbe solo un resoconto burocratico, uno scaffale di supermercato. Invece, niente di quello che trova esistenza sulla pagina esisteva prima, quand’anche sembrasse suggerito dai fatti. Che cosa sappiamo noi dei fatti, d’altronde, suggerisce Herta? Solo quello che ne scriviamo. E poi, ci ricorda ancora, come si fa a distinguere il dentro e il fuori? E come sappiamo quali conseguenze la cosiddetta realtà determina in noi?
Herta dice anche un’altra cosa importante sullo scrivere: che una cosa scritta non è mai una cosa che si sarebbe potuta dire. Quel che è scritto è proprio quello che non si poteva dire e non veniva neanche in mente di dire. Ecco che la scrittura si rivela un campo dell’espressione perfettamente autonomo, non ancillare, non vicario; il suo territorio più vicino non è il discorso pronunciato, ma il silenzio. Lo scrivere proviene dritto dal pensiero, e poi manda al pensiero qualcosa di nuovo, un’illuminazione, la conquista di un senso che a priori non era ipotizzabile.
Chi è stato privato delle parole ed è stato costretto a emettere suoni privi di senso ha, una volta trovata la libertà, voglia di possedere tutte le parole del mondo. Herta le parole le colleziona. Come il fazzoletto-ossessione del suo paesaggio mentale, le parole sono per lei oggetti fisici, sono cose. Le ritaglia da giornali e riviste e ne riempie cassetti e armadi. E poi le trasceglie per comporre frasi e poesie. I collages di Herta, ormai celebri, sono teatri in cui il linguaggio distrutto torna in scena e recita finalmente tutta la verità. Il monito più terribile e più prezioso di quest’intervista suona, infatti: «guardarsi dalle mezze verità».
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