sabato 17 ottobre 2015

Wilde "socialista" aristocratico




Un esteta che odiava il capitale 
Ritratti. La fortuna critica di Oscar Wilde a 161 anni dalla sua nascita. Esce in questi giorni per Marsilio un'ottima edizione della sua commedia «Il ventaglio di Lady Windermere» 

Enrico Terrinoni Manifesto 16.10.2015, 0:05 

«Il socia­li­smo, il comu­ni­smo, o comun­que vogliate chia­marli, nel con­ver­tire la pro­prietà pri­vata in pub­blica ric­chezza, e sosti­tuendo la com­pe­ti­zione con la coo­pe­ra­zione, resti­tui­ranno alla società la sua giu­sta con­di­zione di orga­ni­smo del tutto sano, e assi­cu­re­ranno il benes­sere mate­riale di cia­scun mem­bro della comu­nità». Sem­brano parole di un mili­tante d’altri tempi, e lo sono, ma non appar­ten­gono a un per­so­nag­gio che siamo soliti defi­nire «di sini­stra». Pro­se­guendo nella let­tura, ci imbat­tiamo in con­si­de­ra­zioni altre: «per­ché si arrivi a un’esistenza svi­lup­pata al suo mas­simo grado di per­fe­zione, c’è biso­gno di qualcos’altro. C’è biso­gno di indi­vi­dua­li­smo». È que­sto, sco­priamo, un indi­vi­dua­li­smo nuovo, un ritorno a un uma­ne­simo libero dalle catene del capi­tale, un indi­vi­dua­li­smo socia­li­sta, se l’espressione non suo­nasse come un ossi­moro o un paradosso. 
A pro­fe­tiz­zare tutto ciò è pro­prio il padre dei para­dossi: l’irlandese Oscar Fin­gal O’Flaherty Wills Wilde, che il 16 otto­bre com­pi­rebbe il suo cento ses­san­tu­ne­simo com­pleanno. Il «vero indi­vi­dua­li­smo» di cui parla Wilde nel suo sag­gio del 1891, dal titolo L’animo dell’uomo sotto il socia­li­smo – sag­gio che oltre ad essere incluso in innu­me­re­voli anto­lo­gie, oggi trova spa­zio per­sino nella pre­ziosa «enci­clo­pe­dia» mar­xi­sta online (www​.mar​xist​.org) – è appunto libero di quella pro­prietà pri­vata col­pe­vole di aver «impe­dito a una parte della comu­nità di essere indi­vi­dua­li­sta, affa­man­dola, e a un’altra, diri­gen­dola sulla cat­tiva strada». Che è poi la strada, mor­ti­fera per Wilde, dell’accumulo. Rifles­sioni affini a quelle di un altro intel­let­tuale di cento anni dopo, que­sta volta sì un mar­xi­sta, Terry Eagle­ton, il quale, par­lando con la sua pro­ver­biale schiet­tezza di una «osses­sione per l’accumulo», col­lega la cul­tura del capi­ta­li­smo a una sorta di pato­lo­gia che allon­tana l’uomo dalla sua natura di essere rela­zio­nale e solidale.

Non solo dandy
La trita vul­gata di tanta cri­tica più attenta alla forma che alla sostanza, ci ha con­se­gnato la figura di un Wilde raf­fi­nato esteta, lon­tano dalle bas­sezze della vita quo­ti­diana e sem­pre ten­dente alla pura bel­lezza. Per fare della pro­pria vita un’opera d’arte. Leg­gen­done però l’opera nella sua inte­rezza – dalle prime prove poe­ti­che alle let­tere sul sistema car­ce­ra­rio di cui era caduto vit­tima, dalle com­me­die bril­lanti dove sono i cinici ad affa­sci­nare per la loro intel­li­genza, alla Bal­lata dal car­cere di Rea­ding e al De Pro­fun­dis – ci si accorge che il suo inte­resse per il miglio­ra­mento della con­di­zione umana fosse tutt’altro che pas­seg­gero.
D’altro canto, è in virtù di que­ste ambi­va­lenze che Wilde non sem­bra pas­sare mai di moda. Lo dimo­stra un fio­rire inces­sante di studi, all’estero, e anche in Ita­lia, dove i suoi scritti sono con­ti­nua­mente ripro­po­sti e anche ritra­dotti. Solo un anno fa usciva per il Sag­gia­tore l’epistolario com­pleto: una sua let­tura — anche affret­tata — non può non far risal­tare l’afflato uma­ni­ta­rio e l’attenzione verso le cause degli ultimi («per quanto spa­ven­tosi siano i risul­tati del sistema car­ce­ra­rio… tut­ta­via non c’è tra i suoi scopi quello di distrug­gere l’umana ragione…»).
Viene pub­bli­cata in que­sti giorni da Mar­si­lio un’ottima edi­zione della sua prima com­me­dia, scritta un anno dopo il sag­gio sul socia­li­smo. È la com­me­dia che lo portò al suc­cesso e lo pro­iettò, lui irlan­dese e figlio di una fer­vente patriota nazio­na­li­sta, alla ribalta dei pal­co­sce­nici e dell’alta società inglese: Il ven­ta­glio di Lady Win­der­mere (a cura di Paolo Amal­fi­tano, pp. 277, euro 18). Si situa sul solco del cosid­detto «tea­tro della restau­ra­zione» che, dopo la caduta di Crom­well, vide sulle scene lon­di­nesi un ritorno del mon­dano, tal­volta fri­volo, ma sem­pre bril­lante – in rea­zione al pre­ce­dente oscu­ran­ti­smo puri­tano arri­vato nel 1642 alla chiu­sura dei tea­tri e alla messa al bando dell’intrattenimento. 
La com­me­dia di Wilde gioca con sospetti di tra­di­mento, segreti oscuri da non rive­lare, amori impos­si­bili, e repu­ta­zioni da sal­vare. Il tutto con­dito dalla effi­cace velo­cità di bat­tute memo­ra­bili, e di una mac­china tea­trale dai tempi e dal ritmo asso­lu­ta­mente per­fetti. Per i pub­blici di allora e per quelli di oggi.
Sul pal­co­sce­nico, gli attori di Wilde sem­brano muo­versi con la leg­ge­rezza di fol­letti sha­ke­spea­riani, ed è tra­mite que­sta levità che egli affronta rap­porti sociali com­plessi: matri­mo­niali, extra­co­niu­gali, ma anche gene­ra­zio­nali. Come il rap­porto madre-figlio, ad esem­pio, nella com­pli­cità ori­gi­na­ria del legame nasco­sto tra Lord Win­der­mere e Mrs Erlynne, e in quello con­se­guente, di mutua segre­tezza, tra quest’ultima e Lady Windermere. 
A ben vedere, è la società inglese, per Wilde, a essere un pal­co­sce­nico, esat­ta­mente come per Sha­ke­speare, che però ne ampliava i con­fini, nel suo Globe, per finire ad abbrac­ciare il mondo. L’Inghilterra di Wilde è il paese visto da un quasi immi­grato, da un esule, forse. All’arcinota vici­nanza della madre, Lady Spe­ranza, alla causa dell’indipendentismo irlan­dese ma anche al fem­mi­ni­smo, si affianca, per com­ple­tare il qua­dretto di una fami­glia asso­lu­ta­mente «non inglese» e non con­for­mi­sta, l’impegno del padre, Sir Wil­liam, nei con­fronti della pre­ser­va­zione del patri­mo­nio cul­tu­rale dell’Irlanda rurale. Era un patri­mo­nio fatto di super­sti­zioni e leg­gende, e minac­ciato dal velo­cis­simo declino, nell’ottocento, della lin­gua in cui veniva arti­co­lato, l’irlandese appunto. 
Il retag­gio fami­liare di Wilde, assieme al suo inte­res­sa­mento per le sorti dell’uomo rima­sto in balìa di forze, come quelle del capi­tale o dell’impero, che ne minano l’autentico svi­luppo, per­mette di leg­gere le sue com­me­die da ango­la­zioni iro­ni­che, distac­cate, mai com­plici. E se nel sag­gio sul socia­li­smo egli si schie­rava in difesa di una sorta di «uma­ne­simo indi­vi­duale» capace di com­porre il reti­colo sociale come una comu­nità di animi natu­ral­mente soli­dali, così nelle com­me­die dipinge la pro­pria posi­zione, quella dell’artista, in con­tra­sto con i banali e disu­ma­niz­zanti rap­porti di potere, tipici di una certa società bene dell’Inghilterra. 

Dalle risate al dramma
È una cri­tica, la sua, che poteva sol­tanto pro­ve­nire da un outsi­der. Il cri­tico Declan Kiberd ricorda come, alla stre­gua dei filí (i poeti ere­di­tari della tra­di­zione cel­tica irlan­dese) Oscar Wilde «ini­ziò sin da subito a denun­ciare un’aristocrazia pusil­la­nime non più inte­res­sata a difen­dere gli spazi dell’arte».
Que­sto per­ché gli spazi dell’arte, anche attra­verso la risata, pos­sono e devono aprire una rifles­sione sull’umanità. Devono per­met­terci, dal fango, di guar­dare le stelle. 
In quest’ottica, il fri­volo ven­ta­glio della com­me­dia – quasi non notato, all’inizio, dalla sua pro­prie­ta­ria, salvo poi rive­larsi la firma di un pos­si­bile atto di adul­te­rio – diviene un vero e pro­prio spec­chio posto davanti agli occhi diver­titi di un pub­blico inglese, che ride alle sue com­me­die ma solo per farsi beffe della pro­pria comu­nità. E c’è da imma­gi­narsi che Wilde ridesse ancor di più, die­tro le quinte o nei gentleman’s club che ospi­ta­vano le altre sue famose tirate tea­trali. Per­ché, come s’è detto, per lo scrit­tore la vita era un pal­co­sce­nico: un pal­co­sce­nico da cui, e di cui ridere. 
A un certo punto, l’irlandese Oscar Wilde, non rise più, in quell’Inghilterra che con tanto ardore prima l’aveva elo­giato e poi por­tato alla gogna. Le vicende dei pro­cessi per dif­fa­ma­zione e omo­ses­sua­lità sono note, come è nota la sto­ria dei lavori for­zati a cui fu con­dan­nato, e poi l’esilio, que­sta volta non più pri­vi­le­giato. Un esi­lio vero, che tra­mutò Wilde improv­vi­sa­mente in un reietto cit­ta­dino del mondo. 
Prima Napoli, poi Parigi, alla ricerca di una qua­dra. Ma i fasti di un tempo lascia­rono gra­dual­mente il campo all’indigenza e alla dispe­ra­zione. I suoi ultimi giorni si per­sero fre­ne­ti­ca­mente alla ricerca di un equi­li­brio ora­mai scom­parso, tra conti che non tor­na­vano più e un senso della vita smar­rito. Abban­donò il pal­co­sce­nico dell’esistenza nella soli­tu­dine, il 16 novem­bre del 1900. E lo fece in uno squal­lido albergo pari­gino, alla fine di una com­me­dia, la vita, che si era tra­sfor­mata in tragedia.

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