PECHINO DOPPIO sorpasso: la Cina supera gli Stati Uniti per numero di miliardari e per ampiezza della classe media. Per la prima volta la super-potenza comunista vanta la maggior quantità al mondo sia di ricchi che di benestanti. Il primato, una sorpresa nell’anno nero della frenata della crescita di Pechino, viene sancito dal rapporto 2015 della rivista Hurun e dall’indagine sulla salute economica globale del Credit Suisse. Quest’anno i miliardari cinesi sono diventati 596, 242 in più rispetto al 2014, mentre quelli statunitensi si sono fermati a 537. La classe media è salita invece a 109 milioni di cinesi, rispetto ai 92 milioni residenti negli Usa.
sabato 17 ottobre 2015
Arricchitevi, ma soprattutto non seguite le ricette occidentali
Nella potenza comunista ci sono 596 super-ricchi contro i 537 registrati negli Stati Uniti Ma cresce anche la classe media: in dieci anni sarà oltre metà della popolazione
Paperoni, la Cina sorpassa l’America
Oggi i miliardari di Pechino sono più di quelli negli Usa. E nelle città asiatiche vivono 784 milioni di benestanti
di Giampaolo Visetti Repubblica 16.10.15
PECHINO DOPPIO sorpasso: la Cina supera gli Stati Uniti per numero di miliardari e per ampiezza della classe media. Per la prima volta la super-potenza comunista vanta la maggior quantità al mondo sia di ricchi che di benestanti. Il primato, una sorpresa nell’anno nero della frenata della crescita di Pechino, viene sancito dal rapporto 2015 della rivista Hurun e dall’indagine sulla salute economica globale del Credit Suisse. Quest’anno i miliardari cinesi sono diventati 596, 242 in più rispetto al 2014, mentre quelli statunitensi si sono fermati a 537. La classe media è salita invece a 109 milioni di cinesi, rispetto ai 92 milioni residenti negli Usa.
PECHINO DOPPIO sorpasso: la Cina supera gli Stati Uniti per numero di miliardari e per ampiezza della classe media. Per la prima volta la super-potenza comunista vanta la maggior quantità al mondo sia di ricchi che di benestanti. Il primato, una sorpresa nell’anno nero della frenata della crescita di Pechino, viene sancito dal rapporto 2015 della rivista Hurun e dall’indagine sulla salute economica globale del Credit Suisse. Quest’anno i miliardari cinesi sono diventati 596, 242 in più rispetto al 2014, mentre quelli statunitensi si sono fermati a 537. La classe media è salita invece a 109 milioni di cinesi, rispetto ai 92 milioni residenti negli Usa.
L’analisi considera solo l’individuo che dichiara un
reddito almeno doppio rispetto a quello medio del Paese. Secondo questo
parametro, la classe media cinese avrebbe rallentato la sua espansione:
dal più 8,5% del 2009 al più 7,1% del 2015. Altri studi, a partire da
quello ufficiale dell’Accademia della scienze di Pechino, offrono un
quadro ben più impressionante sullo spostamento del baricentro di
ricchezza e benessere da Occidente a Oriente. Alla nuova classe media da
quest’anno appartiene il 38% dei cinesi, 350 milioni di persone, con
punte del 49% nella capitale e a Shanghai. La capacità di spesa oscilla
da 6mila a 22mila euro all’anno, reddito che grazie al credito consente
il possesso di una casa, di un’automobile e di tutti gli
elettrodomestici, di concedersi viaggi e vestiti. Entro dieci anni
quella che si presenta come la categoria dominante del secolo
raggiungerà dimensioni tali di sconvolgere i mercati: il cinese medio
crescerà del 2,6% all’anno, fino a quota 650 milioni, oltre la metà
dell’intera popolazione. La nuova super-potenza della classe media,
terra promessa dei consumi, è però già la locomotiva asiatica dei
benestanti mondiali, quantificata in 784 milioni: nel 2015 per la prima
volta il 51% del ceto medio risiede in Asia, rispetto al 31% del 2001.
La Cina, con il 20% della popolazione del pianeta, possiede ora il 10%
della sua ricchezza.
La tendenza epocale è il boom della classe
media, sfida senza precedenti per la stabilità del partito- Stato, ma il
simbolo della nascita di una nuova era è il sorpasso dei miliardari,
con la Cina che entro dicembre per la prima volta sorpasserà Giappone e
Usa anche per consumi di beni di lusso. Il rapporto Hurun riporta in
testa alla classifica Wang Jianlin, magnate di Wanda Group, detentore di
un patrimonio da 34,4 miliardi di dollari grazie a immobi-liare,
spettacolo, commercio e sport. I cinesi lo chiamano “l’imperatore rosso”
e in Europa è famoso per gli investimenti in Spagna, tra cui quello
nell’Atletico Madrid, mentre in Italia spazia dalla telefonia al calcio,
gestendo il marketing del pallone attraverso la controversa Infront.
Dietro di lui c’è il re dell’e-commerce Jack Ma, 22,7 miliardi
nonostante il crollo azionario della sua Alibaba, e il signore delle
bibite Zong Qinghou, accreditato di 21 miliardi di dollari. La
classifica per la prima volta è sconvolta dall’irruzione degli
imprenditori hi-tech e attivi sul web, da Lei Jun di Xiaomi a Cheng Wei,
ideatore dell’app che procura taxi privati in concorrenza alla
statunitense Uber.
Venti dei nuovi miliardari cinesi, guidati a Ma
Weihua, presidente dell’esclusivo club che accoglie i 31 imprenditori
più influenti della nazione, reduci dalla Germania sono attesi nel fine
settimana in Italia, dove visiteranno anche l’Expo di Milano a caccia di
affari. Nei primi nove mesi del 2015 gli investimenti diretti della
Cina all’estero sono cresciuti del 16,5%, pari a 87,3 miliardi di
dollari. Il Paese è ora un esportatore netto di capitali e l’aumento di
quelli privati è del 38,2%. Chi in Europa è cresciuto sognando l’America
farà bene a deviare rapidamente lo sguardo verso le metropoli
dell’Asia.
I passi necessari della Cina (se vuole evitare turbolenze)
Come
scoprirono i Paesi europei negli anni Ottanta non è possibile allo
stesso tempo avere stabilità del cambio, mercati liberalizzati ed
economia assistita. Occorrono riforme strutturali
Corriere 16.10.15
I
timori di un forte rallentamento dell’economia cinese, che si erano
diffusi durante la scorsa estate, sembrano essersi rapidamente evaporati
dopo la fiducia ribadita dalle istituzioni internazionali, in occasione
delle recenti riunioni del Fondo monetario. In effetti, il governo e la
banca centrale cinese hanno dimostrato varie volte in passato di saper
usare gli strumenti di politica monetaria e di bilancio per sostenere la
crescita economica, evitando la recessione e il contagio al resto del
mondo. D’altra parte, i tassi d’interesse cinesi non hanno ancora
raggiunto la soglia minima dello zero, come nella gran parte dei Paesi
industriali, e possono dunque essere ulteriormente ridotti se
necessario. Inoltre, il disavanzo e il debito pubblico sono ancora su
livelli contenuti, e vi è spazio per una eventuale manovra di rilancio
fiscale. Infine, il rallentamento previsto dalle principali
organizzazioni internazionali (al 6,3% nel 2016 secondo il Fondo
monetario internazionale) è in parte fisiologico, dopo 30 anni di
sviluppo a ritmi prossimi al 10%. Da tempo la comunità internazionale
chiedeva un ribilanciamento della struttura dell’economia cinese, dalla
manifattura ai servizi, dagli investimenti ai consumi, dall’export alla
domanda interna.
Questo processo non è tuttavia privo di rischi.
L’aggiustamento potrebbe essere più brusco del previsto. Dopo un periodo
di crescita elevata, che ha fatto diventare l’economia cinese seconda
soltanto a quella statunitense, stanno venendo al pettine
sostanzialmente gli stessi nodi dei Paesi occidentali. E la gestione
politica accentrata non appare poi particolarmente agevolata.
Come scoprirono i Paesi europei alla fine degli anni Ottanta, non è possibile perseguire al contempo i tre seguenti obiettivi:
1.l’attuazione
di una politica macroeconomica — in particolare monetaria —
indipendente, mirata ad un obiettivo interno di crescita o di
inflazione;
2.l’integrazione finanziaria, in particolare la liberalizzazione dei movimenti di capitale;
3.la fissazione del tasso di cambio.
Questo
dilemma — o trilemma — noto nella letteratura come il «terzetto
incoerente», è alla base delle frequenti crisi valutarie europee del
secolo scorso, culminate con la scelta di abbandonare uno dei tre
obiettivi: l’indipendenza delle politiche economiche per chi adottò
l’euro, la fissità del tasso di cambio per chi — come il Regno Unito —
decise di rimanere fuori dall’unione monetaria.
La Cina cerca di
perseguire tutt’e tre gli obiettivi, sebbene ciò stia diventando sempre
più difficile, come si è visto dalle turbolenze registrate sui mercati
finanziari di questa estate. Cerca di mantenere un tasso di cambio
fisso, o comunque manovrato, nel timore che una svalutazione eccessiva e
ripetuta dello yuan inneschi timori presso i risparmiatori cinesi e
induca ulteriori uscite di capitale, come è avvenuto in agosto. Le
autorità cinesi dispongono di ingenti riserve di cambio — circa 3
trilioni di dollari — per contrastare tale uscita, ma ne hanno già spesi
quasi 200 miliardi tra agosto e settembre scorsi, a dimostrazione di
come un tale «tesoro» possa rapidamente svanire se si diffonde la
sfiducia. Per questo motivo le autorità cinesi hanno recentemente
ribadito la centralità del cambio nella loro strategia di politica
economica.
La Cina vuole anche perseguire la liberalizzazione del suo
mercato finanziario, non soltanto per dare alla propria moneta uno
statuto internazionale ma anche per rendere più attraente il mercato
interno agli investitori internazionali. La liberalizzazione nei
confronti dell’estero è anche uno stimolo alla liberalizzazione interna,
necessaria per far crescere nuove imprese e stimolare la competitività.
In
questo contesto, una politica macroeconomica di sostegno dell’economia,
in particolare attraverso una ulteriore riduzione del tasso
d’interesse, incoraggia il deflusso di capitali e mette sotto pressione
il tasso di cambio.
A qualcosa si dovrà prima o poi rinunciare: alla
stabilità del cambio, alla liberalizzazione dei mercati, o alla politica
di sostegno dell’economia. In ciascun caso le conseguenze — per il
Paese e per l’economia mondiale — rischiano di essere molto negative.
Un’alternativa
esiste, ed è in realtà molto simile a quella con cui si confrontano i
Paesi avanzati, ossia le riforme strutturali. Queste sono diventate
particolarmente urgenti in Cina, per risanare profondamente le aziende
in eccesso di capacità produttiva, favorire la concorrenza, soprattutto
nei servizi, ristrutturare il settore bancario appesantito dalle
sofferenze, smantellare la politica di controllo della natalità, ecc.
Tali riforme sono essenziali per accelerare la trasformazione
dell’economia cinese ed evitare una fase di crescita anemica e
instabile, le cui conseguenze geopolitiche sono difficilmente
prevedibili.
Fare le riforme è più facile nella teoria che nella pratica, non solo nelle democrazie occidentali.
Classe media in ascesa, sorpasso cinese sugli Usa (anche grazie alle donne)
Sono 109 milioni i cittadini «middle class», 92 in America
di Guido Santevecchi Corriere 16.10.15
PECHINO
La crescita dell’economia cinese rallenta, ma la sua capacità di
concentrare ricchezza nelle mani di singoli aumenta. Tanto che
quest’anno l’elenco dei miliardari (in dollari) nella Repubblica
popolare si è allungato a 596 nomi, 242 in più rispetto al 2014.
Significa sorpasso nei confronti degli Stati Uniti, dove i
«billionaires» sono 537. I dati sono contenuti nella Hurun List
compilata a Shanghai, equivalente cinese di Fortune . E se si considera
quella che si chiama «Greater China», vale a dire Hong Kong, Macao e
Taiwan, i super-ricchi che parlano mandarino salgono a 715.
In testa
alla classifica con 34,4 miliardi c’è Wang Jianlin, presidente del
Dalian Wanda Group, partito nel settore immobiliare e poi estesosi
diversificando nel campo dell’intrattenimento, del turismo e della
finanza. Wang ha in portafoglio tra l’altro la catena di cinema
americani AMC acquistata per 52 miliardi e la Infront che detiene i
diritti televisivi di decine di eventi sportivi internazionali tra i
quali la Serie A italiana di calcio. La ricchezza personale del signor
Wang fino a cinque anni fa era fondata al 90% sul mattone, mentre oggi
l’immobiliare rappresenta solo il 50% del suo patrimonio.
Wang ha
scavalcato il fondatore di Alibaba, Jack Ma, che ora è secondo con 22,7
miliardi di dollari di fortuna. Il re dell’e-commerce risente della
caduta alla Borsa di New York della quotazione della sua creatura, che
gli ha fatto perdere quasi il 3% di ricchezza (sempre sulla carta, visto
che si parla di azioni). È l’IT, l’Information Technology, il settore
che sta sfornando il maggior numero di nuovi miliardari in Cina: 210.
Nei primi dieci della classifica, cinque vengono dal settore Tech, come
Ma Huateng di Tencent, Lei Jun di Xiaomi, Robin Li e Melissa Ma di
Baidu. Ma la manifattura industriale e la proprietà immobiliare restano
ancora la prima fonte di ricchezza nel sistema produttivo cinese,
contando rispettivamente il 28% e il 16% dei nomi nella Hurun List.
Un
aspetto significativo dell’universo miliardario cinese è rappresentato
dalle donne: le leader di grandi aziende miliardarie sono il 21%. La
prima è Zhou Qunfei, che ha fondato l’azienda di touchscreen Lens
Technology e vale 17 miliardi.
La Hurun List dedica una sezione anche
ai cinesi con una fortuna personale di almeno due miliardi di yuan (320
milioni di dollari): sono 1.577. Sommata, la loro ricchezza è di 2.100
miliardi di dollari, lo stesso valore del Pil dell’intera Russia.
Sorpasso cinese sugli Stati Uniti anche nei numeri della classe media:
secondo uno studio di Credit Suisse, la Cina ha 109 milioni di cittadini
di «middle class», mentre gli americani sono 92 milioni. Primi gli
europei: 194 milioni (gli italiani sono 29 milioni secondo la stima
dell’istituto svizzero). La classe media cinese dal 2000 è cresciuta di
43 milioni di unità, mentre quella americana solo di 22. Le analisi
sulla «middle class» finora sono sempre state rapportate alla
popolazione degli Stati Uniti, il Paese che aveva il numero più alto di
abitanti con un reddito di almeno 50 mila dollari. E i nostri consumi, i
prodotti che si impongono anche sul nostro mercato, sono stati un
riflesso del successo partito dagli Usa: ora, se la bilancia di questo
benessere si sposta verso la Cina e l’Asia, è possibile che anche le
nostre abitudini di consumatori ne risentano.
La Repubblica popolare
dei record miliardari resta anche un Paese ad alta diseguaglianza
sociale: 70 milioni di cinesi sopravvivono con 2.300 yuan all’anno, 300
euro. Il governo promette di riscattarli tutti in sei anni, a un ritmo
di un milione al mese.
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