sabato 21 novembre 2015

Amselle: i sommovimenti ideologici dentro il delirio occidentalista. Destra e sinistra mutano

Jean-Loup Amselle e le generazioni mandate al macero Intervista. Gli attentati a Parigi hanno svelato l’avvenuta «etnicizzazione» dei conflitti sociali. E hanno anche favorito l’affermazione di uno «stato di guerra» per difendere la Francia come paese «bianco» e «cristiano». Parla l’antropologo francese

Marco Dotti Manifesto 21.11.2015, 0:30 
«Un atto di guerra». François Hollande, presidente a fine mandato, non ha dubbi : «Quanto accaduto a Parigi e Saint-Denis è un atto di guerra e, di fronte alla guerra, il Paese deve prendere decisioni appropriate. (…) Un atto di guerra preparato, organizzato, pianificato all’esterno con complicità all’interno che l’inchiesta metterà in luce».
Nel frattempo, mentre Hollande attende le sue elezioni e la sua inchiesta, con altri mezzi la guerra è cominciata. I fatti, forse, non sono ancora chiari, ma le opinioni hanno preso a circolare. La tragedia di Parigi ha inevitabilmente colpito tutti. Molto si è insistito sulle emozioni e le impressioni dei singoli: testimonianze, racconti, lacrime e il famigerato storytelling che si è già accartocciato su se stesso. Al lutto, mai elaborato, è conseguito il panico – elaborato fin troppo. Nascono qui, in una zona grigia troppo a lungo sottovalutata, le reazioni dei «deputati a reagire», gli intellettuali disorganici alle accademie, ma organici rispetto ai media che in Francia chiamano intellos. E qui il discorso diventa diverso, perché rischia di contribuire – se già non l’ha fatto – a costruire un terreno comune dentro il quale far slittare un conflitto e rendere la clash of civilisation una profezia che tutti abbiamo contribuito a autoavverare. Ne parliamo con l’antropologo Jean-Loup Amselle, che insegna all’Ecole des Hautes études en sciences sociales (Ehess) di Parigi, e da tempo lavora sui fenomeni di «etnicizzazione» del conflitto in seno alla società europea. 


Lo scorso anno, proprio sulle pagine del «manifesto» (19/12/2014), parlava di una categoria da lei introdotta nel dibattito: i «rosso-bruni». I rosso-bruni sono «nuovi» intellettuali abilissimi nel costituire una falsa opposizione critica, sempre ben «mediatizzata» ma sempre capace di presentarsi come irregolare e fuori dagli schemi. Dopo i fatti parigini, lei vede un riposizionamento dei «rouge-bruns»? 

Ci troviamo nello stato di confusione più totale in ragione del fatto che siamo davvero in difficoltà nell’analizzare la natura dello Stato islamico. Questo possiede caratteristiche ambigue: è uno «Stato» di tipo fascista, animato da una pulsione di morte, ma al tempo stesso è la sola forza contro-egemonica di fronte all’Occidente. Parliamo quindi di uno Stato nazionalista-musulmano ma, al contempo, internazionalista. Questo semplice fatto rende fragili le classiche analisi ortodosse dell’estrema sinistra. La posizione del Npa (il Nuovo partito anticapitalista), ad esempio, che legge negli attentati del 13 novembre una reazione all’imperialismo, illustra bene a tale riguardo le difficoltà di sviluppare una risposta marxista coerente fuori da antichi schemi che, oramai, non funzionano più. 

La confusione «rosso-bruna» nasce da questo problema ed è ben rappresentata da Michel Onfray, filosofo da scrivania e tastiera, vicino d’altronde alle posizioni del Npa, che ha di recente attribuito al Corano la responsabilità della violenza jihadista, sostenendo, allo stesso tempo, che gli attentati di Daesh sono una risposta all’imperialismo occidentale. 

Un altro rappresentante della sfera di influnza «rosso-bruna», Jean-Pierre Chevènement, chiama a sé una «Repubblica energica», mentre Jean-Paul Brighelli, vecchio personaggio dell’estrema sinistra passato all’estrema destra antisemita, autore di un libro in uscita significativamente titolato Voltaire ou le Jihad chiede da par suo che certe libertà pubbliche vengano sospese e si instauri uno Stato forte. Infine, last but not least, Michel Houellebecq, vecchio gauchiste, autore islamofobo di successo – pensiamo al suo Sottomissione – che in un articolo del Corriere della Sera fustiga tanto la destra, quanto la sinistra preparando il terreno a Marine Le Pen. In un senso generale, potremmo dire che tutta una frangia dell’intelligentsia sta per virare al razzismo, ma dietro copertura. 

Quale copertura? Sembra che i nomi da lei fatti siano solo l’avanguardia esposta di un riposizionamento generare oramai prossimo… 

La copertura della legittimità del dibattito, della libertà di espressione, della lotta contro il «politicamente corretto», della difesa della laicità, cose che portano a difendere nient’altro che i valori di una Francia «bianca» e «cristiana», persino nell’ambito culinario come nel caso del fenomeno che alcuni chiamano «kebabofobia». 

Dopo il 13 novembre, abbiamo visto spuntare su Facebook ritratti e immagini di profilo su sfondo tricolore. Ma il nazionalismo non è unicamente francese, è anche europeo e regionalista. Tutto questo non fa che portare acqua al mulino di Hollande, che si sta rappresentando come un George Bush in salsa francese, puntellando così le fondamenta di uno Stato sicuritario e liberticida. Vedremo un Patriot Act à la française, insomma uno «Stato di guerra». 

Forse ci siamo già dentro, ma ancora non lo sappiamo. In fondo, ogni guerra, oggi, è una guerra impura che si svolge con ogni mezzo, e ogni mezzo, rovesciando la celebre massima di Clausewitz, altro non è che una protesi di guerra… 

Ciò a cui assistiamo è l’accelerazione dello scivolamento del paesaggio politico verso la destra e verso l’estrema destra, favorendo le posizioni più paradossali. Correndo appresso a Sarkozy e Marine Le Pen, Hollande rischia semplicemente di far guadagnare terreno a entrambi alle prossime elezioni presidenziali. 

Anche l’idea di «multiculturalismo» liberale è entrato in crisi, in Europa. Molti di coloro che si trovano a militare per Daesh vengono da seconde o terze generazioni di migranti. Sono cioè persone che sul piano formale hanno vissuto tutto il processo dell’integrazione liberale… 

Ufficialmente, in Francia il multiculturalismo non ha diritto di cittadinanza, anche se è presente nei dispositivi di Stato. Ma non è solo e soltanto il multiculturalismo liberale che ad essere saltato. Ricordiamo un punto critico spesso lasciato in ombra nella discussione: molti jihadisti provengono da famiglie non musulmane. Il problema, allora, è che le società occidentali, la Francia tra le altre, non offrono alcuna prospettiva e alcun futuro ai giovani. Non parlo solo in termini di impiego e lavoro, ma anche in termini di incardinamento intellettuale. Non c’è più un «racconto nazionale» coerente, non ci sono più partiti, niente sindacato, niente scuola, niente servizio civile o militare, niente che sia capace di dare un senso all’esistenza di questi ragazzi. In un contesto simile, il culto del denaro promosso dal liberalismo non basta per dare ordine alla vita di queste generazioni. Questo vuoto spalanca le porte a ideologie di tipo spiritualistia e new age che oggi sono rigogliose e fiorenti. Allo stesso modo, la seduzione esercitata da Daesh nei riguardi di un certo numero di ragazzi e ragazze può spiegarsi così, anche se questo li conduce agli atti più orribili. 

Persino il discorso sulla «laicità» come antidoto al «fanatismo» diventa parossistico in questa situazione… 

La laicità secondo il modello francese non si poteva compredere se non in rapporto alla lotta contro una religione egemonica: il cattolicesimo, considerato alla stregua di un «oppio del popolo». Oggi, la religione o, meglio, il religioso è visto come «il sospiro della creatura oppressa», per riprendere l’espressione di Marx. L’islam si inscrive in questa prospettiva e tutto questo ovviamente si lega allo sviluppo delle idee postcoloniali. 

Tra gli effetti perversi del postcolonialismo vi sarebbe il rischio di etnicizzare i conflitti. Ma nell’attuale contesto, anche la questione dei diritti umani e dell’universalismo non è priva di insidie… 

Ciò che fanno i postcoloniali è insorgere contro l’imposizione dei diritti umani all’umanità nel suo complesso, poiché giudicano questi diritti di ispirazione occidentale. Le porto un esempio: certi omosessuali dei paesi del sud protestano contro il fatto che le organizzazioni gay occidentali vogliano imporre il coming out agli omosessuali del sud poggiando sul fatto che nelle loro società l’omosessualità è un affare privato e non deve essere esposto sulla pubblica piazza. 

Nell’«Ethnicisation de la France» lei parla di una frammentazione del corpo sociale. Frammentazione che mette l’uno contro l’altro due segmenti della popolazione: identità maggioritaria contro identità minoritarie. Crede che in seguito agli avvenimenti di Parigi si assisterà a una radicalizzazione di questa divisione?  

Penso che la guerra intrapresa contro Daesh bombardando in Iraq e Siria, ma anche gli interventi in Mali e nella Repubblica Centrafricana, interventi tutti diretti contro l’islam radicale, non può che alimentere il flusso sempre più importante di jihadisti diretti in Medioriente o operativi sul suolo francese. Per una serie di ragioni, la Francia è il tallone d’Achille dell’Occidente e per questa ragione Daesh la attacca. D’altra parte, va detto che gli attentati suscitano già reazioni islamofobe e accentuano la divisione tra popolazioni venute dal mondo arabo-musulmano, indipendentemente dalla loro nazionalità francese o meno, che si considerano «Français de souche». Ma questa islamofobia non impedisce il perpetuarsi di altre forme di razzismo, come l’antisemitismo. 

Identità, una parola pericolosa. Ma oggi siamo già oltre anche rispetto a questo pericolo e nello spazio pubblico, oltre che nel dibattito politico, siamo passati alla questione dell’identità in guerra. Lo spazio sociale sembra già scomparso dal nostro orizzonte… 

Credo che tutto si stia assemblando in modo tale da farci entrare davvero in una «guerra di civiltà». In questo processo l’identità viene allora messa in primo piano. Il sociale sta lasciando a poco a poco il posto al razziale. Con grande soddisfazione dei postcoloniali. Questa posizione si è chiaramente espressa il 31 ottobre, a Parigi, alla «Marcia della dignità contro il razzismo». C’erano tutte le organizzazioni postcoloniali, tranne le organizzazioni antirazziste universaliste. Ciò che è in questione in taluni settori delle popolazioni discriminate, almeno attraverso i loro portavoce, è l’idea che l’universalismo sia «bianco», che esista dunque un «privilegio bianco», che consente di sfuggire al razzismo. Così facendo ci mettiamo in un vicolo cieco, dobbiamo uscirne. Per questo dobbiamo combattere. 

Antropologo, professore all’Ecole des Hautes études en sciences sociales (EHESS) di Parigi, Jean-Loup Amselle è redattore capo dei «Cahiers d’études africaines» . Ha studiato le questioni del meticciato e del multiculturalismo in lavori come: «Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove» (Bollati-Boringhieri, 1999); «Connessioni. Antropologia dell’universalità delle culture» (Bollati-Boringhieri, 2001); «L’invenzione dell’etnia» (Meltemi, 2008); «Contro il primitivismo» (Bollati-Boringhieri, 2012). I suoi ultimi libri, editi dalle Editions Lignes, sono «L’Anthropologue et la politique» (2011), «L’Ethnicisation de la France» (2012) e «Les Nouveaux Rouges-Bruns» (2014) In apertura di quest’ultimo lavoro, Amselle scrive: «questo libro nasce da un sentimento di urgenza, di paura davanti all’avanzare di una destra dei valori. (…) Questa configurazione rosso-bruna ha questo d’inquietante: tende a propagarsi al paesaggio intellettuale nel suo insieme, perché tende a riempire un vuoto lasciato dalla morte delle ideologie, in particolare quella che formava il cuore della sinistra, il marxismo».


Il sociologo Khosrokhavar: giovani tra banlieue e radicalismo
Intervista. L’analisi del sociologo Farhad Khosrokhavar, fra i massimi esperti di jihadismo europeo
intervista di Guido Caldiron il manifesto 22.11.15
Sono più di vent’anni che il sociologo Farhad Khosrokhavar, intellettuale iraniano arrivato a Parigi negli anni ’70, analizza le forme di radicalizzazione politico-religiosa che spingono giovani francesi, ma anche del resto d’Europa, tra le braccia delle organizzazioni jihadiste.
Già collaboratore di Alain Touraine, ne ha ereditato la guida del Centro d’analisi e d’intervento sociologico di Parigi. Docente all’École des hautes études, Khosrokhavar è arrivato a studiare i protagonisti della jihad “made in France”, di cui è considerato uno dei massimi esperti, dopo aver affrontato ciò che lui stesso ha definito la «religiosità mortifera» emersa nello spazio di senso islamico attraverso le figure dei martiri rivoluzionari dell’Iran khomeinista.
È autore di decine di opere, tra cui L’Islam dans les prisons (Balland, 2004), Radicalisation (Maison des Sciences de l’Homme, 2014), Le jihadisme (Plon, 2015).
A partire delle biografie dei responsabili delle stragi di Parigi, si può tracciare un profilo di chi si avvicina ai gruppi jihadisti in Europa e dei motivi che stanno alla base di questa scelta?
Si può dire che esista una prima categoria composta di giovani che vivono una condizione di esclusione sociale o di emarginazione e che hanno interiorizzato un forte odio per la società, finendo per percepirsi come vittime. Ritengono di non avere un futuro all’interno del modello sociale dominante, la triade “lavoro, famiglia, piena integrazione”. Per costoro, l’adesione all’Islam radicale rappresenta un modo per sacralizzare il proprio odio e per legittimare e giustificare la propria aggressività. Tra loro emergono delle caratteristiche comuni: delle vite marginali nelle banlieue, arresti e periodi di detenzione, ed è proprio in carcere che spesso entrano in contatto con dei sedicenti predicatori che li avvicinano ad una versione integralista della religione musulmana, viaggi iniziatici, dapprima in Afghanistan, Pakistan o nello Yemen e, negli ultimi anni, soprattutto in Siria e, infine, una volontà di rottura con la società in cui sono cresciuti che si opera in nome della Guerra santa. È ad esempio questo il profilo degli autori, particolarmente giovani, delle stragi del 13 novembre, come di tutti gli attentati jihadisti commessi in Francia negli ultimi 15 anni. Questo primo gruppo di giovani provenienti dalle cité periferiche o dai quartier popolari, della Francia come del Belgio, costituiscono ormai una sorta di esercito di riserva jihadista in Europa.
Ma nel Vecchio continente è emerso anche un secondo gruppo di aspiranti terroristi. Di chi si tratta?
Sono ragazzi e ragazze che appartengono a famiglie del ceto medio e che non provano odio nei confronti della società, che vivono in buoni quartieri e che hanno la fedina penale pulita. Si tratta spesso di convertiti, persone non provenienti da famiglie o ambienti musulmani, animati piuttosto dal desiderio di sostenere i loro nuovi fratelli nella fede e da una sorta di romanticismo naif. Il loro progressivo coinvolgimento negli ambienti jihadisti corrisponde ad una specie di prova, un rito di passaggio all’età adulta per dei post-adolescenti. Tra loro non sono ancora emerse figure di rilievo coinvolte negli attentati compiuti in Europa, ma alcuni sono partiti per combattere in Siria.
Se questi sono i soggetti a cui si rivolge la propaganda jihadista, in che termini si può descrivere il loro processo di radicalizzazione?
Come dicevo, per i giovani dei ceti popolari il motore principale è rappresentato dalla trasposizione del loro odio per la società in una religiosità fanatica che gli offre la sensazione di esistere, finalmente, e di invertire i ruoli che ritengono gli siano stati imposti: da persone insignificanti si trasformano in eroi, da imputati e condannati dalla Giustizia diventano i giudici inflessibili di una società che considerano eretica e empia, da individui che ispirano il disprezzo a esseri violenti che fanno paura, da sconosciuti a personaggi di cui parlano tv e giornali. Per questi casi si parla di una percezione di sé legata ad un senso di inadeguatezza e della volontà di rompere con l’intera società. Quanto ai giovani provenienti dalle classi medie, l’influenza della rete, dei social network, dei video di propaganda postati dai gruppi estremisti e di qualche ragazzo già indottrinato in termini radicali, possono risultare determinanti nell’avvicinamento agli jihadisti. Presso costoro sembra emergere spesso anche una volontà di rottura con un mondo familiare percepito come individualista. Nelle loro scelte si scorge un rifiuto della cultura erede del Sessantotto che è stata assorbita in vario modo dai genitori: preferiscono il matrimonio tradizionale secondo le regole religiose alla convivenza, la guerra all’amore, si forgiano un’identità aderendo a gruppi o a “stati” iperepressivi, Al Qaeda prima e Daesh poi. Da questo punto di vista, le nuove forme di radicalizzazione di una parte dei giovani europei descrivono anche la de-istituzionalizzazione della vita sociale e la crescente difficoltà interiore di ragazzi la cuiadolescenza sembra prolungarsi all’infinito. La sottomissione a Dio, autorità trascendentale, può sopperire presso i più fragili la diluizione dell’autorità parentale e sociale cui si assiste.
Il sociologo Alain Touraine, con il quale lei ha lavorato a lungo, sostiene che lo jihadismo rappresenta l’anti-movimento sociale per eccellenza, l’esatto contrario di un progetto di trasformazione della società. È d’accordo?
Se per anti-movimento sociale si intende un fenomeno radicalmente anti-democratico, fondato su un’ideologia estremista e totalitaria che si basa su un rapporto fusionale tra gli adepti e le loro idee, questa mi sembra una lettura adeguata della cose. D’altro canto, però, non si può negare che lo jihadismo sia anche un fenomeno di impegno collettivo e una realtà che supera la dimensione nazionale, per certi versi una sorta di movimento sociale degenerato. Come se avessimo a che fare, con un altermondialismo dai connotati però negativi e regressivi che invece di affrontare i problemi con la forza delle idee, lo fa con la violenza e il terrorismo e soprattutto insegue l’esatto contrario della democratizzazione del mondo, dell’orizzonte della società aperta e di una convivenza tra culture e individui diversi.
A trent’anni dalla Marche pour l’égalité delle periferie e a dieci dalla grande rivolta delle banlieue, l’estendersi dello jihadismo tra un certo numero di giovani francesi traduce anche la sconfitta di una prospettiva di cambiamento?
Purtroppo sì. Il fatto che questi movimenti non abbiano ottenuto quasi nulla ha per certi versi facilitato l’opera di reclutamento dei terroristi. Anche se si deve tenere sempre presente, come si vede in queste ore a Bamako, e più in generale con lo sviluppo di Daesh in Irak e in Siria, che lo jihadismo è anche un fenomeno internazionale che ha origine nelle società arabe, esprime più di un volto e che non si alimenta soltanto della crisi delle periferie urbane d’Europa. Si tratta di qualcosa che non è in alcun modo paragonabile alla Raf o alle Brigate Rosse degli anni 70, ma che si situa alla congiunzione tra la crisi delle banlieue e le spinte fondamentaliste che attraversano da tempo le società del mondo arabo. Per essere più chiari, al malessere sociale e identitario di molti giovani europei, lo jihadismo ha proposto due invenzioni dalla portata straordinaria: la figura del neomartire, vale a dire una morte sacra che incarna una delirante ed estrema ricerca di sé e la neo-umma, il riferimento a una comunità musulmana globale che non è mai esistita storicamente ma che per questi ragazzi turbati e incerti assume i connotati di un accogliente rimedio alle loro inquietudini.


“L’Europa unita può battere l’eterno ritorno del fanatismo” 
Secondo lo storico “la ferocia senza precedenti” degli jihadisti si estirpa “con una battaglia culturale: restituendo ai giovani qualcosa in cui possano credere”

GIAMPAOLO CADALANU Repubblica 21 11 2015La ferocia degli attacchi di Parigi è senza precedenti storici, ma l’Europa può reagire, ribadendo i suoi principi e rispondendo con le idee, non con le bombe. Per Simon Schama, storico londinese di origini lituane e docente alla Columbia University, questa fase della nostra contemporaneità è segnata dal ritorno alla follia religiosa, che l’attenzione ai fatti economici aveva fatto sottovalutare. Ne è una prova la scelta degli obiettivi, simbolo dei piaceri laici dell’Occidente.

Professor Schama, che cosa ha pensato dopo i fatti di Parigi?
«La mia prima impressione è stata di angoscia e incredulità. È molto difficile capire che cosa passa nella testa di qualcuno, a prescindere da quanto gli sia stato lavato il cervello o sia preso da una ideologia tirannica, nel momento in cui scende da un’auto e comincia a sparare sulla gente che beve un bicchiere di vino sulla terrazza di un caffè. La psicologia dell’omicidio, dell’assassinio di massa di civili, rende sgomenti. Sconvolge ogni regola della tradizione umana».
Dopo l’orrore del primo momento, quali sono state le sue riflessioni?
«Non dobbiamo mai dare il nostro modo di vivere per scontato. Come dice l’orribile Daesh, gli obiettivi sono scelti con attenzione. Rappresentano i piaceri del venerdì sera: il calcio, la musica, il cibo e le bevande, i flirt, la passeggiata. Conosco bene quell’area di Parigi, è sempre piena di giovani. E giovani erano anche gli assassini. La missione affidata a ragazzi, di massacrare indiscriminatamente altri ragazzi, è al di là di qualsiasi cosa abbia mai visto».
Nei suoi studi ha mai incontrato episodi di spietatezza paragonabili?
«No, non ce n’è. Una ferocia come questa è del tutto senza precedenti. Non mi viene in mente nulla di simile nel passato, da nessuna parte».
Da dove viene quest’odio?
«Non credo che possa avere a che fare con motivazioni politiche o sociali. È quello che in passato è stata anche l’ideologia comunista: giovani che hanno bisogno di una causa in cui convogliare le loro passioni. Perché si sentono estranei dalla società in cui sono inseriti. La gente vuole una causa che dia significato alla sua vita. La rivoluzione aveva questa idea. Ma nessuno voleva morire e causare tanto dolore allo stesso tempo, questo è qualcosa di unico».
C’è qualcosa che l’Occidente può fare per evitare altri orrori?
«I paesi del G-20 devono smettere di discutere sulla leadership negli affari e hanno bisogno di una nuova dichiarazione di principi. Qualcosa in cui i giovani possano credere. L’Europa deve trovare la sua coerenza morale. Dobbiamo rispondere con le idee, non con le bombe. Dobbiamo recidere i legami con i paesi che allevano fanatici, come l’Arabia Saudita. Serve una battaglia ideologica».
E le nazioni musulmane? Che dovrebbero fare?
«Dovrebbero chiudere le madrasse dove si predica l’odio e l’ideologia dello sterminio».
Questi attacchi di Parigi sono un punto di non ritorno nella Storia?
«No. Non credo nemmeno che esistano i punti di non ritorno».
In altre parole, lei crede che potremo riavere la nostra vita com’era prima?
«Certamente sì. Il fascismo doveva essere eterno, e non c’è più. Il comunismo sovietico doveva durare per sempre, e si è dissolto».
Nella prospettiva di uno storico, che significato hanno il fanatismo, il pregiudizio razziale, religioso, etnico? Copre come sempre altri interessi?
«Ho sempre pensato che fosse così. Sono cresciuto in una cultura di sinistra, parlavo di classi, di poteri economici, ciò che muove il mondo. Pensavo che la pazzia nazionalista, la follia religiosa, fossero qualcosa che veniva dopo. Ora si vede che la demenza religiosa ha una forza immensa. Follia ebraica, follia islamica, follia cristiana: ha un potere enorme. E le pazzie più antiche vengono galvanizzate dalla tecnologia moderna. È esattamente quello che fa internet: crea comunità, il cui contenuto appartiene al Medioevo».
Intende dire che Internet procura nuovo spazio per il pregiudizio?
«Assolutamente sì. Molte più persone hanno letto i Protocolli dei savi anziani di Sion sul web, di quante l’hanno fatto ai tempi del Terzo Reich. C’è persino chi ricicla i miti degli ebrei che bevono il sangue».
Ma come si radica il pregiudizio?
«Mi è capitato di partecipare a un convegno a Dover con un esponente del partito euro-scettico Ukip. Sentivo i suoi argomenti sulla necessità di fermare l’arrivo di alieni, di mantenere la cultura europea. Ho detto: sono gli stessi argomenti che venivano usati contro gli ebrei. Non intendevo gli anni Trenta, ma i Novanta. Mi hanno accusato di aprire la strada a culture pericolose ».
Possibile che questi pregiudizi resistano nel Terzo Millennio?
«Quando studiavo a Oxford Isaiah Berlin, che consideravo come un vecchio zio, mi diceva: Simon, sarebbe molto bello se fossimo tutti come Diderot e Montesquieu. Ma basta guardare il campo di football per capire quanto tribali possiamo essere. Sarebbe bello se fossimo tutti capaci dal punto di vista intellettuale di abbracciare l’identità dell’altro. Ma di fatto è nella psicologia sociale dell’uomo, sentirsi parte di un’identità tribale».




La vita ai tempi del terrorismo spiegata ai bambini 
I più piccoli sono perfettamente in grado di comprendere quanto sta accadendo in questi giorni dopo gli attacchi jihadisti. Perché conoscono le categorie di bene e male e hanno bisogno, come gli adulti, di capire

TAHAR BEN JELLOUN Repubblica 21 11 2015

A i bambini bisogna dire la verità. E soprattutto non sottovalutare la loro capacità di comprendere anche le cose più orrende e inquietanti. Non che siano più forti degli adulti, ma la loro sensibilità può essere messa alla prova senza conseguenze disastrose sul loro sviluppo. Mentre la menzogna e la negazione rischiano di lasciare sequele e complessi. Cercare di presentare al bambino un mondo roseo, mentire sulla gravità dei fatti avvolgendoli nell’ovatta o in confezione regalo vuol dire rischiare di isolarlo dalla vita, che è fatta di bellezza ma anche di violenza.
Le fiabe di Charles Perrault traboccano di crudeltà. Per non parlare di quelle delle Mille e una notte, ancora più terribili. Ma se piacciono tanto, è indubbiamente per questo motivo, che è alla base della loro universalità e modernità. Sono illustrazioni della lotta del Bene contro il Male. Queste cose, i bambini le comprendono bene, e forse riescono anche a coglierne la complessità.
Oggi, quali che siano le precauzioni prese dai genitori, i piccoli non sono mai del tutto al riparo dalla violenza, dall’estrema brutalità veicolata dai giochi elettronici, dai video-clip musicali e così via. A tutto questo contribuisce anche il cinema, dove i morti ammazzati con la motosega sono ormai moneta corrente. Per non parlare della pornografia, alla portata di un clic, appena i genitori voltano le spalle.
I traumi vissuti dalle famiglie direttamente colpite dagli attentati del 13 novembre sono devastanti per gli adulti come per i bimbi, che hanno bisogno di spiegazioni e di consolazione. Il lutto è qualcosa di crudele, anche se il tempo è un alleato. Ma la perdita di una persona cara scava nell’esistenza un vuoto tremendo, indipendentemente dall’età. Il bambino ha evidentemente bisogno di comprendere, attraverso parole precise e scelte con attenzione.
— Che cos’è un terrorista?
— È un individuo che ha sete del male. Il suo obiettivo è seminare il terrore, la grande paura tra la popolazione.
— Perché?
— A volte non si comprendono le ragioni che spingono alcuni individui a distruggere persone che non conoscono, e che a loro non hanno fatto niente di male.
— Sono pazzi?
— No. Un pazzo è uno che ha perso del tutto la ragione, e non riflette più. Non è responsabile di quello che fa. Mentre i terroristi sono individui preparati appositamente da certi specialisti per andare a uccidere, e a farsi uccidere. Sanno perfettamente quello che devono fare. Al limite si potrebbe dire che sono programmati.
— Non hanno paura?
— No, ed è questa la loro forza. Normalmente, in una guerra gli avversari si trovano faccia a faccia, e i soldati dei due schieramenti combattono per non perdere la vita. Ma oggi i metodi della guerra sono cambiati. Spesso i soldati non sono persone che combattono per difendere dei valori, un bene, un territorio. Non difendono neppure la loro vita, e questo li rende invincibili.
— Perché accettano di morire ammazzando gli altri?
— Tutti gli esseri hanno un istinto che si chiama istinto di vita: una volontà naturale di salvarsi la pelle e di vivere. Mentre questi terroristi che si fanno esplodere in mezzo alla folla hanno accettato di separarsi dall’istinto di vita, di sostituirlo con l’istinto di morte.
— Ma come?
— Esistono specialisti che raccontano loro certe storie, basate non sulla ragione ma su promesse mirabolanti. Lo fanno servendosi di tecniche che rendono il cervello malleabile, manipolabile.
— Puoi darmi qualche esempio?
— Usano parole che corrispondono alle loro aspettative, come jihad, martirio, paradiso, ricompensa suprema… Siamo su un terreno religioso. Quando si crede a questo si passa dall’altro lato della vita. O in altri termini, si accetta di credere che chi fa la jihad — la guerra contro i miscredenti, quelli che non credono nel loro Dio — e offre la propria vita in sacrificio, andrà direttamente in Paradiso, per essere accolto da giovani vergini e fare una vita mille volte più bella di quella che conosciamo quaggiù.
— Uauuu!
— Hai ragione. Un martire è uno che muore per un’idea, per una causa, e perciò merita una ricompensa scelta da Dio.
— Ma tutto questo non è vero?
— Che importa? Il fatto è che questi individui credono in quelle storie, come se dormissero in piedi. Il loro cervello non funziona più normalmente. Lo hanno scollegato dalla realtà che conosciamo. Sono persone che non appartengono più al nostro mondo. E proprio per questo sono pericolosi. Non solo non hanno paura di morire, ma una volta compiuta la loro missione desiderano la morte con tutte le loro forze.
— Cosa dobbiamo fare per evitare di incontrarli?
— In genere ai bambini si dice di stare attenti. Ma in questo caso, le persone che stavano al Bataclan per ascoltare un concerto rock non potevano immaginare neppure per un secondo che proprio lì avrebbero perso la vita. La sorpresa è una forza. La sicurezza garantita al cento per cento non esiste. Ma c’è il lavoro immediato della polizia, che è necessario e importantissimo; e a lungo termine c’è l’educazione. La scuola deve integrare nei suoi programmi la lotta contro il razzismo, spesso alla base dell’intolleranza e del fanatismo. Che si traducono poi nella realtà attraverso l’esercizio del male assoluto: dare la morte, gratuitamente, a persone innocenti, e diffondere la paura e il terrore.
— Sei ingenuo!
— Può darsi, ma al di fuori della guerra, non vedo altre soluzioni.
Traduzione di Elisabetta Horvat
Le fiabe di Perrault o “Le mille e una notte” sono crudeli. Eppure sono amate anche in tenera età La scuola deve inserire nei suoi programmi la lotta al razzismo è questa l’unica soluzione


“Fermiamo subito Daesh o la paura ci distruggerà” 

Da Parigi lo scrittore israeliano analizza il dopo-stragi: “L’Is vi uccide per quello che siete, non per ciò che fate. E se nel mio Paese non ci sarà la pace dilagherà anche lì”
ALEXANDRA SCHWARTZBROD

Lo scrittore israeliano David Grossman il weekend scorso era a Parigi per presenziare a un congresso di psicanalisti, alla fine annullato a causa degli attentati. Mi ha ricevuta nel suo albergo nel centro di Parigi ed è stato lui a fare la prima domanda: «È lontana da qui place de la République? Quanto ci vuole a piedi? Mi piacerebbe unirmi alla folla».
Lei che vive in un Paese lacerato dagli attacchi terroristici, come spiega gli attentati di venerdì 13?
Perché la Francia è presa di mira?
«È difficile mettersi nella testa di persone fanatiche. Non solo loro non riescono a capire gli occidentali, anche gli occidentali non riescono a capirli. La politica estera della Francia probabilmente spiega almeno in parte questi attacchi dello Stato islamico. Ma anche il modo di vivere dei francesi e quel motto repubblicano “Liberté, égalité, fraternité”. Anche se non sempre viene rispettato, per i fanatici resta una provocazione, qualcosa da distruggere. Quello che la Francia però deve capire bene è che questi atti terroristici non sono appelli disperati al dialogo, sono una volontà ermetica di diffondere il terrore. Non si può negoziare nulla con questa gente, sono venuti per uccidere. Non può esserci nessun dialogo possibile con persone che vogliono ammazzarvi non per quello che fate, ma per quello che siete».
C’è dunque un parallelo con la situazione in Israele?
«Intendiamoci: un omicidio è un omicidio, qualsiasi atto terroristico dev’essere condannato col massimo vigore. Ma ritengo che ci sia una grande differenza fra quello che vive oggi la Francia e quello che viviamo noi. In Israele, se riusciremo a trovare una soluzione con i palestinesi, sono sicuro che le azioni terroristiche cominceranno a diminuire. Il buon senso finirà per imporsi. Sono profondamente convinto che rimane uno spazio di negoziazione con i palestinesi».
Dopo questi attentati cosa cambierà nella società francese?
«Vivere nella paura è distruttivo. Si acquisisce il riflesso istintivo di vedere dei pericoli dappertutto. Non si riesce a evitare di guardare l’altro, se è diverso da te, come un pericolo. È questa la forza del terrore. Ci riporta a un volgare stadio animale. E soprattutto ci mostra con quanta rapidità si possono dimenticare i nostri valori di libertà e di democrazia. Ci vorrà tempo per uscire da tutto questo. Ma ci sono momenti, nella vita, in cui bisogna scegliere fra due cose sgradevoli. La Francia deve assolutamente unirsi con i Paesi che combattono lo Stato islamico, e in particolare la Russia. E soprattutto deve andare a combattere sul terreno. Lo Stato islamico ha un impatto enorme, ma è un’organizzazione piccolissima. In compenso, non bisogna assolutamente confondere lo Stato islamico con l’islam. È esattamente quello che vuole Daesh: dividere la società francese, aizzare i non musulmani contro i musulmani».
Amos Oz ha dichiarato che non parteciperà più alle manifestazioni ufficiali israeliane per protesta contro la politica di Netanyahu. Lei è sulla stessa linea?
«Rispetto la posizione di Amos Oz, ma considero importante che le ambasciate israeliane nel mondo rappresentino anche le mie opinioni critiche, anche quando faticano a mandarle giù».
Non ha paura che Daesh finisca per insediarsi a Gaza o in Cisgiordania?
«Sì, naturalmente. E il solo modo per evitarlo è negoziare con i palestinesi. Se non offriamo loro un modo per esprimere la loro identità nazionale, c’è il rischio che cedano alla tentazione del radicalismo. E bisogna fare in fretta, non abbiamo abbastanza tempo: il “terrorismo dei coltelli” è già influenzato dallo Stato islamico».
Netanyahu è in grado di farlo?
«Difficile a dirsi. Io penso che faccia un errore di fondo: la sua più grande aspirazione non è risolvere il conflitto, ma gestirlo, contenerlo. La destra israeliana ritiene che esista una sorta di status quo con i palestinesi, che comprende fasi di violenza. Ma hanno torto. Quando un popolo è oppresso, non può esserci nessuno status quo. La rabbia dei palestinesi è sempre più trattenuta, finirà per esplodere, e questa volta sul modello dello Stato islamico».
Bisogna dialogare anche con Hamas?
«C’è una differenza fra Hamas e lo Stato islamico. Hamas affonda le sue radici nella popolazione, per molto tempo ha rappresentato una causa che alla popolazione appariva difendibile. Daesh è un esercito che cerca di fabbricarsi una popolazione. Non gode di un ampio consenso fra la gente come Hamas. Nell’Olp ci sono ancora dei leader con cui si può discutere, in Hamas no. Se si trova un compromesso con i palestinesi, allora bisogna riuscire a stipulare un cessate il fuoco con Hamas. Ridurre l’intensità del fuoco che cova sotto la cenere di questo conflitto sarebbe già un grande successo. Se i palestinesi riusciranno a ritrovare un po’ di normalità e di dignità, invece di umiliazioni quotidiane e check-point, allora saranno sempre meno quelli decisi a combatterci. Bisogna fare in modo che i nostri due popoli straziati arrivino a trovare un compromesso, anche doloroso, nonostante manchino drammaticamente del vocabolario della pace».

I MUSULMANI E IL DIALOGO DIRITTI SÌ, MA ANCHE DOVERI 
Scenario confuso Nessuno può sapere cosa accadrà anche perché l’atteggiamento delle grandi potenze è oscuro e fluttuante e il Medio Oriente è un mosaico Confessione Le stragi jihadiste costringono le comunità che si ispirano al Corano a proclamarsi e a dimostrarsi moderati, civili, aperti e democratici 
Corriere della Sera di Claudio Magris © RIPRODUZIONE RISERVATA 

Da pagina 1 Un paio d’anni fa mi trovavo a Podgorica, la capitale del Montenegro, e ho girato un po’ il Paese insieme a Ognjen Spahic, un giovane scrittore col quale avevo discusso in un dibattito su identità e frontiera nella narrativa. Spahic, tra le altre cose, ha scritto un forte e snello romanzo, I figli di Hansen, racconto di un ultimo lebbrosario e della sua chiusura che è anche una sanguigna e fantomatica allegoria della storia (post-storia dice qualcuno) balcanica ed europea in generale. Ho pranzato a casa sua, con lui e sua moglie, abbiamo fatto un giro in macchina tra le montagne del Paese e lungo la riva del lago di Scutari. Spahic e la sua famiglia sono musulmani. Senza ostentazioni né chiusure, preghiera all’ora stabilita dalla tradizione ereditata dai padri e vissuta sinceramente e rispettosamente, come chi si fa il segno della croce quando passa un fratello che si avvia all’estrema dimora o quando si mette a tavola. 
Quando sento discutere su cosa bisogna chiedere all’Islam moderato, penso si possa e debba chiedere un comportamento spontaneo di ogni giorno come quello di quegli amici, ricambiato da uno analogo da parte nostra. Naturalmente una risposta simile è simpatica ma inadeguata e falsa rispetto al drammatico e criminale conflitto in atto su scala mondiale, perché è facile comprendersi e simpatizzare tra persone diverse per fede religiosa ma simili per formazione intellettuale, condizione economica ed esperienza di altri Paesi. C’è differenza tra Abdus Salam, fisico Premio Nobel pakistano, musulmano fervente e per molti anni direttore del Centro internazionale di Fisica teorica a Trieste e i miserabili delle banlieue non solo parigine, disoccupati, sottosviluppati dediti all’alcool e alla droga in barba ai divieti dell’Islam ma che ebbri e drogati massacrano in nome dell’Islam, balordi di periferia promossi al ruolo di assassini e prodotti da sottosviluppo, sfruttamento, disoccupazione, miseria, universali elementi di degradazione. Se non si riuscirà a bonificare — non solo in Francia o in Europa, ma nelle più varie parti del mondo — questi inferni, vere culture in vitro di violenza e di morte, gli abietti crimini di Parigi si ripeteranno. 
Naturalmente interrogarsi, da parte occidentale, sulle proprie responsabilità, vicine e lontane, di questa violenza, è necessario per sperare di rompere la sua catena, ma non elimina la necessità di stroncare la violenza in atto. Se un morto di fame uccide qualcuno — anche se certo non tutti gli assassini sono morti di fame — deve essere punito con la massima durezza; la sua violenza — a prescindere dalle cause lontane che l’hanno provocata, magari ad opera di delinquenti altrettanto infami sotto bandiere di civiltà — esige la repressione. 

Ma cosa vuol dire Islam moderato? L’Islam è un universo, una civiltà plurisecolare che ha prodotto tesori d’arte, di cultura, di filosofia e ha promosso guerre feroci; che in certe epoche e regioni ha garantito giustizia e benessere e in altre ha inflitto violenze e supplizi. Dire Islam, ha affermato qualche giorno fa Massimo Cacciari, è come dire Occidente; è difficile porre sotto lo stesso ombrello i filosofi arabi che traducevano Aristotele e il Califfo Omar che distrusse la biblioteca di Alessandria, per non parlare di crimini ben peggiori compiuti peraltro, in varie misure, da tutte le civiltà assurte a grandi potenze. È anche difficile mettere sotto lo stesso ombrello dell’Occidente la Magna Charta e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino e le leggi naziste di Norimberga. 
Le stragi jihadiste mettono oggi le comunità islamiche e in genere i musulmani nella necessità di proclamarsi e di dimostrarsi moderati, civili, aperti e democratici. Gli islamici devono dimostrare di essere innocenti, contro ogni principio liberale e democratico occidentale che impone di provare la colpa e non l’innocenza. I delitti di mafia non sono meno odiosi e meno gravi — dai taglieggiamenti che soffocano imprese e famiglie ai bambini fatti sparire nel calcestruzzo — e dovrebbero essere puniti nel rispetto del diritto ma con spietatezza non minore di quella invocata da Hollande nei confronti dei boia di Parigi. Ma un italiano non è costretto a dichiarare e a ostentare la sua estraneità e avversione alla mafia. Io non ho mai partecipato ad alcuna marcia antifascista o antiterrorista — ognuno ha il suo temperamento — senza per questo essere considerato tiepido o peggio nei confronti degli squadristi o delle Brigate rosse. 
Gli islamici devono invece farlo. Molti iman delle varie comunità si affannano a proclamare — lo ha fatto, ad esempio, con grande chiarezza il capo della comunità islamica a Trieste — che l’assassinio politico è una colpa gravissima secondo la religione musulmana, che gli assassini jihadisti non hanno diritto di proclamarsi musulmani perché le loro azioni li escludono dalla fede coranica ed è peccato di blasfemia uccidere in nome di Allah. A queste posizioni si contrappone peraltro spesso non solo la incriminosa solidarietà con i criminali attestata dai famosi fischi allo stadio o da altri simili atteggiamenti. Gli iman parlano e marciano, ma pochi dei loro fedeli li seguono, anche se nelle ultime ore sembra di avvertire una partecipazione crescente. Si potrebbe sospettare che nelle comunità sia non poco diffusa una avversione all’Occidente o almeno una specie di estraneità, di neutralità rispetto a ciò che accade, simile in qualche modo alle indegne e false dichiarazioni di un tempo «né con lo Stato né con le Brigate rosse», false oggettivamente perché chi non imbracciava il mitra assassino ma continuava a svolgere onestamente il proprio lavoro contribuiva al buon funzionamento dello Stato ed era quindi contro chi sparava ai suoi migliori rappresentanti. 
Nessuno può sapere cosa accadrà, anche perché l’atteggiamento delle grandi potenze — a cominciare da quella degli Stati Uniti nei confronti dell’Europa — è oscuro e fluttuante; il Medio Oriente è un mosaico in cui le alleanze non si distinguono bene dagli scontri e mutano da un giorno all’altro. L’Arabia Saudita è un alleato dell’Occidente e finanzia gli assassini che vogliono distruggerlo, in un Grande Gioco più complicato di quello degli inglesi in India nei racconti di Kipling. 
Inoltre i fanatici jihadisti potrebbero favorire, ignari, un pericolo più grande di cui le invocate leggi speciali sono un’avvisaglia: la fine di una reale liberaldemocrazia (del liberalismo più ancora che della democrazia), una sinistra alleanza tra un potere politico di fatto autoritario e un totalitarismo colloidale di informazione e opinione pubblica lobotomizzate e uniformi — la fine della reale e concreta libertà individuale. Questa sì sarebbe una grottesca morte della Francia della Liberté, Egalité, Fraternité e una paradossale vittoria del terrorismo, inconsapevole e stupido strumento di una degradazione e di una tirannide che esso non può comprendere. Quel domani ha molte probabilità di essere ben peggiore e invivibile di oggi. 
Fra le comunità islamiche nei vari Paesi Occidentali e i cittadini di quei Paesi vi è spesso un reciproco pregiudizio anch’esso alla lontana fonte di sciagura. Vi sono barbari e ignoranti pregiudizi xenofobi che non solo negano l’umanità ma fomentano la livida chiusura di chi si sente disprezzato e respinto. Chi, anche in questi giorni, ha ingiuriato volgarmente e indiscriminatamente tutti gli islamici incrementa la loro chiusura e il loro odio nei confronti dell’Occidente, facendone dei potenziali fiancheggiatori degli jihadisti. 
Più che marciare, le comunità islamiche devono capire che se l’invocata multiculturalità è un valore, quest’ultimo si realizza nell’incontro, nello scambio, nella frequentazione reciproca, in cui ognuno conserva la propria identità e i propri valori ma li arricchisce di nuove sfumature e esperienze. Venire accolti in un’altra terra vuol dire innanzitutto rispettarne le leggi e costumi. 
Chi non rispetta valori inalienabili, ad esempio la parità dei diritti delle donne, deve subire il rigore della legge e della pena. Ma vuol dire anche integrarsi in quelle nuove patrie, restando se stessi ma per così dire con una marcia in più. 
Per colpa propria e altrui, le comunità islamiche appaiono non troppo propense al dialogo e alla relazione. Quei genitori islamici che vorrebbero per i loro figli classi solo islamiche e compagni di classe solo islamici, che non vogliono che i loro figli vedano — neanche nei capolavori artistici — immagini religiose estranee alla loro fede non solo offendono il Paese che li ospita, ma precludono ai loro figli la crescita culturale, li condannano al ghetto e all’isolamento, motivano il disprezzo e la diffidenza nei loro confronti. Le autorità scolastiche ad esempio italiane disposte ad accogliere queste richieste fanatiche e razziste alimentano sia la chiusura etnicoreligiosa islamica sia il pregiudizio razzista nei confronti di tutti i musulmani. Anche loro sono un po’ responsabili delle ingiurie indiscriminate. Pure chi crede di dover combattere l’Islam dovrebbe, proprio per tale ragione, conoscerlo almeno un pochino. 
Alcune sere fa, in uno dei tanti talk show, a un iman corretto e irreprensibile (che nelle infuocate e anche ingiuriose discussioni talora sembrava l’unica persona civile, un razzista avrebbe detto l’unico uomo bianco) venne ingiunto di rinnegare Allah, non dovrebbe essere difficile sapere che Allah non è la dea Kali né un idolo di legno, ma è semplicemente, in arabo, il nome di Dio, il quale, si dovrebbe sapere, è invocato in tutte le lingue del mondo.      

IL COMPITO DIFFICILE DI CONCILIARE LIBERTÀ E SICUREZZA 
Paralleli Islamisti e brigatisti, diversissimi, condividono la pulsione alla polarizzazione estrema dello scontro
21 nov 2015  Corriere della Sera di Paolo Franchi © RIPRODUZIONE RISERVATA 

Guerra Gli attentatori di Parigi non sanno che farsene della speranza (insana) di ottenere qualche consenso tra una parte almeno della popolazione  Niente di più sbagliato che suggerire analogie tra il terrorismo politico europeo degli anni Settanta-Ottanta e quello islamista. Almeno una cosa in comune, però, questi terrorismi incommensurabilmente diversi la hanno. Ed è la pulsione irrefrenabile alla polarizzazione estrema dello scontro, alla desertificazione, cioè, dei mondi restii, adesso per cultura e modi di vita ben più che per motivazioni politiche, a fare propria la logica ferrea della contrapposizione brutale e feroce tra l’amico e il nemico su cui ogni terrorismo si fonda. Probabilmente i gruppi di fuoco che hanno scelto come bersagli, oltre allo stadio, l’undicesimo e il dodicesimo arrondissement di Parigi, e come occasione il venerdì sera, non ci hanno neanche pensato, volevano «solo» dimostrare con il sangue degli innocenti (e con il loro) che questa è una guerra in cui nessuno può illudersi di essere al sicuro. Ma con ogni probabilità anche il commando brigatista che il 24 gennaio 1979 assassinò l’operaio comunista Guido Rossa era convinto «semplicemente» di liquidare un «delatore»: di fatto stava lanciando, invece, un aut aut sciagurato (o con noi o contro di noi) alla classe operaia italiana, che fortunatamente, ma in primo luogo grazie all’opera dei suoi bistrattati partiti e dei suoi ancor più bistrattati sindacati, lo rinviò al mittente. 
Stavolta non c’entrano né le Brigate rosse né le ideologie novecentesche, né i partiti né i sindacati. Qui si parla di quartieri un tempo popolari e rossi, affollati di lapidi in memoria di resistenti (spesso operai, spesso sindacalisti) ed ebrei, che molto spesso impietosamente ci ricordano il ruolo della polizia francese nel mandarli a morte; qui si parla di quartieri dove da un pezzo il bourgeois bohémien, sempre che esista ancora, e i suoi figli convivono pacificamente, e talvolta si mescolano (al mercato, al bistrot, a scuola) con il cinese, con il turco e naturalmente con il maghrebino; qui si parla di quartieri i cui locali e le cui strade, ogni venerdì e ogni sabato sera, si riempiono di una gioventù cosmopolita che non si fa problema, per stare insieme, del colore della pelle, della fede religiosa, della condizione sociale. Non è l’Eden, ci mancherebbe. È piuttosto une certaine idée de Paris, quella idea di cui ci ha dato testimonianza, dopo la strage, la vicina Place de la République più ancora che Notre-Dame. Di una Parigi lontana, lontanissima, certo, dai ghetti della banlieue, dove, tra tanto odio, matura anche quello delle giovani reclute dell’Isis; ma pure dalla Parigi della grande e media borghesia conservatrice e (vogliamo dirlo?) spesso apertamente reazionaria. Da queste parti i voti per madame Le Pen, almeno sin qui, si sono contati sulle punte delle dita; e neanche Sarkozy, che nell’altra Parigi stravince, è mai andato per la maggiore. Da queste parti l’idea che sia in corso uno scontro di civiltà, una guerra di religione per vincere la quale bisogna prima di tutto arruolarsi, non ha mai fatto troppi proseliti. 
A questa Parigi i seminatori di morte hanno fatto sapere, con il sangue, che così non può andare avanti. Che c’è la guerra, la più totale delle guerre, e in una guerra simile non c’è posto per chi vuole vivere in pace come più gli aggrada, accettando il rispetto della libertà altrui come unico limite alla sua. A differenza dei brigatisti della colonna genovese che uccisero Guido Rossa, questo terrorismo non nutre nemmeno, anzi, non sa che farsene, della speranza (insana) di ottenere qualche consenso tra una parte almeno della gente. Al contrario, se anche quelli dell’undicesimo e del dodicesimo si ritrovassero, per paura, per disperazione, per non sentirsi soli, a reclamare occhio per occhio, sangue per sangue, se le ragazze e i ragazzi del venerdì e del sabato sera smettessero di mescolarsi allegramente e se ne restassero a casa, o frequentassero luoghi ben più fortificati, gli strateghi del terrore, che cercano anche loro una specie di legittimazione (perché, altrimenti, autodefinirsi Stato?), sarebbero convinti, purtroppo a ragione, di aver raggiunto almeno uno, e non l’ultimo, dei loro obiettivi. Tra i quali, al di là dei proclami, sanno benissimo che non rientra, perché non può materialmente rientrarci, la conquista della Francia, o dell’Italia, o della Gran Bretagna. Ma il nostro suicidio (perché questo sarebbe la rinuncia alle nostre libertà e al pluralismo dei nostri modi di vita) sicuramente sì. Conciliare libertà e sicurezza, quando si è sotto attacco, è impresa difficilissima, e forse, Dio non voglia, addirittura impossibile. Non porsi nemmeno la questione, o nasconderla sotto una spessa coltre di retorica, è follia.

DIFENDERE LA TOLLERANZA IN UN MONDO SCONVOLTO
1 nov 2015 Corriere della Sera Di Antonio Macaluso
Stato d’animo Qualcosa sta cambiando nel nostro modo civile di vivere e sentire gli altri
Due giorni fa, al termine del sanguinoso blitz delle forze di sicurezza francesi a Saint-Denis, siti, giornali e televisioni hanno diffuso le immagini di uno dei terroristi arrestati. L’uomo appare di spalle mentre viene portato via completamente nudo, probabilmente per paura che potesse nascondere una cintura esplosiva. Il plauso per la cattura è stato generale, nessuno ha avuto da eccepire sulle modalità. È questo, nella Francia paladina dei diritti civili e della libertà, è un segnale indicativo. Appena qualche mese fa, il 26 agosto, le foto senza scarpe del marocchino Ayoub El-Khazzani, l’uomo che aveva tentato di compiere una strage sul treno ad alta velocità AmsterdamParigi ed era stato fermato da due militari americani in vacanza, avevano suscitato proteste. Khazzani appariva in pigiama, bendato e ammanettato, mentre veniva portato al Palazzo di Giustizia di Parigi. In Francia, in base ad una legge del 1881, è vietato pubblicare foto di persone ammanettate, senza il loro consenso e prima che siano state condannate in modo definitivo. L’avvocato del marocchino, Many Ayadi, aveva sostenuto che «qualsiasi siano la natura e la gravità dei fatti per i quali una persona è accusata, il nostro stato di diritto non può accettare che questo individuo sia trattato in maniera degradante e inumana».
Dunque, qualcosa sta cambiando sul fronte della tolleranza civile e democratica? Lo stato di fatto di guerra con i terroristi dell’Isis sta modificando la percezione dei diritti anche nel cuore, colpito dagli attentati, dell’Europa aperta e liberale? Certamente qualcosa si sta modificando nelle nostre abitudini e nella gestione dei rapporti e il motto volteriano «disapprovo quello che dite, ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo» sembra perdere appeal e lasciare il passo ad un misto di paura-rancore-vendetta. Sono lontani, e non solo temporalmente, gli anni — era il 2002 — in cui la gran parte dell’opinione pubblica americana ed europea si scagliava contro le
fotografie che ritraevano i prigionieri di Guantanamo in ginocchio e ammanettati. La riduzione progressiva delle nostre libertà — prima gli aerei, poi la satira, ora ristoranti, discoteche, stadi, cinema, metropolitane e così via per ogni luogo affollato — abbassa la soglia di tolleranza anche negli strati più liberali e colti dell’occidente. E del resto, uno che di psicologia se ne intendeva, Sigmund Freud, sosteneva che la libertà non è un beneficio della cultura: «Era più grande prima di qualsiasi cultura e ha subito restrizioni con l’evolversi della civiltà».
Certo non può sfuggire il rischio che il vortice di violenza innescato dal terrorismo di matrice islamica trascini il nostro modello di società in una vera e propria guerra tra civiltà, un rischio niente affatto teorico se dovessero prevalere le linee più estremiste di molti movimenti politici e perfino di alcuni governi. Ancorare la fermezza della risposta ai principi liberali di rispetto delle diversità e difesa della dignità dei popoli e dei singoli è la scommessa del futuro prossimo per l’intera comunità occidentale. Poco importa, su questo fronte, la fede religiosa professata perché solo isolando il fronte dei violenti si potrà riconquistare un tasso di vivibilità alto e certo. Dunque, che risposta ci sia, che si bombardi, che si taglino i flussi di denaro che alimentano il terrore, ma senza cadere nella trappola di chi punta a dimostrare che il «nostro» mondo è il vero nemico del rispetto, del dialogo, della dignità. Anche perché, come ammonì papa Giovanni Paolo II, «ogni violazione della dignità personale favorisce il rancore e lo spirito di vendetta».      

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