domenica 8 novembre 2015
Gli esperimenti sulle cavie umane nei campi di concentramento nazisti
Paul Weindling: Vittime e sopravvissuti. Gli esperimenti nazisti su cavie umane, Le Monnier, Firenze, pagg. XII+394, € 12,00
Risvosto
Questo libro, basato su una vasta ricerca portata avanti su una grande
quantità di fonti, mette in luce pratiche, obiettivi, logiche,
estensione e luoghi degli esperimenti nazisti. Gli esperimenti non
furono soltanto atti di crudeltà occasionale o monopolio di pochi medici
SS, di cui Mengele resta la figura iconica, ma parte integrante del
processo di distruzione razziale. La ricerca nazista sugli esseri umani
non era priva di etica; era l'etica a essere stata plasmata
dall'ideologia nazista: il dovere del medico non era più verso il
singolo paziente, ma verso la nazione e la razza.
Per la prima volta la sperimentazione medica coercitiva nazista viene
descritta come fenomeno a sé stante, con una sua evoluzione, che non si
esaurisce all'interno dei campi di concentramento. Nuova è anche
l'attenzione riservata non ai soli perpetratori, ma anche e soprattutto
alle vittime di cui si va a ricostruire, per quanto possibile,
l'identità e l'esperienza.
Medicina nazista Sperimentazioni su cavie umane
di Gianni Fochi Domenica del Sole 24Ore 8.11.15
Si
è capito da diversi anni, ma stenta a diventare un fatto culturale
acquisito, forse perché piace assolvere i valori della cultura
umanistica (comunità, identità, dovere, integrità, etc). Il fenomeno
storico, politico, sociale e culturale che fu il nazismo, con la sua
logica razzista applicata a fini dell’igiene sociale, non traeva
ispirazione da malsane ideologie scientifiche o pseudotali, ma da
tribali credenze etnico-morali, condite di salse umanistiche. Le virtù
naziste furono coltivate dal partito di Hitler e dalle sue gerarchie,
così come dalle élite politiche e burocratiche tedesche, ma prima di
tutto giustificate ed esaltate da pensatori che non erano certo
scienziati, come Martin Heidegger, Carl Schmidt e Gerhard Kittel: cioè
un filosofo, un teorico della politica e un teologo protestante. Il
nazismo si è tenuto in piedi e ha causato le tragedie che conosciamo,
non perché Hitler aveva fatto qualche lettura di biologia o perché la
teoria della razza e le dottrine eugeniche avessero qualche forza di
convinzione sulla popolazione tedesca.
La pseudoscienza della razza e
la medicalizzazione dello sterminio di ebrei, zingari, omosessuali,
dissidenti politici, malati di mente, etc. sono entrate in gioco a valle
di un processo di formazione della “coscienza nazista” per usare
l’efficace espressione della storica Claudia Koonz, la quale in un
insuperabile libro con lo stesso titolo (Harvard Universtity Press 2003)
ha implacabilmente dimostrato che lungi dal non avere un’etica, i
nazisti ne avevano una molto ma molto potente. Una forma di
fondamentalismo secolare ed etnico che cancellava gli ebrei e chiunque
non appartenesse al popolo tedesco, inteso come comunità dotata di una
vita propria, dall’orizzonte morale. Gli ebrei erano percepiti come
materiale infettivo che poteva contaminare e far ammalare la comunità, e
quindi era giustificato relegarli ai margini della società tedesca. Via
via che l’estraniazione e la disumanizzazione degli ebrei si radicava
nella mentalità di ogni singolo tedesco, diventava accettabile o
indifferente che la cerchia di sociopatici riunitisi intorno a Hitler
potesse pianificare e mettere in atto un’operazione imponente come lo
sterminio di ebrei, zingari, malati di mente, etc.
Date queste
premesse, cosa si può dire ancora della cosiddetta “medicina nazista”,
cioè del fenomeno che colpisce maggiormente l’immaginazione sociale
quando si pensa al nazismo. L’ultimo libro di Paul Weindling è un testo
quasi definitivo sull’'argomento. Risultato di un lavoro
dettagliatissimo basato non solo sugli atti del processo di Norimberga
ai medici nazisti, ma anche e in modo efficace sulle richieste
postbelliche di risarcimento da parte dei sopravvissuti. In questo modo è
riuscito ad accumulare agghiaccianti informazioni da cui emerge un
quadro di crudeltà inenarrabile ai danni di 15.744 vittime confermate
(12.002 quelle non confermate), di cui gli ebrei sono il 20%. Weidling
descrive una serie di raccapriccianti esperimenti mortali, dove cioè i
soggetti erano uccisi a fini di ricerca e conta ben 2956 vittime (altre
1200 circa morirono o nel corso degli esperimenti o a causa delle
procedure).
Lo storico britannico dimostra che la sperimentazione era
un progetto sociale, per nulla confinato ai campi di concentramento, e
nemmeno era il passatempo di qualche infame medico delle SS, come Josef
Mengele. La sperimentazione su soggetti umani divenne, con l’affermarsi
del potere nazista, un’attività diffusa e praticata in larga parte come
fine a se stessa e per causare crudeli sofferenze, più che sulla base di
razionali protocolli. Del resto gli scienziati della razza tedeschi e
poi i medici, che progettavano esperimenti nei campi di concentramento,
erano tutt’altro che inquadrati nel perseguimento di obiettivi
conoscitivi o applicativi coerenti; ma piuttosto erano tra loro in
competizione per mettersi in mostra e sopravanzarsi nello zelo con il
quale praticavano atroci e mortali esperimenti.
Il libro non lascia
indifferenti perché racconta a ogni pagina orribili e dolorosissime
procedure. Il limite è assumere che i lunghi elenchi di nomi e le
raggelanti descrizioni possano da sole bastare per spiegare che cosa è
accaduto. Ovvero che parlare di «persecuzione scientifica» per imputare a
una metodologia la responsabilità, e non piuttosto a quei medici e
scienziati che si fecero protagonisti delle crudeltà che vengono
descritte, risponda davvero alla domanda: «perché?»
La malvagità
nazista, ma anche quella di chi pratica oggigiorno atti crudeli e
omicidi senza essere uno psicopatico, è spiegata dalle neuroscienze
sociali. Il nazisti che praticavano quegli esperimenti erano individui
che traevano piacere dal causare dolore e morte, e riuscivano
tranquillamente a rimanere indifferenti perché avevano messo in atto una
disumanizzazione delle vittime (cose che gli veniva anche facile dato
che erano quasi tutti medici e quindi già psicologicamente predisposti a
trattare le persone come oggetti) o peggio vedevano i soggetti degli
esperimenti come parassiti o sporcizia sociale. Inoltre, quelle persone
mettevano in atto strategie di negazione e autoinganno, formidabili, con
le quali giustificavano i crudeli comportamenti.
Un’idea che ha
avuto successo nel caratterizzare i nazisti è quella della «banalità del
male», cioè l’intuizione di Hanna Arendt mentre assisteva al processo
contro Adolf Eichmann in Israele nel 1961. Il male non è mai banale, ha
sempre una sua specificità, e non è intelligente banalizzarlo. Eichmann
era un feroce e sadico assassino, cioè presentava un profilo psicologico
del tutto diverso da quello di una persona normale. Di là dai soggetti
più o meno psicopatici, per i quali c’è poco da fare se non
eventualmente rinchiuderli, quello che dovrebbero insegnare le atrocità
naziste è a capire la combinazione di sentimenti morali che maturando in
una comunità umana prepara o rende possibili e accettabili crudeltà
disumane.
I valori etnici e fondamentalisti sui quali era basata
l’etica nazista non sono per niente scomparsi. Sono presenti, nella
psicologia morale umana profonda, pronti a riaffermarsi laddove le
condizioni ecologico-politiche li renda nuovamente adattativi, in modi
che non avranno i contenuti ideologici del nazismo, ma di cui è facile
intravvedere tracce nei movimenti identitari e settari anche in Italia.
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