lunedì 2 novembre 2015
Il ritorno di Lurija
Aleksandr Lurija: Un mondo perduto e ritrovato. Traduzione di Mario Alessandro Curletto, Adelphi, 2015, pp. 233
Risvolto
1943. Fronte russo occidentale, regione di Smolensk: Lev A. Zaseckij, giovane tenente dell’Armata Rossa, viene ferito da un proiettile tedesco che gli penetra in profondità nel cervello cancellando la percezione di una parte del corpo e pregiudicando sia la comprensione del linguaggio che la memoria. Sottoposto a un intenso processo di riabilitazione, Zaseckij recupera frammenti delle funzioni cerebrali perdute e torna, dolorosamente, a vivere: riaffiorano nomi di persone e oggetti, impara di nuovo a contare, riconosce la via di casa... Giorno dopo giorno, dapprima con fatica poi con crescente sicurezza, annota i progressi in un diario a partire dal quale il grande neuropsicologo russo Aleksandr Lurija, che lo ebbe in cura per molti anni e con lui stabilì una relazione strettissima e partecipe, ricostruisce il profilo clinico e la personalità di un uomo sensibile e indomabile, realizzando, come ha scritto Oliver Sacks, «quella fusione di pittura e anatomia sognata da Hume». Libro «romantico» – cioè incarnazione di una scienza nemica di ogni riduzione della realtà a schemi astratti –, Un mondo perduto e ritrovato è anche un libro unico, frutto della felice combinazione (sono ancora parole di Sacks) di «una descrizione rigorosa, analitica» e di «una comprensione e immedesimazione profondamente personale con gli oggetti», di lucidità scientifica e tensione drammatica. Impresa nuova e audace, che muovendo dai Ritratti immaginari di Walter Pater sfocia in un nuovo genere letterario: il ‘romanzo neurologico’.
Aleksandr
Lurija. L’impresa titanica che Aleksandr Lurija tentò per rimettere
insieme i frammenti della coscienza di Lev A. Zaseckij, il soldato la
cui ferita al cervello provocò una scissione tra le parole e i
significati
di Valentina Pisanty il manifesto 11.10.15 Alias Domenica
Lev A. Zaseckij aveva ventitré anni quando, il 2 marzo 1943, una
pallottola gli si conficcò nella regione parieto-occipitale
dell’emisfero destro. Si svegliò in un ospedale militare non lontano dal
fronte russo occidentale con la memoria frantumata e il campo visivo
dimezzato. La cartella clinica non autorizzava alcun ottimismo. Il
proiettile aveva perforato la nuca sul lato sinistro, attraversato la
massa del cervello, provocato infiammazioni nei tessuti circostanti e
avviato un processo di cicatrizzazione e di atrofia cerebrale destinato
ad avanzare negli anni a venire. Per effetto delle lesioni, Zaseckij
aveva perduto interi settori di quella che oggi chiameremmo la memoria
procedurale (quella che presiede alla lettura dell’orologio, alla
vestizione o all’impiego degli utensili quotidiani), la capacità di
rappresentare mentalmente le parti del proprio corpo, l’orientamento
spaziale, il significato di molte parole, e tutte le conoscenze che
aveva accumulato nella vita precedente, dal nome delle sorelle agli
studi di ingegneria meccanica.
Nelle settimane successive fu trasportato da un luogo di ricovero
all’altro finché, alla fine di maggio, approdò all’ospedale di
riabilitazione neurochirurgica per i feriti di guerra negli Urali
meridionali. Fu preso in cura da Aleksandr R. Lurija, direttore
dell’istituto, già collaboratore del grande psicologo culturale Lev S.
Vygotskij, le cui riflessioni sul «principio dell’organizzazione
extracorticale delle funzioni mentali complesse» (le attività cognitive
che si realizzano con l’ausilio di oggetti esterni, dal nodo al
fazzoletto alla scrittura) avrebbero ispirato la linea terapeutica che
durante la guerra Lurija decise di tentare con alcuni suoi pazienti
cerebrolesi. Una sorta di ergonomia cognitiva che nel caso di Zaseckij
si realizzò nella stesura pluridecennale di un’autobiografia
faticosamente redatta giorno per giorno, parola per parola, pensiero per
pensiero, per cercare di rimettere insieme, almeno sulla carta, i
frammenti della sua coscienza polverizzata.
Pubblicato per la prima volta nel 1972 e oggi riedito con prefazione di
Oliver Sacks (1987) e postfazione di Luciano Mecacci, Un mondo perduto e
ritrovato (traduzione di Mario Alessandro Curletto, Adelphi, pp. 233,
euro 18,00) racconta la storia di questa impresa titanica. Lo fa
attraverso il montaggio di pagine tratte dal diario di Zaseckij,
alternate a commenti e digressioni dell’autore-curatore, la cui
principale preoccupazione è presentare il paziente nella sua unicità di
persona in lotta contro i devastanti deficit che lo affliggono, anziché
come caso clinico da incasellare nel bizzarro archivio delle
neuropatologie.
Pur menomato nelle sue possibilità di pensiero e di azione, Zaseckij
conservò intatta la forza d’animo, ed è sulla sua feroce volontà di non
soccombere alla malattia che fece leva il terapeuta quando gli propose
di reimparare a leggere e scrivere. Lo sforzo fu immane: non solo
Zaseckij non riconosceva più le lettere e stentava a memorizzarle di
nuovo, ma era anche incapace di vederne più di tre alla volta; il che,
sommato ai problemi di memoria, fece sì che dopo mesi di accanito
esercizio riuscisse a malapena a trattenere la traccia delle lettere
appena decifrate per collegarle a quelle successive, prima che l’intera
parola evaporasse nel nulla: «era come se gli occhi se ne andassero
ognuno per conto proprio, portandosi via la lettera che stavo per
guardare».
Con la scrittura non andava molto meglio. Come un bambino di quattro
anni Zaseckij dovette imparare a tenere in mano la matita e recitare
l’intero alfabeto dalla A alla Z per farsi venire in mente, uno a uno, i
caratteri che gli servivano a comporre le espressioni più elementari,
rileggendo la sequenza fin lì prodotta ogni volta che doveva aggiungere
un simbolo ulteriore. E siccome la ferita aveva distrutto i circuiti
cerebrali tramite i quali le impressioni dei diversi sensi confluiscono
in rappresentazioni unitarie, le parole e i concetti – scrive Lurija –
«sciamano come api» nella sua mente, senza coagularsi in immagini
coerenti o in sintagmi complessi.
«Proprio nel mio linguaggio e nella mia memoria è avvenuta la scissione
tra la “parola” e il suo «significato». Il ricordo di una parola e del
suo significato sono come separati l’uno dall’altro da un intervallo non
definito di tempo. E sono sempre quasi del tutto isolati l’uno
dall’altro, cosicché nel ricordare devo in qualche modo unirli. Ma
queste unioni non durano a lungo nella memoria, si dissolvono
rapidamente e svaniscono…». Così Zaseckij descrive la sua afasia, ed è
sorprendente la precisione con cui si esprime, quasi a smentire i
contenuti del resoconto. Mentre riferisce della scissione che nella sua
testa ha disgiunto i significanti dai significati, mentre racconta di sé
come di un individuo a pezzi cui sono stati «strappati dei legamenti
della memoria», mentre enumera le sue numerose défaillances quotidiane,
vergognandosi di apparire come uno stupido, si rivela l’esatto contrario
del personaggio che descrive: una persona lucida e consapevole, dotata
di una notevole proprietà di linguaggio, in grado di produrre discorsi
complessi e di ragionare sull’eziologia del suo male.
La scissione non riguarda dunque solo la parola e il suo significato, ma
anche il narratore e il personaggio, separati da un vistoso scarto
cognitivo, come se tra il tempo della storia e il tempo della narrazione
fosse sopraggiunta una miracolosa guarigione e lo Zaseckij scrittore
avesse ritrovato il lucchetto della memoria.
Tuttavia Zaseckij non era affatto guarito, e fin dalle prime pagine di
Un mondo perduto e ritrovato si capisce che il lieto fine ventilato nel
titolo non si realizzerà, o perlomeno non secondo i canoni del racconto
tradizionale. «È il libro su una lotta che non ha portato alla vittoria,
e su una vittoria che non ha messo fine alla lotta» – scrive Lurija –
con buona pace della morfologia di Propp.
C’è però un corrispettivo del mezzo magico fiabesco che segna un punto di svolta in questa lotta perpetua senza vittoria.
Constatati gli insuccessi della terapia logopedica, un bel giorno Lurija
ebbe una intuizione folgorante: posto che le regioni uditive del
cervello e tutte le attività motorie del paziente erano rimaste intatte,
perché non sfruttarle per cercare di ripristinare la capacità di
scrivere secondo un metodo alternativo? Gli propose dunque di scrivere
la parola «sangue» non lettera per lettera, bensì tutta insieme,
d’impulso, senza staccare la matita dal foglio, e senza riflettere sui
movimenti della mano. Zaseckij scoprì che il suo corpo ricordava ciò che
la mente aveva dimenticato: la parola si riversava meccanicamente sulla
carta e, sebbene faticasse a rileggerla, da quel momento gli si
dischiusero possibilità di azione sino ad allora impensabili. Con la
pratica imparò a scrivere interi periodi di getto, non sempre
linguisticamente ineccepibili (i problemi della memoria permanevano),
eppure in grado di fissare un primo abbozzo di senso sul quale lavorare
per giorni, mesi e anni, attraverso estenuanti correzioni, molteplici
versioni, stesure via via perfezionate, che alla lunga ricucivano
quell’indispensabile trama narrativa con cui gli umani si costituiscono
come soggetti.
Lotto ancora! è il titolo dell’autobiografia a cui Zaseckij affidò la
sua identità, tuttora frammentata nella vita reale, ma ricomposta nelle
tremila pagine che compongono il diario. È come se il protagonista
scaffalasse il suo sé in una memoria esterna a cui fare costante
riferimento per recuperare, oltre alla continuità della propria
esistenza, l’autostima necessaria per sentirsi persona tra le altre
persone.
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