lunedì 2 novembre 2015
Le Ateniesi: un romanzo storico di Alessandro Barbero
Alessandro Barbero: Le ateniesi, Mondadori
Risvolto
Atene, 411 a.C.
Siamo in campagna, appena fuori dalle porte della città, dove, in due
casette adiacenti, abitano due vecchi reduci di guerra, Trasillo e
Polemone. Anni prima hanno combattuto insieme nella ingloriosa battaglia
di Mantinea, che ha visto gli Ateniesi sbaragliati dagli Spartani, sono
sopravvissuti e ora vivono lavorando la terra e senza mai decidersi a
trovare un marito per le loro due figlie, Glicera e Charis, che però
iniziano a mordere un po' il freno.
Per i due vecchi l'unica cosa che conta è la politica. Atene ha
inventato la democrazia ma deve difenderla, i ricchi complottano per
instaurare la tirannide: anche il vicino Eubulo, grande proprietario che
si ritira in una villa poco distante quando le fatiche della vita nella
polis richiedono un po' di riposo, è guardato con sospetto. Ma Charis e
Glicera pensano che i padri vivano fuori dal mondo: per loro il giovane
Cimone, figlio di Eubulo, ricco, disinvolto e arrogante, è un oggetto
di sogni segreti.
È così che, quando tutti gli uomini si radunano in città per la prima
rappresentazione di una commedia di Aristofane, le ragazze violano tutte
le regole di una società patriarcale e accettano di entrare in casa di
Cimone, lontane dagli occhi severi dei padri. Ma mentre in teatro
l'ateniese Lisistrata e la spartana Lampitò decretano il primo,
incredibile sciopero delle donne contro gli uomini per invocare la fine
di tutte le guerre, la notte nella villa di Eubulo prende una piega
drammatica.
Riscrivere i classici
Gli dei dell’Olimpo sono poco celesti. E forse i veri barbari siamo noi
Un’antichità fosca in “Le ateniesi” di Alessandro Barbero. Non è il solo caso
di Daniele Giglioli Corriere La Lettura 1.11.15
Il classico è ciò che crediamo di sapere. «È un classico» si dice di
qualcosa troppo noto, scontato, prevedibile, un’opera ma anche una
circostanza, magari minima, tipo l’ennesimo ritardo di un treno o un
guasto in metropolitana. Rispetto e noia, deferenza e sconforto. Chi ci
libererà dei greci e dei romani?, si chiese sarcasticamente un poeta
all’alba della Rivoluzione francese, quando l’antichità veniva
sistematicamente saccheggiata per ricavarne pose di virtù repubblicana e
odio per la tirannide (il pugnale di Bruto! il rigore di Licurgo! la
congiura di Catilina!). Il mondo è vuoto dopo i romani, sospirava
Saint-Just, l’Arcangelo del Terrore, in certi suoi appunti non destinati
alla pubblicazione. Che la nostra modernità politica, nel momento in
cui si sforzava di creare una situazione totalmente inedita, ricorresse
al mondo classico per ricavarne esempi e insegnamenti, è un fenomeno di
cui non bisognerebbe smettere troppo presto di stupirsi. Lo stupore è il
miglior antidoto alla noia.
Questo per dire quanto stupore nasce in me quando non provo noia nel
leggere, ai giorni nostri, l’ennesima riscrittura di qualche storia o
mito classico. Passino i peplum , i kolossal come Il gladiatore ,
confezionati a fini di onesto intrattenimento. A stupirmi è chi lo fa
sul serio e ci riesce, come per esempio Alessandro Barbero nel suo
ultimo romanzo, Le ateniesi (Mondadori), ambientato ad Atene al tempo
della guerra del Peloponneso, per metà smagliante cronaca della messa in
scena della Lisistrata di Aristofane, irresistibile commedia in cui le
donne stanche di guerra ricattano sessualmente i mariti negandogli le
gioie del talamo per obbligarli a fare la pace, per metà cupa storia di
violenza e stupro ai danni di due fanciulle libere ma povere per mano di
tre arroganti ragazzotti aristocratici. L’Atene di Barbero non è quella
di Pericle, o meglio non è quella che il luogo comune pretenderebbe che
sia: è divisa, diffidente, violenta, tormentata, attraversata dal
conflitto di classe e dalla lotta tra i sessi, esemplare più per i suoi
aspetti sinistri che per quelli luminosi (tra cui Aristofane, a petto
del quale tutti gli attuali vignettisti, comici e autori di satira
possono andare a nascondersi). Ma soprattutto è strana e sorprendente,
non contaminata dalla plumbea coltre di uniformità che porta a dire ma
sì, è poi sempre la stessa storia, gli antichi erano proprio come noi.
Perché non è vero. Gli antichi erano diversi, meno familiari che
estranei. Ciò che davvero conta è ciò che ci divide da loro. Niente li
tradisce di più, niente li rende meno nutrienti della pigra retorica
circa il fatto che sono «le nostre radici». Se è vero, si tratta di
radici contorte.
Faccio un altro esempio: qualche anno fa, Baricco ha riscritto l’ Iliade
eliminando completamente la presenza degli dèi. Il risultato è alquanto
dubbio, ma non per una supposta infedeltà all’originale. Con ogni
storia ogni autore può fare ciò che vuole. Ma quella storia lì senza gli
dèi non si capisce, e per ragioni non immediatamente ovvie. Il punto è
che gli dèi di Omero sono fatui, superficiali, ridicoli, spregevoli; si
mescolano alla tragedia degli uomini per capriccio, divertimento,
puntiglio; cambiano casacca, tifano, intrigano, bisticciano come comari e
la sera si ritrovano tutti a banchettare sull’Olimpo. È la loro miseria
etica a far risaltare la grandezza, il coraggio, il dolore, l’eroismo
degli uomini e delle donne mortali, che pagano di persona lo spettacolo
offerto a quelle banderuole. La gloria umana rifulge nell’infamia degli
dèi.
Nel primo testo scritto della cultura occidentale, là dove ci
aspetteremmo di trovare i fondamenti della religione greca, vediamo
invece un cielo che sarebbe più pietoso, e più dignitoso, se fosse
vuoto. Gli dèi di Omero quando non fanno rabbia fanno ridere. Nell’
Odissea non gli va molto meglio, e nell’ Eneide a guardar bene nemmeno;
con qualche azzardo si potrebbe sostenere che nell’intera tradizione
epica il piano del divino non è quello più nobile e interessante (gli
importa più di Dio o del suo orgoglio, a Orlando che muore a
Roncisvalle? non sono più affascinanti i diavoli degli angeli in Tasso o
in Milton?). Strano ma vero, verificabile ad apertura di pagina.
Eliminarli significa privarsi non solo di un formidabile effetto di
contrasto, ma anche di una stranezza, di una anomalia, di un punto cieco
da cui c’è molto da imparare.
Ecco allora perché le riscritture del mito e dell’antico veramente
riuscite sono quelle in cui a quel mondo viene restituita la sua
opacità, la sua enigmaticità, la sua distanza, lo smarrimento che
suscita più che la sua esemplarità vera o presunta. Capolavori come La
morte di Virgilio di Hermann Broch, Le memorie di Adriano di Marguerite
Yourcenar, Giuliano di Gore Vidal o Il mondo estremo di Christoph
Ransmayr (dove si evoca l’esilio del poeta Ovidio sul Mar Nero) non si
presentano come il facile travestimento di verità sempre sapute ma come
lo specchio oscuro in cui, attraverso ciò che non sappiamo di loro ,
intravediamo ciò che non sappiamo di noi . Non è la minor prova della
genialità mitopoietica di Pasolini il fatto che la Grecia dei suoi film
non sia quella apollinea delle cartoline, ma quella barbarica e crudele
dei delitti e dei sacrifici umani. E quando il padre della psicoanalisi,
Freud, ha ripreso in mano il mito di Edipo, non lo ha fatto per
conciliare ma per turbare i sonni del suo secolo (prova ne è che in
tanti se ne turbano ancora), così come continua a turbarci il Dioniso di
Nietzsche.
Radici contorte. Enigmi più che soluzioni. Differenze che stimolano
l’intelligenza e accendono l’immaginazione. È la cosa più preziosa che
gli antichi hanno da insegnarci. Una lezione di alterità tanto più
necessaria quanto più il mondo globalizzato sta diventando uno solo a
prezzo di avvicinarci a velocità vertiginosa esseri umani e forme di
vita molto difficilmente conciliabili con la nostra. Pensiamo davvero di
affrontare la sfida del confronto con i migranti che si avviano a
ripopolare l’Europa, oppure con l’India e con la Cina, raccontandogli
qualche favola edificante sulla democrazia? Non converrà invece guardare
dietro alla parola, chiedersi quando nasconde oltre e più di quanto
dice? Capita spesso di pensare agli stranieri extraeuropei come a
barbari i quali, si sa, non hanno ancora raggiunto «il nostro livello di
sviluppo».
Miope strategia. Molto più utile esercitarsi a rovesciare la prospettiva
immaginando gli antichi come dei barbari, degli stranieri tra noi.
Riscoprire quanto siano barbare le nostre radici sarà forse inquietante,
ma di certo non sarà noioso.
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