lunedì 2 novembre 2015
Galasso su Danton
di Giuseppe Galasso Corriere La Lettura 1.11.15
Georges-Jacques Danton era nato ad Arcy-sur-Aube, in Champagne, a circa
30 chilometri da Troyes, il 26 ottobre 1759. Le sue radici nella
provincia francese sono confermate dalle sue origini in quel tessuto
sociale semplice (agricoltori, artigiani, piccoli borghesi di varia
professione, piccolo clero, di poco o di molto al di sopra della marea
dei poveri), che era l’inesauribile retroterra da cui traeva le sue
reclute la metropoli parigina.
Dopo una sommaria istruzione ad Arcy e studi senza gran profitto al
seminario di Troyes, Danton approdò nella primavera del 1780 a Parigi.
Era un uomo molto alto e di grande corporatura, dalla voce possente. Da
bambino era stato ferito al labbro e al naso. Il volto portava evidenti i
segni del vaiolo. Non era un uomo avvenente. Statura, aspetto e voce
gli davano, però, un notevole carisma fisico, al quale aggiunse quello
di un’eloquenza trascinante. Michelet lo definì «contemporaneamente
leone e uomo». Certo, attraeva molto le donne.
A Parigi, fu prima praticante, poi avvocato in proprio. Grazie al
matrimonio con Antoinette-Gabrielle, figlia di François Charpentier,
proprietario del Cafè Parnasse o Cafè de l’École, ebbe i mezzi per
comprare l’ufficio di avvocato nel Consiglio del re, ma non ebbe mai un
vero successo professionale. Si completò in quegli anni il suo profilo
culturale e nacque il suo interesse per la politica, ma già a questo
proposito i pareri su di lui divergono di molto. Per alcuni la sua
formazione culturale fu modesta e non andò oltre un livello medio allora
diffuso. Per altri, invece, non fu così. Ma Danton sapeva di latino, e
la sua vigorosa eloquenza fa ritenerne non sporadiche le frequentazioni
culturali.
Ancor più contrapposti sono i pareri sulla sua azione e le sue opinioni
politiche. Per gli storici della rivoluzione più radicali Danton fu fino
al luglio 1789 «mite, modesto e silenzioso». Solo dopo si rivelò quel
tribuno e uomo di azione che fu fino alla morte, e fu anche assente
nelle giornate cruciali della rivoluzione, apparendovi la vigilia o
l’indomani, e brillando davvero solo nell’agosto 1792 e nel marzo 1793,
quando la rivoluzione apparve in estremo pericolo. Per altri (Michelet,
gli storici legati alla tradizione democratica francese) egli fu il
grande eroe e uomo d’azione della rivoluzione, che ne salvò le sorti nel
momento di maggiore rischio e tentò di dare ad essa la prospettiva del
Terrore come inevitabile esigenza di una provvisoria dittatura
patriottica, che doveva aver chiaro l’obiettivo finale di un regime di
libertà.
La cronaca di quegli anni non permette di ingigantirne ed eroicizzare
l’azione, ma certo lo mostra tra i protagonisti decisivi della
rivoluzione e fra i più chiaroveggenti sulla necessità e i modi di
concluderla. Fu attivo fin dal primo momento. Aveva fondato nel 1790 il
Club dei Cordiglieri, che fu il suo primo luogo di influenza politica.
Ebbe varie cariche, e fu poi tra i maggiori promotori della giornata del
10 agosto 1792 e della decadenza della monarchia. Ministro della
Giustizia nel governo girondino allora formato, esorbitò di molto dai
suoi compiti ministeriali, promuovendo la reazione all’invasione
austro-prussiana della Francia, che pareva prossima al successo. Non si
oppose ai massacri del settembre 1792, e a Parigi fu eletto alla
Convenzione, dove votò per la morte del re. Gli attacchi, anche sul
piano morale, dei Girondini, irritati del suo comportamento da giacobino
nel loro governo, contribuirono a portarlo nelle braccia dei
Montagnardi. Fece votare la creazione del Comitato di salute pubblica,
di cui fu a capo dall’aprile al luglio 1793. Non ebbe parte
nell’eliminazione dei Girondini, ma cercò di moderare gli eccessi
giacobini. Il 10 luglio 1793 fu perciò escluso dal Comitato di salute
pubblica, in cui entrò invece Robespierre.
Si fece allora da parte. Era diventato ricchissimo, fornendo così ampia
materia alla sua immagine di uomo corrotto; e, vedovo, sposò il 1°
giugno 1793 la sedicenne Louise Gely, che alcuni accusarono della sua
rovina, perché lo avrebbe indotto a preferire le gioie domestiche e
campestri di Arcy alla bolgia parigina. Poi, quando Desmoulins per suo
suggerimento iniziò sul suo giornale una campagna contro il Terrore,
Robespierre fece arrestare nel marzo 1794 lui e i suoi amici, come aveva
fatto con la sinistra giacobina. In un processo, in cui gli accusati
non poterono neppure difendersi, vi fu la prevedibile condanna, eseguita
il 5 aprile. Contrapposta in positivo o in negativo a quella di
Robespierre, la memoria di Danton fu, come si è detto, combattuta e
controversa. Quella lettura sinottica è, però, sempre meno persuasiva.
Appare sempre più chiaro che la rivoluzione non poté fare a meno di
Robespierre, e non diede a Danton, al di là delle sue personali
deficienze, il tempo di definire e realizzare le sue intuizioni su
quella che poteva essere, e poi fu, la conclusione della rivoluzione.
Non era la prima volta, nella storia, di un simile duplice non , e non
sarebbe stata l’ultima.
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