Padre Ambroise-Marie Carré era così zelante nella predicazione che esercitava quest’arte persino nei teatri, nei casinò e nei cinema, dove l’accesso gli era facilitato dall’amicizia di numerosi artisti. Padre Carré non fece molto parlare di sé se non per le sue prediche e la sua intensa attività pastorale. Aveva altre cose in mente. E la più importante per lui era il dramma spirituale che ha accompagnato la sua vita. Le sue confidenze al riguardo sono poche, frammentarie, non sempre facili da interpretare. Il testo più importante conta solo una ventina di pagine. Si trova all’inizio di un libro intitolato Chaque jour je commence, pubblicato nel 1975: «[Questo ricordo] mi accompagna come una presenza al tempo stesso dolce ed emozionante. Mi accompagnerà fino all’ultima ora. Uno sguardo basta a rianimarlo, uno sguardo a quella finestra dell’edificio in cui, a Neuilly, abitava la mia famiglia. Quanti anni avevo? Quattordici, mi sembra. Una sera, nel piccolo vano che usavo come camera, sentivo, con una forza incredibile che non lascia spazio all’esitazione, di essere amato da Dio e che la vita, là, davanti a me, era un dono meraviglioso. Soffocato dalla felicità, sono caduto in ginocchio».
Ovviamente, il padre ha visto in Neuilly la più grande impresa della sua vita, un picco insormontabile. Tuttavia, con il passare del tempo, si è abituato alla sua felicità. E poco a poco l’ha ridotta a un semplice punto di partenza per una concezione dinamica del suo futuro religioso. Questo progetto riflette un’ambizione mistica tipicamente occidentale e moderna. Noi occidentali non siamo mai soddisfatti di ciò che il Cielo ci manda; sogniamo tutti conquiste originali e gesta incomparabili. Come molti altri aspiranti moderni alla santità, padre Carré ha preso per modelli quelli che la nostra società ammira, gli uomini d’azione, i «registi», gli «imprenditori» nel senso quasi americano della libera impresa. Con il passare degli anni, il padre era nell’attesa, sempre più impaziente, di nuove esperienze mistiche che non arrivavano mai.
Gli effetti di questa siccità spirituale si sono aggiunti ai disastri nel mondo e al disordine nella Chiesa per minare la fiducia di padre Carré nella bontà e talvolta anche nell’esistenza di Dio: «Signore se esisti, restituiscimi le mie certezze. E se tuttavia mi lasci nell’oscurità, concedimi la profonda convinzione che questo momento di angoscia ha la sua utilità». A che cosa padre Carré si è aggrappato per tutta la vita? All’«unico evento che abbia mai messo tanta evidenza nella fede». Invece di comportarsi come un bambino viziato e reclamare sempre di più, padre Carré comprese che avrebbe dovuto coltivare modestamente, devotamente, la grazia della sua giovinezza. Non è stato Dio a gettarlo nell’incertezza, ma la sua eccessiva ambizione. Dopo mezzo secolo di un’attesa sempre vana, padre Carré si decise finalmente a guardare le cose in faccia: per la prima volta, cercò davvero di far rivivere l’evento straordinario che, a volte negativamente, ma soprattutto in modo positivo, aveva dominato tutta la sua esistenza. E, improvvisamente, ecco che il miracolo dei giorni antichi si rinnovava. Sotto i suoi occhi, l’esperienza di Neuilly mutava e una bella addormentata nel bosco emergeva, radiosa, da una lunga notte oscura. Padre Carré cerca dei testimoni a lui vicini e ne trova; per esempio Julien Green, di cui cita una frase: «Il ricordo di una grazia passata, può essere una nuova grazia». Sembra che il testo maggiormente rivelatore sia anche il più tardivo di tutti. Si tratta di una nuova conclusione per la riedizione di un libro su La Sainteté.
Uscirà nel gennaio 2004, lo stesso mese della morte di padre Carré. È un mirabile bilancio di tutta la vita religiosa del suo autore: «Entro nel mio novantaseiesimo anno. Il Signore mi ha colmato di grazie giacché mi ha conservato così a lungo nel dolce regno della terra, probabilmente per esercitare il ministero della senilità, che consiste di preghiera e intercessione ». Lungi dal definire l’esistenza in questo mondo come una valle di lacrime, padre Carré celebra il «dolce regno della terra ». Nei suoi periodi di «concitazione», penso che si sia molto biasimato per il suo troppo amore per le cose di questo mondo. Ora, se lo perdona.
René Girard esploratore del sacro Si è spento lo studioso francese: dimostrò che il Vangelo smonta la logica del capro espiatorio 6 nov 2015 Corriere della Sera Di Alberto Melloni ©
Comprendere «nello stesso momento, perché i credenti dapprima, e sul loro esempio i non credenti poi, sono sempre passati vicino al segreto, peraltro così semplice, di ogni mitologia»: è stata questa l’ambizione e l’esito della ricerca del francese René Girard, che si è spento a Stanford, negli Stati Uniti. Una ricerca che era impossibile (lo dimostra l’intervista autobiografica del 1994 con Michel Treguer) incasellare nei riquadri angusti delle discipline accademiche.
Negli Stati Uniti, dove trova cattedra e famiglia, è un docente di Letteratura francese, che spreme il testo in un modo che da cinquant’anni spinge filosofi, antropologi, psicoanalisti, teologi ad annettersi Girard o a ripudiarne le conclusioni costruite in un sistema complesso, al cui fondo sta la chiave del suo pensiero: cioè la scoperta del desiderio mimetico, che appare già in Menzogna romantica e verità romanzesca del 1961. Quel desiderio che porta a desiderare quel che l’altro desidera (per questo mimetico) e che — a differenza del desiderio «oggettuale» freudiano della libido, che ha bisogno di una filosofia della coscienza — genera un dinamismo triangolare fra oggetto del desiderio, l’altro desiderante e il soggetto desiderante.
Da questa ricerca iniziata con Dostoevskij arriva l’opera che ne fa un filosofo e un antropologo della religione: La violenza e il sacro del 1972 (Adelphi, 1980) elabora una teoria della genesi della religione. Nella mitologia e nella sua elaborazione filosofica e letteraria Girard ritrova l’atto iniziale di occultamento che «inganna la violenza»: il «sacro» che assorbe la violenza destinata fatalmente a nascere e la riversa su una entità non vendicabile e insieme in apparente continuità con coloro al posto dei quali viene sacrificato. Così il capro espiatorio placa e fonda la società in questa ombra religiosa che è «il sentimento che la collettività ispira ai suoi membri, ma proiettato fuori dalle coscienze che lo provano, e oggettivato».
La sfida alla antropologia e alla psicoanalisi (e dunque a Lévi Strauss e a Freud) implicita in questa opera capitale del Novecento prosegue nel testo forse più complesso e suggestivo di Girard, che è il dialogo-intervista con Jean-Michel Oughourlian e Guy Lefort Sulle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo, del 1978 (Adelphi 1983): una fitta disamina che apre al lungo corpo a corpo con il testo biblico, in una ricerca che non è «una soluzione di ripiego rispetto alle ambizioni della filosofia, una saggia rassegnazione. È un’altra maniera di soddisfare quelle ambizioni».
Girard infatti scopre con una sua esegesi che la stratificazione ermeneutica si posa sul testo neotestamentario, in vista di una riconquista «vittimaria» del racconto: che invece, nella vicenda concreta del Gesù storiforza co, neutralizza il meccanismo del capro espiatorio. La potenza teologica di questa intuizione non sarà colta fino in fondo (solo Il vitello d’oro e L’estasi del profeta di Pier Cesare Bori andarono in quella linea e oltre): ma assumendo la «propria» religione l’ebreo Gesù ne libera la demistificatoria e smaschera la pretesa cristiana di universalizzarne il messaggio riducendolo a «dieci comandamenti» che, in nome di una etica per tutti, esalta la «unanimità della violenza».
Scoperta capitale, questa di Girard, anche per la storia: perché se la vittima diventa «Agnello di Dio» ed esce dalla sua passività regolatrice, l’uomo si vede riconsegnata la propria violenza, il religioso la propria immanenza e Dio la trascendenza sua. Gesù di Nazareth, la vittima «perfetta ed innocente» che sta dalla parte delle vittime e che come tale ingloba la fine ultima del tempo, consegna alla storia una «responsabilità» (per dirla con Emmanuel Lévinas).
In Portando Clausewitz all’estremo del 2007 (Adelphi, 2008), Girard osserva: «Il cristianesimo è la sola religione che abbia previsto il suo fallimento: questa prescienza è nata come apocalisse. Infatti è nei testi apocalittici che la parola di Dio è più energica, ripudiante quegli errori che sono interamente colpe umane che sono sempre meno inclini a riconoscere i meccanismi della loro violenza. Quanto più persistiamo nell’errore nostro, tanto più forte la voce di Dio emerge sulla devastazione. (...) Una volta nella nostra storia la verità sull’identità di tutti gli umani è stata pronunciata, e nessuno ha voluto udirla; invece ci siamo concentrati sempre più ossessivamente sulle nostre false differenze».
Le false differenze di cui, come spiega nella produzione degli ultimi anni, la violenza si ripresenta nella sua «forma di sacro corrotto»: l’immobilismo di quel «Satana» che è il nome comune di tutte le «escalation verso l’estremismo» deve essere sfidato alla radice o nel suo «inizio». Non con effusioni effimere fra «moderati», ma con l’intelligenza urticante che sa che «cercare conforto è sempre un modo di contribuire al peggio».
Desiderio, un teatro dell’invidia
Ritratti. Filosofo, antropologo, storico delle religioni e critico letterario: addio allo studioso del desiderio mimetico, che nei suoi libri si congedò dallo strutturalismo di Lévi-Strauss e decostruì la psicoanalisi Alessandra Pigliaru Manifesto 6.11.2015Filosofo, critico letterario, storico delle religioni, sociologo, antropologo. Questo e molto altro è stato René Girard, straordinario osservatore delle relazioni umane. Scomparso ieri all’età di 91 anni, lascia alle proprie spalle una tra le eredità più affascinanti e originali del Novecento. La morte, dopo una lunga malattia, è stata annunciata nel sito dell’università di Stanford — dove Girard ha insegnato fino al 1981 – grazie a Cynthia Haven che attualmente sta ultimando la monografia The Last Hedgehog: René Girard, A Life.
La sua collocazione nel post-strutturalismo non restituisce la complessità del suo pensiero, né dell’incessante volontà di trovare un varco che gli consentisse già dai primi anni Settanta di congedarsi da Lévi-Strauss detonando infine la psicoanalisi freudiana a cui, in realtà, non ha mai aderito interamente se non concentrandosi su alcuni nodi concettuali cari a chi è stato suo interlocutore, vicino e a tratti troppo lontano. Tra i tanti ricordiamo Foucault, Deleuze, Barthes, Derrida. Sta di fatto che la circolazione e la ricezione delle teorie di Girard sono state di rilievo mondiale e gli hanno assicurato un posto tra gli intellettuali più rappresentativi della sua epoca. Già dal 1961, con il suo primo libro, Menzogna romantica e verità romanzesca (Bompiani, 1965) affronta la sua teoria più nota, quella del desiderio mimetico. Attraverso il romanzo moderno comincia a profilare la teoria secondo cui il desiderio è una triangolazione tra il soggetto, l’oggetto e il mediatore (il modello) che suscita l’interesse della comunità scientifica internazionale. Che il primo nucleo della teoria del desiderio mimetico si inserisca in un volume di critica letteraria segnala il grande amore di Girard verso le scritture, un amore consapevole della potenza che la letteratura ha di spiegare e rappresentare l’umana condizione e ciò che la infelicita, certo una significazione irraggiungibile dalle scienze sociali. Scrive pagine densissime nel suo Dostoevskij dal doppio all’unità (1963, poi SE 1987) e in Critique dans un souterrain (1976), sempre dedicato al romanziere russo. Il pungolo letterario non smette di interrogarlo; fondamentale il suo Shakespeare. Il teatro dell’invidia, del 1990 (Adelphi, 1998) con successive incursioni nei testi di Stendhal, Flaubert, Proust e molti altri. Nella primavera del 2008, per le edizioni della Stanford University, pubblica il volume Mimesis and Theory: Essays on Literature and Criticism, 1953–2005 che descrive bene la formazione e il dipanarsi del grimaldello critico della mimesis all’interno della letteratura.
Il desiderio non è una spontanea manifestazione dell’autonomia individuale, ecco la menzogna romantica e la conseguente verità romanzesca che si evince da alcuni esempi che Girard, dai primi anni Sessanta, non abbandona. Uno tra tutti è ascrivibile al capolavoro di Cervantes là dove Don Chisciotte comincia la sua impresa imitando colui che considera un modello di cavaliere errante, Amadigi di Gaula. Il mimetico interviene a spiegare che non si desidera mai un oggetto in maniera lineare, bensì solo in virtù di ciò che desidera l’altro che tuttavia da modello si trasforma presto in rivale, soprattutto nei casi di «mediazione interna» quando cioè il soggetto desiderante e il modello si confrontano reciprocamente sull’impossibilità di desiderare entrambi la stessa cosa. Il conflitto che ne scaturisce può raggiungere picchi esiziali dando luogo a odio, vendetta e violenza. Si desidera ciò che l’Altro possiede, certo, ma a ben guardare anche colui che ci fa accedere al desiderio. E se i paraggi lacaniani a un risultato simile non potranno sfuggire, la differenza è sostanziale: ciò che per Lacan si tratteggia nel simbolico per Girard accade su un piano antropologico, culturale e sociale. Il simbolico lacaniano, per Girard, non tiene conto dell’aspetto materiale. Una miopia, la stessa che attribuisce anche a Freud, verso l’esito della mimesi; quel che davvero dovrebbe interessare è, infatti, il momento della crisi sacrificale. È all’altezza del suo La violenza e il sacro pubblicato nel 1972 (Adelphi 1980) che si congeda dallo strutturalismo e quindi da Lévi-Strauss e decostruisce le posizioni freudiane, definendo meglio la scommessa del mimetico. Mostra il legame tra la teoria mimetica e la violenza attraverso una rilettura analitica di miti e riti classici.
Se alla psicoanalisi manca l’aggancio con il reale, con la cultura materiale, che consentirebbe di interagire diversamente con il mito classico e con la tragedia greca, è appunto nella violenza e nella sua reciprocità che poggia il vincolo sociale. È il sacrificio, inteso come «una violenza senza rischio di vendetta», che interrompe la sequela della tensione mimetica conducendo all’individuazione di una vittima espiatoria, un altro a cui poter attribuire tutta la carica violenta che manderebbe in cortocircuito l’intera comunità; un altro che possa essere espulso o ucciso e che fermi temporaneamente il propagarsi della violenza.
L’innocenza è secondaria. È invece interessante come il sacrificio, per essere tale, corrisponda a una resa prestabilita di possibili reazioni vendicative. La vittima è interna al sistema sociale, consolida una somiglianza con chi o cosa va a sostituire, e ciò nonostante resta un chiunque la cui perdita è disposta come necessaria e ugualmente trascurabile. Nella figura della sostituzione sta il carattere casuale del sacrificio rituale giacché se per un verso vi è una scelta riconoscibile, condivisa, d’altra parte è presente la connotazione del «capitare a tiro» di una vulnerabilità. I caratteri sacrali assunti dalla vittima il cui sacrificio pone fine al contagio della violenza, sono della stessa intensità dell’attribuzione arbitraria di responsabilità non sue.
Tassonomie delle passioni umane, i testi di Girard raccontano di furore, ira, risentimento disseminati nei luoghi tragici più incandescenti. È in questa direzione che si apre la riflessione su Edipo, il capro espiatorio di cui Freud non ha colto il tenore. Nel libro di interviste del 1978, Quando queste cose cominceranno (Bulzoni 2005) e in Il capro espiatorio (1982, poi Adelphi 1987) dettaglia con altrettanta chiarezza il meccanismo vittimario, spostandosi tuttavia alle cose ultime e alla parola biblica. Cattolico raffinatissimo, viene eletto membro dell’Académie française il 17 marzo del 2005 entrando nella categoria degli immortali.
Le due cose da ricordare su René Girarddi Armando Massarenti
René Girard è morto nei giorni scorsi all’età di 91 anni. Le sue opere più importanti sono Menzogna romantica e verità romanzesca (Bompiani), del 1961, e La violenza e il sacro (Adelphi), del 1972. Nella prima Girard teorizza il «contagio delle passioni» e il «desiderio mimetico», di cui il cosiddetto “bovarismo” è l’esempio più chiaro.La giovane Emma Bovary non sa che cos’è l’amore e impara a desiderare solo attraverso le eroine di cui legge. Allo stesso modo Don Chisciotte rinunciava a desiderare in proprio affidandosi interamente al modello della letteratura cavalleresca. Il «desiderio mimetico» è dunque un «desiderio triangolare», presuppone l’esistenza di un mediatore. A partire da questo semplice schema Girard ha analizzato molte opere letterarie e svolto analisi assai sottili su concetti come risentimento, gelosia, invidia. L’unico modo di sottrarsi a questo modo falso di desiderare è la passione, indirizzata direttamente all’oggetto del proprio desiderio. La troviamo teorizzata nel saggio Dell’amore, di Stendhal, i cui romanzi comunque non sfuggono alla regola di Girard. Ma se pure i grandi romanzieri non si sottraggono a quella legge inesorabile, possono avere il pregio di palesarne il meccanismo. La passione potrà realizzarsi dopo aver superato il meccanismo grazie alla consapevolezza del suo funzionamento. E i romanzieri, se vogliono che la loro opera sopravviva alla transitorietà delle mode divenendo dei classici, devono scoprire questa sorgente essenziale del conflitto umano. Girard ci ha anche mostrato quanto essenziale sia, per il senso religioso, la nozione di vittima sacrificale, di «capro espiatorio». Come ha scritto ne Il sacrificio (Cortina), a lungo l’umanità ha consumato sacrifici umani. Aver pensato di sostituirli con animali, o di renderli del tutto simbolici, ha costituito un primo progresso per la religione e la civiltà. Ma il salto più grande, sostiene Girard, l’ha fatto colui che autoimmolandosi, e dichiarandosi l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo, ha voluto smascherare per sempre il meccanismo che spinge gli uomini – anche nella vita quotidiana – a sacrificare di quando in quando una vittima, convogliando su di lei una serie di colpe che non ha. La necessità di una vittima sacrificale è profondamente radicata nella psiche umana. Ma il progresso morale, religioso, civile, giuridico, consiste proprio nel saperla neutralizzare. Ce lo ha insegnato niente meno che il fondatore del cristianesimo. Che a non cogliere la centralità, e la carica rivoluzionaria, di questa idea siano spesso proprio i cristiani è stato uno dei crucci del pensatore francese, che avrebbe ben potuto riassumere il suo ideale di civiltà in un semplice slogan: «Mai più vittime innocenti!».
Nessun commento:
Posta un commento