"War is over!" L'Italia della Liberazione nelle immagini dei U.S. Signal Corps e dell'Istituto Luce, 1943-1946, a cura di Gabriele D'Autilia ed Enrico Menduni, Contrasto
Risvolto
"War is over!", a cura di Gabriele D'Autilia ed Enrico Menduni, mette a confronto due diversi sguardi che raccontano la Liberazione in Italia: quello delle fotografie a colori dei Signal Corps dell'esercito americano e quello delle immagini in bianco e nero dei fotografi dell'Istituto Luce, molte delle quali inedite o precedentemente censurate. La Liberazione dell'Italia durò due anni, dallo sbarco degli angloamericani in Sicilia nel luglio 1943 alla resa dei tedeschi nell'aprile 1945. Questo processo lungo e doloroso fu messo straordinariamente in scena dai due opposti sguardi fotografici dei fotografi dell'Istituto Luce e dei Signal Corps dell'esercito americano. Sguardi che restituiscono due Italie e due diverse guerre e si osservano reciprocamente e che oggi sono per la prima volta messi a confronto e presentati al pubblico, per iniziativa dell'Istituto Luce-Cinecittà e dell'Assessorato alla Cultura e allo Sport-Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, in un volume con un ricco apparato critico. Il libro, introdotto da testi di Gabriele D'Autilia ed Enrico Menduni, è diviso in diverse sezioni tematiche che raccontano la fine della guerra: pagina dopo pagina le fotografie documentano gli anni della Liberazione attraverso i volti degli sconfitti, il dolore, i monumenti distrutti, ma anche attraverso momenti di vita quotidiani, tra abbracci, divertimenti e attimi di sconforto.
La pagina della mostra 17 foto da Repubblica
Fino al 10 gennaio a Palazzo Braschi, Roma, la mostra «War is over!», 140 scatti selezionati che raccontano il conflitto bellico e il dopoguerra attraverso le foto (a colori) dei soldati Usa e (in bianco e nero) dei nostri. Due modi opposti di sentire la Storia
Massimo M. Veronese il Giornale - Mer, 30/12/2015
La guerra è finta
MICHELE SMARGIASSI Repubblica 1 11 2015
VEDERE IL MONDO CON GLI OCCHIALI ROSA. E AZZURRI, e verdi, e gialli, “tutti quei bei colori brillanti”, cantava Paul Simon in Kodachrome , “ti fanno credere che il mondo sia sempre un giorno di sole”. Ma la guerra no. Quella, perché ci sembri vera, dobbiamo immaginarcela sporca, fosca, catramosa. La fotografia della guerra è in bianco e nero per definizione, no?
No. Dipende. Nel corso della Seconda guerra mondiale i soldati-fotografi americani dei Signal Corps (possente servizio di propaganda visuale) scattarono a colori, più spesso di quanto immaginiamo. Un patrimonio poco visto, che emerge oggi dagli archivi dell’agenzia federale Nara di Washington. Del resto, si poteva fare: la prima pellicola commerciale a colori in rullino, la Kodachrome appunto, era stata lanciata in Usa nel 1935, ma i nemici-colleghi tedeschi di Signal (curiosa assonanza, vero?) risposero subito con le loro Agfacolor. Perché allora i libri di storia dell’ultima guerra non sono pieni di foto a colori? Più costose, più lente da realizzare, più laboriose da stampare, d’accordo. Ma il vero motivo è un altro. La scelta fra colore e bianco e nero non fu davvero tecnica, neppure estetica. Fu ideologica. Politica. Negli anni Quaranta il colore esplodeva nel cinema, Via col vento è del 1939, colorata era la lingua della réclame sulle riviste, insomma la tavolozza parlava il linguaggio del sogno, del benessere. I cinegiornali e le pagine di reportage di Life o del Picture Post invece erano monocromi, quello era il linguaggio del presente, della realtà, della vita dura. Curiosa inversione dei termini rispetto al luogo comune che vorrebbe la fotografia a colori più “realistica”. Al contrario, il colore fu usato per rassicurare, nascondere, cancellare l’impressione della guerra e relegarla prima possibile in un passato — appunto — grigio. Quegli squillanti reportage militari policromi comparvero tra la fine del conflitto e il primo dopoguerra sui rotocalchi di propaganda alleata, come Victory o Nuovo Mondo : erano la carta moneta della speranza, spesa per acquistare il consenso degli occupati, come le Am-lire e le tavolette di cioccolata. Preparavano il terreno all’incombente pax americana . Un cielo azzurro normalizza una divisa kaki, il marine sembra un turista in gita al lago. Scene premeditate da precise direttive del War Department, elaborate con la consumata sapienza di sceneggiatori di Hollywood, il gusto del contrasto spiritoso, la didascalia azzeccata, l’uso ammiccante dello stereotipo: la soldatessa glamour scherza con contadine da cartolina in costume tradizionale, le lavandaie alla fontana di Trevi, aneddoti (non si dice forse: pittoreschi?) che stemperano i segni della guerra e trasformano un’occupazione militare in una specie di party in costume. Perfino la conferenza di Potsdam ripresa a colori sembra la première di un film di Venezia.
«Colorare il mondo è un modo per negarlo» scrisse Roland Barthes in Miti d’oggi . Sì, il colore fa spesso questo effetto, la sua estetica diventa facilmente un’anestetica, un ansiolitico visuale, in fondo una bugia. Nel 2008 il Comune di Parigi fu travolto dalle polemiche per aver messo in mostra i fotocolor scattati tra il 1940 e il 1944 dal fotografo collaborazionista André Zucca: sotto il tallone di Hitler, Parigi appariva troppo brillante. Uno come Robert Capa lo sapeva, e per quanto anche lui avesse nel tascapane una scorta di Ektachrome, non affidò certo a loro le sue icone più celebri e drammatiche, e dopo la guerra riservò il colore ai servizi turistico-divistici più spensierati per Holyday (salvo morire su una mina in Indocina, scattando la sua ultima foto: a colori).
Poi però ecco, di recente saltano fuori dagli archivi dell’Istituito storico di Biella tre rullini di Carlo Buratti, nome di battaglia Aspirina, medico, fotoamatore evoluto e comandante partigiano: tre album a colori di una Resistenza che non somiglia a quella che immaginiamo, ragazzi e ragazze in posa tra prati verdi e casolari assolati del Canavese, più un picnic che una guerriglia. Buratti nascose quei rullini e li stampò solo dopo la Liberazione: liberate anche loro, a conquistare la rossa primavera. Sì, i colori ci ingannano, come la propaganda. A volte, come la speranza.
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